domenica 30 settembre 2012

SAVE A PRAYER – DURAN DURAN




Due cose mi stanno sommamente sul cazzo : in primis, ciò che venne definito “edonismo reaganiano” e che, durante gli anni ’80, massacrò di superficialità ogni ambito socio culturale, ( dalla moda alla cucina, dalla letteratura al cinema, dalla televisione alla musica ), e in secundis,il sentimentalismo ( cuorefarimaconamore-oddiosenzatenonpossovivere!), cioè la versione da casalinga disperata degli struggimenti sturm und drang del romanticismo ( che, peraltro, con l’amore avevano poco o nulla da spartirre ). In quegli anni, per certi versi terrificanti (e forse proprio per questo indimenticabili ), spesso le due cose finivano per fondersi, e in ambito musicale venivano partorite delle ciofeche tanto trash e melense, che per rimettere a posto l’apparato uditivo dovevi fare un ascolto intensivo e prolungato di Fistfull Of  Metal degli Antrax. In particolare, nacque un sottogenere della new wave che prese il nome di New Romantic, movimento che vedeva militare fra le proprie fila gente del calibro ( si fa per dire ) dei Visage ( ricordate Fade To Grey ? ), dei Culture Club ( trattengo a stento i conati ), di Limahl ( mi tocco i coglioni ), e soprattutto loro, gli Spandau Ballet e i Duran Duran. Come ogni rocker che si rispetti, evitavo accuratamente questo genere musicale con la stessa pertinacia con cui un vampiro sta lontano da uno spicchio d’aglio o da un puntale d’argento.Tuttavia, i passaggi radiofonici e televisivi delle canzoni sia dell’uno che dell’altro gruppo erano talmente invasivi che, volente o nolente, finivi inevitabilmente per farti una “cultura” in materia. Nel 1982, nonostante parecchia ottima musica in circolazione ( ricordo i Birthday Party è il loro Junkyard, Springsteen con Nebraska, gli Iron Maiden con The Number Of The Beast, i Cure di Pornography ), appena uscivi di casa, un mondo di ragazzine urlanti e di poppettari dall’improbabile ciuffo era lì a ricordarti, se mai ce ne fosse stato bisogno, che verso i primi posti delle classifiche di tutto il mondo veleggiavano soprattutto due dischi : Diamond degli Spandau e Rio dei Duran Duran, ossia il dandismo d’accatto di Tony Hadley e il bel faccino da cicisbeo di Simon Le Bon. Inutile soggiungere che ai tempi consideravo questa musica come Il sottoprodotto di una sottocultura per cui l’essenza viveva esclusivamente nell’apparire e non nei contenuti. Oggi, che sono un po’ più grandicello e ho un atteggiamento molto meno snob nei confronti della musica, mi approcio a quei due dischi con lo sguardo quasi indulgente.

Merito, soprattutto, di quella nostalgia canaglia che mi tiene legato con doppio giro di corda agli anni in cui tutto, o quasi, era leggerezza e speranza. In particolare, ma sono pronto a dissociarmi da me stesso e da questa affermazione, Rio mi sembra un buon disco. E’ vero : Simon Le Bon non sapeva cantare, gli altri suonavano col culo, se non ci fosse stata MTV col cazzo che i Duran avrebbero avuto successo e aggiungiamo anche che la copertina del disco, che ben rappresentava la disperata e ossessiva fascinazione per l’esotico che imperava in quegli anni, è a dir poco indecente. Però le canzoni c’erano e tutto sommato erano buone. Canzoni pop e indolore, ma tuttavia in grado di reggere il logorio del tempo e trasformarsi col passare dei decenni ( quest’anno sono tre ) in evergreen : l’ariosa title track, la rockeggiante Hungry Like A Wolf, la sensualissima The Chauffeur e soprattutto Save A Prayer, penultima canzone del lato B e probabilmente la migliore in assoluto della produzione del gruppo di Birmingham. Se da un punto di vista formale, Save A Prayer è un classico del suono patinato e suadente dei Duran, il testo al contrario è oscuro, sibillino, ambiguo. Parla d’amore, ma non si capisce se si tratti di un’estemporanea avventura ( “Alcuni la chiamerebbero storia di una notte Ma noi possiamo chiamarlo paradiso “ ) o dell’inizio di una lunga relazione ( “Non chiedermi perché manterrò la mia promessa, Io Scioglierò il ghiaccio “ ), anche se la sensazione dominante è quella di ascoltare il racconto di un rapporto comunque destinato a finire, soprattutto per colpa di lei (  “Ma la paura è nella tua anima “ ) . Di certo, l’interplay fra le note e le liriche è efficacissimo e si sviluppa leggero nonostante l’abbondanza di Synth, mentre si ha la sensazione che il gruppo più marcatamente anni ’80 della storia, pur non tradendo le proprie prerogative pop, per una volta riesca a scavalcare l’angusto steccato temporale e trovare la giusta misura per universalizzare il linguaggio.Non è solo il bel crescendo melodico a intrigare ( l’intreccio delle tastiere e i controcanti sono musicalmente ineccepibili ), ma è soprattutto il pathos, trattenuto e sottotraccia, a fare la differenza, istillando nell’ascoltatore un rilassato senso di malinconia e un languore nostalgico che una piccola stretta del cuore collega a un ricordo lontano. 

