venerdì 12 agosto 2011

ELLIOTT SMITH - FIGURE 8

Ci sono uomini,musicisti,che hanno un destino segnato.Cercano nella musica il senso di un'esistenza precaria,qualcosa che consenta loro di superare l'inadeguatezza al mondo,alla gente,alle cose di tutti i giorni.Scavano nelle note,per trovare melodie che giustifichino in qualche modo il loro essere in vita,il dolore immenso di non voler essere vivi o quello di volerlo essere di più.Fragili ed irrequieti, si aggirano come immagini diafane ed innafferabili in un immaginario collettivo musicale col quale non hanno nulla a cui spartire.Sono personaggi loro malgrado e finiscono per essere veri solo nelle canzoni che scrivono.Si aggrappano alla musica per restare a galla,ma alla fine,irrimediabilmente,il vortice dell’esistenza  li risucchia.E se ne vanno per sempre,lasciando un vuoto incolmabile nelle nostre anime a cui le loro musica aveva dato rifugio.La storia del rock ne ha conosciuti parecchi di questi magnifici perdenti.Kurt Cobain,ad esempio,ed il suo disagio urlato in faccia al mondo con voce arrochita ed una chitarra distorta.Nick Drake,menestrello dolcissimo ma troppo instabile anche solo per affrontare un pubblico e cantare dal vivo le proprie delicate perle di intimismo.Tim Buckley,e poi suo figlio Jeff,che la morte non se la son data,ma in qualche strano modo l'hanno cercata,auspicata e alla fine trovata,l’uno nell’eroina e l’altro nei gorghi del Mississippi.E poi,Elliott Smith,il più distante di tutti dallo star system,il più solo,il più fragile.Smith,il classico ragazzo della porta accanto, arruffato e sgualcito,educato e gentile,ma schivo tanto da sconcertare.Smith era un nessuno fin dal cognome,tanto mediocre e dimesso nell’aspetto da essere scambiato per un fattorino nella stessa casa discografica dove andava a registrare i suoi dischi.Non resse il peso di una vita disordinata,vissuta in balia della droga e dell’alcol,e tanto meno resse il peso di una popolarità che,seppur tardiva,lo portò agli onori delle cronache per la sua partecipazione alla colonna sonora di “Will Hunting – Genio Ribelle “.Fu soprattutto  il male di vivere a ucciderlo,una disperazione così profonda e radicata,che se da un lato era il motivo di melodie tanto struggenti,dall’altro minò progressivamente l’equilibrio psicofisico del cantautore già reso precario dall’abuso di eroina.Smith se ne è andato nel modo più cruento possibile,pugnalandosi il petto,fino a trovare,dritto nel cuore,il fendente fatale.Bisogna odiarsi tanto per uccidersi così.Provare ribrezzo verso sè stessi,desiderare di cancellarsi per sempre dalla faccia della terra.Non un vero e proprio suicidio,ma qualcosa di più;non solo trafiggere un corpo,ma cercarne l'anima e farne strazio.Al momento della pubblicazione del disco,l'ultimo rilasciato in vita prima di una lunga serie di postumi,forse si poteva già intuire qualcosa del dramma che si sarebbe verificato di lì a breve  ( il pezzo conclusivo si intitola profeticamente " Bye " ).Eppure il fascino della musica,la perfezione delle composizioni,la delicatezza degli arrangiamenti,velano la tragedia imminente,la nascondono, e ci consegnano solo il miracolo di sedici canzoni di mirabile fattura.Registrato in parte presso gli Abbey Road di Londra ( dove Smith realizzò il sogno di suonare il piano che fu di Paul McCartney )," Figure 8 " procede per quadretti deliziosamente pop e solo apparentemente minimalisti.C’è anzi una maturità ed un’eleganza negli arrangiamenti grazie alla quale Smith si affranca dagli standard del folk acustico,per realizzare pienamente la sua idea di canzone di derivazione beatlesiana,che arricchisce però con una scrittura limpida e moderna.Dall'iniziale " Son of Sam " in cui l'intreccio di voci è qualcosa di più di una geniale illuminazione,alla struggente ed appassionata " Everything reminds me of her",alla melodia irresistibile di " LA ",fino alla delicata elegia in crescendo di " Everything means nothing to me ",esplicita dichiarazione di non appartenenza a questo mondo.
Blackswan, lunedì 14/03/2011

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