domenica 31 marzo 2013

NON E' CIOCCOLATA...



Vorrei che qualcuno mi spiegasse che cazzo abbiamo da festeggiare. Una Pasqua così rognosa e carica di auspici funesti non la ricordavo da tempo. Non è solo un problema meteorologico: il cielo grigio e carico di pioggia romperà le palle a molti che pensavano di fare una scampagnata, ma per quanto mi riguarda è perfettamente in sintonia con il mio stato d’animo e non mi disturba affatto. E non è nemmeno la sconfitta che la Juve ha rifilato alla mia Inter col solito furtarello di moggiana memoria, anche se ieri ho tirato così tante bestemmie che i vicini di casa le hanno raccolte e oggi ci preparano una grigliata per venti persone. Non è neanche la tristezza di questo mese di marzo che ha portato in cielo tanti eroi del mio passato : Pietro Mennea, Kevin Ayers, Alvin Lee, Enzo Jannacci e, da ultimo, persino Franco Califano, che mi ha sempre fatto pena, ma ha intasato la mia infanzia di centinaia di ricordi, visto che era, insieme a Julio Iglesias, il pezzo da novanta della discografia di mio padre. No, quello che davvero mi fa ribollire il sangue e mi ha rovinato la Pasqua è l’ennesima boiata messa in piedi dal peggior presidente della repubblica che la storia democratica ricordi. Non bastavano le leggi ad personam, il golpetto pro-tecnici, le telefonate con Mancino e il monito alla magistratura, con cui ha messo in ghiacciaia tutti i processi a B. Ieri, invece di levarsi dai coglioni come aveva fatto intendere, Napolitano ha anche resuscitato Monti e ha messo le sorti del paese nelle mani di due commissioni di “esperti”, che altro non sono se non la peggior espressione possibile della nomenclatura. Con il plauso traversale di tutti, Movimento Cinque Stelle compreso. Che invece di cercare di cambiare l’Italia tenendo per le palle Bersani, ha preferito regalare il futuro dei nostri giovani e le speranze di quattro milioni di poveri a Quagliariello, Violante e Giorgietti. Oggi, fate molta attenzione prima di mangiare l’uovo: la sorpresa fa cagare e il cioccolato potrebbe essere merda.

In mancanza di meglio, consoliamoci con un po’ di musica foriera di allegria. Il mio augurio è quello che riusciate, nonostante tutto, a passare qualche ora di serenità. State a casa, vicino i vostri cari, e godetevi le piccole gioie del presente. A tutto il resto penseremo domani.





 Blackswan, domenica 31/03/2013

sabato 30 marzo 2013

venerdì 29 marzo 2013

AMERICAN TABLOID – JAMES ELLROY



"L'America non è mai stata innocente". Queste le prime parole del romanzo con cui James Ellroy è passato dagli ambienti di Los Angeles a una prospettiva più ampia. La vicenda di John Fitzgerald Kennedy, della sua ascesa al potere e della sua morte viene raccontata dall'interno, in modo spietato, senza compromessi.