PS : suggerirei di ascoltare la canzone senza giardare il video che l’accompagna : è talmente brutto che renderebbe vano il benevolo contenuto del mio post.



 Blackswan, domenica 30/09/2012

venerdì 28 settembre 2012

GARY MOORE – BLUES FOR JIMI




Gary Moore che suona Jimi Hendrix. C’è bisogno di aggiungere altro ? Ci sono occasioni in cui le parole sembrano sprecate e un disco potrebbe spiegarsi solo scrivendo il titolo e inserendo un filmato. Eppure due cose voglio dirvele, solo il minimo sindacale, giusto per guadagnarmi la pagnotta del blogger. La prima è che questo concerto ( che esce in questi giorni sia in cd che in dvd ), registrato la sera del 25 ottobre del 2007 al London Hippodrome, vede Gary Moore ( chitarra e voce ), accompagnato da Dave Bronze ( basso ) e Darrin Mooney ( batteria ), alle prese con le canzoni più famose tratte dal repertorio del funambolico chitarrista americano. Nessun tentativo di andare a ripescare brani meno noti o rivitalizzare chicche conosciute solo dai completisti. No, il buon Gary, pace all’anima sua, si cimenta, senza paura, solo coi grandi classici, la cui scaletta potete pregustarvi qui di seguito :

01   Purple Haze
02. Manic Depression
03. Foxy Lady
04. The Wind Cries Mary
05. I Don't Live Today
06. My Angel
07. Angel
08. Fire
09. Red House
10. Stone Free
11. Hey Joe
12. Voodoo Child (Slight Return)

Niente male, vero ? Le seconda cosa è che nel finale incandescente, e per la precisione durante l’esecuzione del triplete cosmico Red House – Stone Free – Hey Joe, salgono sul palco, ad accompagnare Moore e a infuocare ulteriormente gli animi, due signori che con Hendrix ci suonavano davvero ai tempi degli Experience, e cioè i grandi Billy Cox al basso e Mitch Mitchell alla batteria. Ora, dal momento che i fedeli del rock sanno perfettamente che Dio era nero e che suonava la chitarra elettrica, che Moore può essere annoverato come uno dei profeti che conosceva a memoria il verbo dell’Immenso, e considerato che gli apostoli Billy e Mitch sembrano riemersi indenni dalla notte dei tempi, prendete Blues For Jimi per quello che è : una Liturgia della Parola. Salmo responsoriale : Hendrix è l’antifona e Moore ripete con devoto trasporto, sacro furore e perizia tecnica. Per la vostra salvezza, quindi, non perdetevi questa ghiotta occasione per emendare i vostri peccati pop. Ascoltate Blues For Jimi e pregate. Il Paradiso è a portata di mano. Amen.

PS : Se lo scrivere di musica dipendesse solo dai miei gusti personali, questo sarebbe un disco da 10 con lode. Eppure, lo dico con pudore e rispetto, trovo davvero anacronistico concedere più di un 8 a un filotto, seppur eccelso, di canzoni composte da un morto e suonate da un altro morto. So che Jimi e Gary mi perdoneranno e che il giorno in cui li raggiungerò in cielo mi faranno lo stesso baciare le loro chitarre.