Ammetto che di Ellroy avevo letto solo Dalia Nera e L.A. Confidential, e per quanto mi fossero piaciuti, non pensavo che avrei esplorato ulteriormente la bibliografia dello scrittore americano. Beata ignoranza, la mia. Tuttavia, a inizio anno, grazie a un suggerimento dell’amico La Firma Cangiante e ottimamente suggestionato dalla lettura di 23/11/63 di Stephen King, ho comprato American Tabloid, che ho letto e finito in questi giorni. Oggi, il solo pensiero che molto probabilmente, se non fossi stato ben consigliato (grazie!), mi sarei perso un libro tanto decisivo, mi procura feroci accessi di orticaria. Perché, lo dico subito e non ci penso più, American Tabloid è un capolavoro,  e lo è sia che lo si legga nella prospettiva del romanzo storico, che in quella di spy-story o noir. Non una lettura semplice e non per tutti, nulla che si possa leggere sotto l’ombrellone, meglio chiarire : la trama complessa, i numerosi personaggi, gli excursus fra intercettazioni, rapporti CIA e stampa dell’epoca, l’intrecciarsi sottile della realtà con la finzione, rendono American Tabloid un‘opera estremamente affascinante ancorchè scorbutica. Tanto che se dovessi raccontarne la trama, anche per sommi capi, finirei per consumarmi i polpastrelli sulla tastiera senza venirne comunque a capo. Eppure, questo è un romanzo che, nonostante richieda il massimo dell’attenzione, rapisce fin dalle prime battute e cattura il lettore, pagina dopo pagina. Insomma, se si inizia, è davvero impossibile smettere. Ellroy non solo dispensa lezioni di suspence (le accelerazioni vertiginose e gli improvvisi colpi di scena sono da cardiopalma), ma avvince soprattutto con una scrittura cruda, diretta, ironica, priva di fronzoli, quasi cinematografica, che dosa sapientemente il montaggio (le vicende dei tre protagonisti, distinte eppure strettamente connesse) al piano sequenza (i documenti riservati e le intercettazioni). Sullo sfondo, la grande Storia americana a cavallo fra gli anni ’50 e ’60 : Cia, Fbi, Ku Klux Klan, Cuba, Castro, il narcotraffico, Edgar Hoveer, Howard Hughes, Jimmy Hoffa, la mafia, i Kennedy. Tra personaggi reali e altri partoriti dalla fantasia dello scrittore, Ellroy riscrive una (la) storia, vera o presunta, ma sicuramente plausibile, in cui l’etica è solo calcolo politico, la vita umana e gli affetti vengono risucchiati nelle acque limacciose della droga, dell’alcol e del tornaconto personale, il Dio denaro impera sovrano, e il raggiro, il ricatto, la violenza e il doppio (triplo) gioco sono il carburante che alimenta ogni decisione umana. In American Tabloid i buoni non esistono, non c’è un eroe positivo, il bene è solo l’altra faccia della medaglia, un incidente di percorso, un’estrema resipiscenza, un vano tentativo di emendare i propri peccati. E’ per questo che i tre protagonisti del romanzo sembrano camminare lungo una corda tesa sul baratro: basta un passo falso e si precipita all’inferno, è sufficiente un piede messo nel punto giusto e la redenzione è possibile. Pete Bondourant, killer spietato e privo di scrupoli, che cerca di lenire il proprio tormento in una storia d’amore scandita a ritmo di twist e omicidi; l’agente Fbi Ward Littell, frustrato e alcolista, che per inseguire un vano (ed egotico) sogno di giustizia si trasforma in un cinico avvocato al servizio della mafia; e per finire, Kemper Boyd, lacchè che si vende a chiunque possa garantirgli ricchi emolumenti e che prova a emendare una vita di inganni spendendosi per i diritti civili dei neri, sono le tre figure in chiaro - scuro che animano con un impressionante impatto psicologico le settecento pagine del romanzo. A fianco a loro, si muove una selva (oscura) di personaggi, la maggior parte dei quali realmente esistiti, che sgretola ogni forma di agiografia e mitizzazione sull’epoca : Joe  Kennedy legato a doppio filo con la mafia, Bob descritto come un moralista baciapile, John come un erotomane seriale, Castro come uno spacciatore, Hoover come una checca isterica, Hughes come uno psicopatico col vizio del ricambio del sangue e Hoffa come un violento intrallazzatore al soldo di cosa nostra. Se è vero che “ L’America non è mai stata innocente “, questi sono i suoi figli prediletti e questo, probabilmente, è il sottobosco che ha animato la Storia dell’uomo in ogni epoca e a ogni latitudine.

Imperdibile, maledetto, memorabile: American Tabloid.