VOTO : 8 



 Blackswan, venerdì 28/09/2012

mercoledì 26 settembre 2012

ROCK PILLS



DANKO JONES - ROCK AND ROLL IS BLACK AND BLUE 

Genere : Hard-Rock

Solo per il titolo questo nuovo lavoro di quei matterelli di Danko Jones and friends meriterebbe il 7. D'altra parte, in un sol colpo cita i due grandi amori della mia vita : il rock'n'roll e i colori nerazzurri della mia squadra del cuore. Invece, mezzo punto lo devo proprio togliere e un pò mi piange il cuore, perchè il sesto disco in studio dei DJ è davvero molto divertente. Però, passano gli anni, cambia la line-up ( alla batteria adesso c'è Adam Willard, già con i rocket from The Crypt ) ed è sempre lo stesso disco ( la fotocopia di Never Too Loud ? ) che cita sempre gli stessi supereroi ( avete presente gli Ac/Dc e i Foo Fighters ? ). I tre ragazzi canadesi sono potenti ( e furbetti ), suonano bene e dal vivo guerreggiano senza fare prigionieri. Così, l' incandescente ed energizzante mistura di hard rock, blues, punk e power pop arriva proprio là, a colpire il bersaglio a cui i Danko avevano mirato: pompare adrenalina nel sangue della gente. Di più però non si può loro chiedere. Quindi, alzate il volume dello stereo e resettate il cervello. Vi aspetta una maratona di headbanging e stille di sudore a imperlarvi la fronte. It's only rock'n'roll...

VOTO : 6,5 





THE AVETT BROTHERS - THE CARPENTER

Genere : Country-Pop

Loro negli Stati Uniti hanno un incredibile riscontro di pubblico, da noi invece se li filano in pochi. Ed è un peccato perchè gli Avett Brothers sono davvero bravi. Un tempo avremmo potuto definirli la versione americana dei Mumford and Sons oppure dei Punch Brothers con molte meno derive sperimentali. Giocavano con il country e gli strumenti della tradizione, e ci mettevano un'abbondante dose di pop e qualche spruzzata di punk rock, così tanto per movimentare l'ambiente. E se pensavi ad un tempo meno recente, ti venivano anche paragoni con gente che negli anni ’60 e ’70 stava sulla cresta dell’onda ( i Poco post Messina ? ). Oggi, nelle sapienti mani di Rick Rubin, hanno virato decisamente verso la ballata zuccherina, in cui il dolce è dosato con sapienza in modo da non risultare mai stucchevole. The Carpenter è un disco più pop che country, e le composizioni, tutte orecchiabilissime,  si sono ammantate di un velo di tristezza da struggimenti post adolescenziali e di abbondanti arrangiamenti d'archi. Un disco in definitiva molto radiofonico, che tuttavia ha il merito di non perdersi in banalità da Mtv e che mette a segno ottimi punti, grazie a testi che affrontano, con trasporto, temi difficili come la morte e il lutto, e melodie che toccano il cuore ( Winter in My Heart su tutte ).

VOTO : 7






WOVEN HAND - THE LAUGHING STALK

Genere : Goth-Folk, Alt- Country

Dave Eugene Edwards non sbaglia un disco nemmeno a farlo apposta. Non ha ciccato un'uscita con i Sixteen Horsepower, non ha mai sparato a vuoto con la sua successiva creatura, i Woven Hand. Anzi, a ben vedere, DEE sembra dotato di una creatività artistica che pare senza cedimenti e che gli consente di mantenere qualitativamente altissima la sua particolare concezione di country-folk. The Laughing Stalk è l'ennesimo capitolo del grande romanzo di una crepuscolare epopea americana : i grandi spazi al culmine della notte, terre desolate e sordidi anfratti, i misteriosi riti sciamani della cultura indiana, l'invasato declamare di un allucinato predicatore per cui la spiritualità è pentimento e fiamme dell'inferno. La produzione di Alexander Hake ( già con i tedeschi Einsturzende Neubauten ), europeizza un poco il suono, lo rende più rumoroso e heavy, lo ferisce con schegge di dark wave. Edward, il suo calesse e i suoi cavalli neri, si gettano a perdifiato nel buio della notte. Tutto intorno, un deserto che ricorda la foresta dei Cure: gli spiriti dei morti si aggirano fra nebbie sospette ed erbacce, un turbinio malevolo di stelle incombe, il canto di guerra di un Cherokee attraversa l'aria gelida, trafiggendo il costato. Polvere e blues, zaffate di zolfo e di stoner, Nick Cave e William Faulker, Landsdale e Mac Carthy. Canzoni che, come King O King o la conclusiva Glistening Black, ti prendono per la collottola e ti trascinano, anima e corpo, in un moderno western presbiteriano che non lascia scampo alla luce.

VOTO : 7,5




Blackswan, mercoledì 26/09/2012

lunedì 24 settembre 2012

BETTY DAVIS – NASTY GAL




Per quanti sforzi uno possa produrre nel tentativo di ascoltare tutto, è inevitabile che qualcosa finisca per sfuggire. Ars longa vita brevis, dicevano i latini : le strade della cultura sono infinite, ma il tempo a nostra disposizione è pochissimo. Io tento di vivere in simbiosi con le cuffie del mio stereo, frugo il web fino a i confini del cyberspazio, dormo un minimo sindacale di ore, quel tanto che basta a non svenire sul sedile della metropolitana, ma Betty Davis me l’ero proprio persa. E non sto parlando di una trascurabile dimenticanza, come quando hai omesso dalla tua discografia il cd d’esordio di un giovane singer nato in un oscuro villaggio del Bangladesh e morto tragicamente due giorni dopo aver inciso l’album. No, amici, stiamo parlando di un’artista, che una volta messa sul piatto dello stereo, finisce di filata nella top 100 dei tuoi dischi preferiti di sempre. Fortunatamente, come succede nel finale delle favole, quando spunta il Principe Azzurro pronto a salvare capre, cavoli e principessa, lo Zio Fonta, carissimo amico e massimo conoscitore della musica ( a me ) sconosciuta, il mese scorso mi ha fatto dono dei primi tre dischi ( manca l’ultimo risalente al 2009 con registrazioni del 1978, ma lo sto cercando ) della succitata Davis. 



Tre bombe di funk-rock urticante che da un mese a questa parte sgomitano nel mio ipod facendo piazza pulita di qualsiasi altro ascolto. Betty Davis, chi era costei ? Nata nel 1945 a Dhuram, North Carolina, Betty Mabry ( così il suo cognome da ragazza ) a sedici anni si trasferisce a New York, dove inizia una folgorante carriera di fotomodella e diventa amica, udite udite, di due giovani musicisti che diventeranno icone della storia del rock : Sly Stone e Jimi Hendrix. Nel 1967, conosce un altro signore molto famoso, che l’anno successivo diventerà suo marito : Miles Davis. Insomma, la ragazza non si fa mancare proprio nulla : respira musica, la studia da eccelsi maestri, frequenta i giri che contano. Ma soprattutto, Betty presenta Hendrix a Miles Davis. Non un particolare di scarso rilievo, se si pensa che i due musicisti iniziano a frequentarsi, a stimarsi e a influenzarsi a vicenda, tanto che Bitches Brew, il meraviglioso disco di Davis che apre la stagione della fusion ed esplora il confini estremi del jazz contaminato, è proprio figlio di questa amicizia. Le cose, però, precipitano velocemente : Miles è innamoratissimo ( le dedica Mademoiselle Mabry,quinta traccia di Filles De Kilimanjaro, album del 1969 in cui la Davis compare anche in copertina ), Betty, se dobbiamo dare credito ai gossip dell’epoca, un po’ meno, dal momento che cornifica il trombettista intrattenendo una liason molto carnale proprio con l’amico Hendrix. 

Ne consegue un rapido divorzio e un altrettanto rapido trasferimento a Londra, dove la Davis continua a posare come modella e inizia a scrivere canzoni. Tornata negli States, la modella- cantante pubblica Betty Davis ( 1973 ), They Say I’m Different ( 1974 ) e questo, mirabolante, Nasty Gal ( 1975 ). Nessuno dei tre album ottiene il successo commerciale sperato, e la Davis, delusa, chiude baracca, ritirandosi definitivamente in Pennsylvania. Peccato, perché questo terzetto di dischi è in grado si resuscitare alla vita anche un impiegato del catasto e Nasty Gal, soprattutto, è uno dei lavori di musica nera più eccitanti che mi sia capitato di ascoltare. Groove pazzeschi, riff di chitarra da extrasistole, funk corrotto da una perversa indole garage-rock, una certa attitudine punk e tanto, tantissimo sesso. Le undici canzoni di Nasty Gal infatti trasudano erotismo, è una sensazione che percepisci anche fisicamente, grazie soprattutto alla voce selvaggia della Davis, che si muove attraverso le note con il passo felpato di una pantera pronta all’assalto: carica di teatralità, velenosa, affilata,  frequenti concessioni allo screaming che prendono la forma di belluini ruggiti. 