Blackswan, venerdì 29/03/2013

mercoledì 27 marzo 2013

JOHNNY MARR - THE MESSENGER

Chi ha vissuto in prima persona gli anni '80 sa perfettamente quale tributo di riconoscenza sia dovuto alla musica degli Smiths. Loro erano una sorta di enclave, un presidio chitarristico che difendeva il pop-rock di razza dagli attacchi dell'incontenibile tsunami synth. Ovunque ti girassi, ti piovevano addosso quintali di pattume, però sapevi con certezza che le loro canzoni erano un'ancora di salvezza, un approdo sicuro dove riposare le orecchie dopo tanta perniciosissima musica di plastica. La voce monocorde e cantilenante di Morrissey a declinare testi ricchi di riferimenti colti, un impegno socio politico su tutti i temi scottanti dell'epoca (governo Thatcher, Falkland, minatori, diritti dei gay) e soprattutto la chitarra di Johnny Marr. Un simbolo, un marchio di fabbrica, e soprattutto un suono, che successivamente schiere di giovani rocker hanno cercato di riprodurre ed emulare. Chiusa l'avventura con gli Smiths (1987), Marr ha iniziato a girovagare, alla ricerca di una nuova casa che accogliesse i colori byrdsiani dei suoi riff : prima i The The, quindi gli Electronic in condominio con Bernard Sumner dei New Order (recuperatevi il loro favoloso primo album), poi una sfilza di collaborazioni come sessionista (Billy Bragg, Bryan Ferry, Talking Heads,etc), il progetto degli Healers (con Zack Starkey), abortito dopo solo un album, e per finire, dal 2006, l'avventura americana con i Modest Mouse. Non c'è da stupirsi, quindi, che dopo un così lungo vagabondare, Marr, all'alba dei suoi primi cinquant'anni, abbia deciso di provarci da solo, in totale autonomia, dando libero sfogo alla creatività senza più il filtro protettivo di un progetto condiviso con altri. 

Immagino che di fronte a questo esordio, i vecchi fans della band mancuniana abbiano coltivato la speranza di un ritorno al passato, come se quei venticinque anni dallo scioglimento degli Smiths non fossero mai trascorsi. Sarebbe però ingeneroso pretendere che Marr rifaccia il verso all'età dell'oro di quell'antica militanza: se il suono della sua chitarra è ancora inconfondibile e se certe canzoni (European Me su tutte) sembrano outtakes di Meat Is Murder, è anche vero che le esperienze maturate hanno cambiato non solo l'ordine degli addendi ma anche il risultato finale. Nelle dodici canzoni di The Messenger si sentono certamente gli Smiths, ma ci sono poi zampate rock, sentori funk, riflessi di pop elettronico e una concezione brit-pop che suona incredibilmente moderna. Ed è una piacevole sorpresa che, a fronte della ricchezza della proposta, Marr riesca a non perdere mai la rotta, allestendo una produzione sapiente che trasmette un convincente senso di omogeneità. Nessun brano del disco è però realmente imprescindibile, eppure per contro nessuno è privo di personalità e appeal, tanto che Lockdown, Generate! Generate! e New Town Velocity contagiano l'ascolto ripetuto. Peccato solo che la voce un pò ingessata di Marr sacrifichi lo slancio di alcune composizioni (l'iniziale The Right Thing Right) e non sia all'altezza di una chitarra che è invece ancora in grado di insegnare a chiunque come si costruisce e si suona un riff. Sarebbe davvero troppo però pretendere la perfezione : in fin dei conti sempre di un disco d'esordio si tratta.

VOTO : 6,5
Blackswan, 27/03/2013

martedì 26 marzo 2013

METALLICA - QUEBEC MAGNETIC

So che da queste parti non girano molti fans del metal, ma questo dodicesimo dvd live della premiata ditta Ulrich & Co meritava quanto meno due righe di presentazione. Il tour di riferimento è quello di Death Magnetic (2008), ultimo album dei Metallica prima del controverso Lulu (2011) in condominio con Lou Reed, e primo album in studio dopo i cinque anni  trascorsi dal mediocre St.Anger (2003). Death Magnetic rappresentò una sorta di rinascita da parte di un gruppo che usciva da un momento di stanca creativa e si trovava per la prima volta in sala di registrazione con il nuovo produttore, Rick Rubin, subentrato a Bob Rock. Il risultato furono settantaquattro minuti di musica estrapolati da oltre cinquanta ore di registrazione, cinque milioni di copie vendute e un filotto di canzoni di tutto rispetto quali The End Of The Lines, The Day The Never Comes, Cyanide e My Apocalypse, tutte ovviamente presenti nella scaletta del dvd. Quebec Magnetic (uscito a fine 2012) è quindi l'occasione per (ri) vedere all'opera una band nuovamente sulla breccia e colta in un momento di ottima forma. Il dvd contiene due concerti (uno completo, sul disco 1, e l'altro parziale, le bonus tracks del disco 2), registrati rispettivamente le sere dell' 1 novembre  e del 31 ottobre 2009 al Colisee Pepsi di Quebec (Canada), la cui scaletta è stata scelta direttamente dai fans su invito del gruppo. Grazie alla regia impeccabile di Wayne Isham, vero e proprio guru nella produzione di videoclip e dvd musicali (oltre che per i Metallica, Isham ha lavorato anche per artisti del calibro di Pink Floyd, Michael Jackson, Bon Jovi, etc.) i concerti hanno un ottimo impatto visivo, agevolato, è il caso di sottolinearlo, dai numerosi effetti scenici (particolarmente efficaci i giochi di luce), dall'ampiezza del palco (sembra una piazza d'armi) che consente un ampio spettro di inquadrature, e da una performance a dir poco muscolare dei quattro "horsemen", abilissimi nel coinvolgere e scaldare il numeroso pubblico presente. Per quanto riguarda il contenuto più propriamente musicale, oltre alle canzoni tratte da Death Magnetic (ci sono praticamente tutte), la scaletta è arricchita da numerosi cavalli di battaglia della band, quali One, Nothing Else Matters, Enter Sandman, Master Of Puppets, che accompagnano lo spettatore verso l'infuocato finale di Whiplash e Seek & Destroy. Ovviamente, non c'è nulla che non sia già stato ascoltato centinaia di volte e pertanto il dvd è consigliato solo ai fans irriducibili o a coloro che intendono approcciarsi per la prima al suono dei padri del trash-metal. Detto ciò, a prescindere che vi piacciano o meno, resta il fatto che i Metallica sono una selvaggia macchina da guerra che non fa prigionieri  e hanno un impatto fisico sulle performance live  di belluina potenza che non può lasciare indifferenti. Di certo, per un rocker navigato sensazioni così sono impagabili.




Blackswan, martedì 26/03/2013

lunedì 25 marzo 2013

THE MILK CARTON KIDS - THE ASH & CLAY


Ci sono dischi con i quali si entra immediatamente  in sintonia : basta ascoltarli una volta e ti piacciono così tanto che finisci per non levarli più dallo stereo. Inizia così una liaison musicale che, a prescindere da come andrà a finire, ti lascerà nel cuore dolcissime suggestioni, ricordi che riemergeranno ogni volta che sentirai pronunciare quel nome o riascolterai quella particolare canzone. Il preambolo serve a spiegare quello che più o meno mi sta succedendo con il nuovo disco dei The Milk Carton Kids: da tre giorni non ascolto quasi altro, stregato da dodici canzoni delicate, intense e piacevolmente zuccherine, in grado di evocare un songwriting dal sapore antico. Dal passato emergono infatti nomi importanti, nomi di gente che ha scritto pagine bellissime di un folk pop che è diventato leggenda. Viene immediatamente da pensare ai Simon & Garfunkel (l'iniziale Hope Of A Lifetime potrebbe tranquillamente trovare posto nella scaletta di Bookends) e agli Everly Brothers (quelli di All I Have to Do Is Dream, ricordate ?), oppure, per non andare troppo in là con gli anni, agli inglesi Turin Brakes. Sarebbe però assai riduttivo limitarsi ad accostamenti, per quanto lusinghieri, con altri grandi gruppi del passato. La musica dei The Milk Carton Kids è certamente derivativa, ma loro non sono la solita band di giovinastri che scopiazza a destra e a manca per mancanza di idee. 
 