Shut Off The Light e This Is It ! sono due uppercut funky da ko; il basso in slap e i vertiginosi controtempi di Dedicated to The Press ( brano polemico verso l’ex marito Miles e la stampa che di lei parlava in termini non proprio lusinghieri ) accelerano a perdifiato i battiti del cuore; F.U.N.K. è il tributo agli eroi Stevie Wonder, Barry White e soprattutto Hendrix e la sua Foxie Lady, mentre You And I rallenta il passo, è un ballatone soul strappamutande impreziosito da un magistrale arrangiamento di fiati. Nasty Gal, come tutti i dischi targati  Davis, è un lavoro coraggioso e visionario, capace di anticipare i tempi di una musica che più tardi farà successo e dobloni a palate tra le mani dei primi Red Hot Chilli Peppers e dei Run Dmc. Probabilmente, troppo all’avanguardia ed esplicito ( i riferimenti erotici si sprecano ) per gli anni ’70, incredibilmente attuale per le nostre orecchie. Recuperarlo dall’oblio è un obbligo.





Blackswan, lunedì 24/09/2012

domenica 23 settembre 2012

GLORIA - THEM



Quando nel 1975 Patti Smith rilascia il suo disco d’esordio, Horses, una nuova stagione sta nascendo. Di lì a breve arriverà il punk, di cui la “sacerdotessa del rock”, incarnandone la filosofia, verrà riconosciuta, quanto meno per attitudine, come una delle figure maggiormente ispiratrici. La rabbia supera abbondantemente il livello di guardia, le composizioni non hanno nulla di convenzionale. Patti, più che cantare, recita : la sua voce totalmente amelodica declama versi invece che cantare canzoni. In copertina, la Smith scimmiotta una posa di Frank Sinatra, ma le otto canzoni in scaletta sono davvero uniche. La prima di queste si intitola Gloria ed è la cover di un vecchio pezzo dei Them di Van Morrison. La Smith resta fedele alla composizione ma ne modifica completamente il testo, inserendo quel dissacrante incipit (Jesus died for somebody's sins but not mine – Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei ) che farà storcere il naso a più di un baciapile bigotto. E’ la rivoluzione del punk, baby, che a poco a poco prepara il suo ingresso sferragliante nel mondo di una musica che non sarà più la stessa. 




Eppure, nonostante il taglio mistico dato dalla Smith, il testo originale di Van Morrison ha veramente poco a che fare con Gesù e la chiesa, visto che la storia di Gloria è quella di una ragazza che arriva a mezzanotte e dispensa sesso e lussuria ( Yeah, she comes around here Just about midnight Makes me feel so good Lord – Lei passa di qui proprio verso mezzanotte e mi fa sentire così bene ). Anzi, la canzone è così smaccatamente carnale, che quando ci mette mano un altro Morrison, Jim, leader dei Doors, non si limita ad ammiccare, ma trasforma il testo nel resoconto nudo e crudo di una maratona sessuale (Now you show me your thing Wrap your legs around my neck, Wrap your arms around my feet, yeah Wrap your hair around my skin I'm gonna huh, right, ok, yeah - Adesso mi fai vedere la tua cosa , Metti  le gambe attorno al mio collo Metti  le braccia attorno ai miei piedi Metti i tuoi capelli sulla mia pelle, metti le tue labbra intorno al cazzo ). 




Qual è il segreto di questa canzone che in tanti, in tantissimi ( Patti Smith, Doors, Tom Petty, Bruce Springsteen, Ac/Dc, U2, David Bowie, etc ), si sono decisi a coverizzare ? Il segreto è la semplicità : come quasi tutti i classici del rock, Gloria ( scritta da Van Morrison nell’estate del 1963 ) è di una banalità imbarazzante. Così semplice da suonare, che anche un chitarrista alle prime armi ci mette il tempo di un respiro a impararla ; così semplice, che il noto giornalista e umorista americano, Dave Barry, con sagace competenza, arrivò a scrivere, sulle colonne del Miami Herald, che “ se butti una chitarra giù dalle scale, ti suona da sola Gloria, dal primo all’ultimo gradino “.

PS ( appunto personale ) : Gloria è una di quelle canzoni che da una vita accompagna i miei giorni. La sento sempre, e la versione di Patti è quella che trovo in assoluto più eccitante. Tempo fa, durante una disputa da bar dai contenuti alcolici piuttosto elevati ( nel frangente, vestivo i panni di cameriere ), un coglione saccente, che pretendeva di saperne più di me ( di solito ci riescono tutti, ma non quell'idiota ) , sostenendo che la canzone fosse stata scritta dalla Smith, fece la minchiata di scommetterci una settimana di bevute. Il coglione, per sette giorni di fila, pagò pinte di birra a ripetizione per i peccati di qualcuno. Non certo per i miei.




Blackswan, domenica 23/09/2012