 
 
 
 
 
Kenneth Pattengale e Joey Ryan (questi i nomi dei due componenti della band) hanno all'attivo già due album (Prologue del 2011 è stato messo in download gratuito sul loro sito e ha ottenuto più di 130.000 scarichi), hanno suonato con due band di cui in passato ho parlato spesso su questa pagina (gli Old Crow Medicine Show e i Punch Brothers) e hanno due sponsor d'eccezione, il regista Gus Van Sant, che ha voluto tre loro canzoni nella colonna sonora del suo ultimo lungometraggio, The Promised Land, e Joe Henry, straordinario cantautore (Scar, Tiny Voices, Civilians) e produttore dalla vista lunga (Mose Allison, Solomon Burke, Meshell Ndegeoshello, Lisa Hanningam, Ani Di Franco, etc), che stravede per loro. Non è ovviamente un caso. Kenneth e Joey non si limitano infatti a scrivere canzoni bellissime (la title track, The Promised Land, Hear Them Loud, Snake Eyes, Years Gone By e Memphis sono addirittura da brividi) ma hanno qualità tecniche eccelse: da un lato, l'uso sapiente delle voci, che si inseguono e si sovrappongono con raffinato equilibrio (non possono a questo punto non tornare in mente anche i CS&N di Helplessly Hoping), e dall'altro un picking chitarristico che lascia a bocca aperta per varietà di soluzioni, leggerezza e proprietà di linguaggio.
The Ash & Clay è un discone, uno di quelli che si tengono a portata di mano, il più vicino possibile, per combattere il grigiore e il logorio della vita. Quindi segnatevi il nome dei The Milk Carton Kids e andate alla ricerca dell'album: anche se la primavera tarda ad arrivare e la pioggia non cessa di cadere, queste canzoni vi riempiranno le ore del profumo dei fiori e vi scalderanno il cuore con un raggio di sole. Se il 2013 finisse oggi, avremmo di sicuro il disco più bello dell'anno.
 
VOTO : 8,5
 
 
 
 
Blackswan, lunedì 25/03/2013
 

sabato 23 marzo 2013

BARNIE RULEZ !



C’è un personaggio di fantasia che da qualche tempo mi è entrato nel cuore : si chiama Barnie e lo disegna Giovanni (Badit), un ragazzo che scrive storie bellissime senza usare una parola. Non ne ha bisogno, perché possiede un tratto inconfondibile e vede colori che io nemmeno riesco a pensare. Oggi, ha voluto farmi un regalo e ha disegnato il mio avatar zappiano. Penso lo abbia fatto perché ama leggere le mie storie musicali come io amo guardare i suoi disegni. Penso soprattutto che io gli sia simpatico come lui lo è a me. Ne sono onorato, ovviamente, perché amo il bello, la fantasia e la creatività. Ma soprattutto provo emozione: il web, talvolta, fa incontrare strade diverse che creano dei bellissimi crocevia. Farci parte, star lì seduto al crocicchio e condividere storie con nuovi amici ricchi di esperienza e di vita è per me la ragione unica che mi spinge a tenere aperta questa pagina.
Grazie Giovanni !

PS : Andatevi a vedere i suoi disegni, ve ne innamorerete.




SOMEBODY TO LOVE – THE JEFFERSON AIRPLANE



Il motivo (quello che I libri di storia non riportano) per cui Grace Slick entrò a far parte dei Jefferson Airplane è tutt’altro che nobile e non ha nulla a che fare con il rock, almeno non direttamente. Sarà la stessa Grace a spiegarlo qualche anno dopo : “ Volevo farmi Jack Cassidy, il bassista. Adoro i bassisti e lui è il migliore “. In realtà, la Slick, oltre che con Cassidy, ebbe una liaison anche con il batterista del gruppo, Spencer Dryden, e le cronache dell’epoca le accreditarono molte altre storie d’amore (e sesso), la più nota delle quali con il cantante dei Doors, Jim Morrison. Grace, dal canto suo, non faceva nulla per nascondere la propria esuberanza e l’approccio, a dir poco disinibito, nei confronti della vita. Anzi, con sincerità disarmante, soleva ripetere : “ Sono giovane, sto bene, posso prendere tutte le droghe che voglio e sbattermi chi mi pare. Non siamo impiegati di banca : noi facciamo rock ‘n’ roll! “. Forse, gli altri componenti della band non la vedevano proprio allo stesso modo, se è vero che Marty Balin, rispondendo a una domanda su una sua presunta relazione con la cantante, rispose con fare schifato al giornalista che lo intervistava : “ Da Grace non mi sarei fatto fare nemmeno un pompino !”. Né la presero particolarmente bene quella volta che, nel 1973, durante il sound check di un concerto al Chicago Auditorium, la Slick alzò la gonna e fece vedere i genitali al pubblico presente, per dimostrare che non indossava le mutande. D’altra parte, Grace Slick era così, prendere o lasciare. 






Bella da mozzare il fiato (parallelamente all’impegno con la band posava come modella), una voce da contralto potentissima e una presenza scenica che non passava, davvero mai, inosservata. Per converso, la ragazza era quanto di meno gestibile si potesse pensare : sguaiata nell’eloquio, aggressiva e intemperante (ebbe parecchi problemi con le forze dell’ordine), perennemente sotto l’effetto di alcolici o di droghe (la Slick si strafaceva di Quaaludes, un farmaco con azione sedativo-ipnotica, che causava euforia e aumento del desiderio sessuale). Pare che una volta, invitata ad una festicciola a casa Nixon (Grace era amica della di lui figlia, Tricia) la cantante cerco di allungare il punch con una buona dose di LSD, ma venne fermata appena in tempo dal servizio d’ordine. Insomma, la Slick non era proprio quello che si può definire uno stinco di santo. Eppure, nonostante gli atteggiamenti scapestrati e, per usare un eufemismo, molto behemienne, quando il 16 ottobre del 1966 la cantante si esibì per la prima volta dal vivo con i Jefferson Airplane al Fillmore Auditorium di San Francisco (sostituendo Signe Anderson, che era da poco diventata mamma), la carriera del gruppo ebbe un’accelerazione improvvisa e i JA entrarono nella leggenda dalla porta principale. E questo non solo perché Grace era bella e aveva una voce formidabile, ma soprattutto perché portò in dono alla band due grandi canzoni che trasfomarono l’album Surrealistic Pillow (1967) in un successo memorabile. 

La prima, White Rabbit, a firma della stessa Slick, fu scritta in mezz’ora sotto l’effetto dell’LSD ed è probabilmente uno dei brani più fortemente influenzati dal suono psichedelico che la storia ricordi (si tenga conto dell’effetto della droga e del fatto che Grace si fosse ispirata al Bolero di Ravel e ad Alice nel paese delle meraviglie di Carroll). La seconda, Somebody To Love, fu composta insieme al cognato Darby Slick, che ai tempi militava insieme a Grace nei The Great Society, gruppo dal quale la cantante approdò poi ai Jefferson. Somebody To Love venne registrata con il titolo Someone To Love dai The Great Society come lato B di un altro singolo, ma non ebbe alcun successo e il gruppo si sciolse di lì a poco. Il brano venne quindi riadattato da Grace per il nuovo album dei JA, e divenne cruciale non solo per le sorti della band, ma per quelle di un’intero movimento socio-culturale, visto che fu adottata come inno della Summer Of Love (San Francisco ne fu il fulcro) e della nascente controcultura hippie. D’altra parte, i Jefferson Airplane rappresentarono molto meglio dell’acid blues “cattivo” dei Grateful Dead e dei Quicksilver Messanger Service le speranze e le aspettative della cultura hippie : canzoni più melodiche, di breve durata, tagliate col suono folk dei CS&N, e quindi più allineate al Peace & Love californiano.




Blackswan, sabato 23/03/2013