martedì 30 settembre 2014

ALT-J – THIS IS ALL YOURS



Ammetto di aver fatto una fatica del diavolo a entrare in sintonia con questo disco, a comprenderlo nella sua interezza, a coglierne l’essenza. Un po’ perché, è cosa risaputa, non sono un fulmine di guerra, e un po’ perché sono stato irretito da squilli di tromba che annunciavano, quasi all’unisono, il capolavoro dell’anno. Non mi hanno fatto bene nemmeno i continui, e fuorvianti, paragoni fra i quattro giovanotti di Leeds e i Radiohead, dal momento che mi hanno costretto a cercare minuziosamente accostamenti con la band di Thom Yorke, che in realtà, sempre ammesso siano plausibili, evaporano dopo qualche ascolto come rugiada al sole. Così mi sono ritrovato ad ascoltare This Is All Yours in tutte le salse possibili (stereo, ipod, cuffie, con il volume a palla, in solitaria in mezzo alla natura, nel caos della metropoli, recandomi al lavoro) e per un periodo di tempo così lungo, che se avessi una voce decente, il disco potrei ricantarlo tutto io, nota per nota. Insomma, una sorta di maratona musicale a senso unico, che mi ha riportato, tra momenti di esaltazione seguiti ad altri di depressione post parto, esattamente al punto di partenza, all’intuizione cioè che avevo avuto al primissimo ascolto. E cioè che questo è un disco più pretenzioso che ambizioso, in cui gli arrangiamenti clamorosamente sontuosi sono spesso l’unico fiore all'occhiello di un album che nella sostanza dice poche cose con troppe parole. Ora, mi rendo perfettamente conto che al giorno d’oggi qualcosa che suona così (apparentemente) strano, così ricco di suoni e di campionamenti, così eterogeneo nel suo accostare rock progressive, suggestioni orientali, elettronica, soul, visioni pastorali e folk di boniveriana memoria, faccia sobbalzare sulla sedia e appaia di gran lunga meglio di tanta fuffa in circolazione. Ma ho l’impressione che, a conti fatti, questo lavoro, così ben suonato e confezionato, si riduca più che altro a un esercizio di stile, dall’hype travolgente, eppure povero di momenti davvero coinvolgenti. Anzi, a voler essere proprio sinceri fino in fondo, la parte centrale dell'opera, quella che va da Every Other Freckle a Choise Kingdom, così barocca, paludata e verbosa, è una rottura di coglioni che risparmierei anche al mio peggior nemico. Così come trovo di un’arroganza senza eguali i dieci minuti di silenzio fra l’inizio e la fine della conclusiva Leaving Nara. Detto questo, sarebbe però ingiusto non apprezzare alcuni momenti del disco davvero riusciti e che ci fanno ben sperare per il proseguo di carriera di un gruppo le cui potenzialità sono tuttavia ancora tutte in nuce. I primi tre brani, ad esempio, riescono a creare quelle suggestioni emotive (splendido luso delle voci in Intro) e quei soundscapes malinconici che in altri momenti del disco sono ammorbati da un noioso perfezionismo. Così come mi è parsa un’idea azzeccata campionare 4x4 di Miley Cyrus per il singolo Hunger Of The Pine o scarnificare il folk di Pusher giocando ancora una volta sull’interplay fra le voci (caratteristica che potrebbe diventare il vero marchio di fabbrica del suono Alt-J). In definitiva, This Is All Yours risulta essere un disco riuscito a metà, ben lontano dal capolavoro di cui molti stanno parlando, ma comunque capace di creare aspettative grazie ad alcuni momenti davvero riusciti. Se questi ragazzi si mettono in testa che è più importante essere che sembrare, asciugando il suono, come hanno fatto con Pusher e Arrival In Nara, da ogni cerebrale barocchismo, è probabile che in futuro sapranno regalarci grandi dischi. Per il momento, applaudiamo alle intuizioni, accentando tutti gli sbagli come un tributo da pagare sulla strada che porta al successo.

VOTO: 6,5





Blackswan, martedì 30/09/2014

lunedì 29 settembre 2014

IL MEGLIO DEL PEGGIO


Ricevo dalla nostra freelance Cleopatra e integralmente pubblico:

"
Sono rimasto deluso da Marchionne. E' stato lui a cambiare linea perchè non ha più i 20 miliardi da investire su Fabbrica Italia. Marchionne non solo ha cambiato idea, ma ha tradito. Qualsiasi risultato abbia ottenuto e otterrà,
avrà questa macchia di aver preso in giro lavoratori e politici...Non ho mai immaginato Marchionne come modello di sviluppo per l'economia
".
(Matteo Renzi in un'intervista rilasciata a Repubblica nell'ottobre del 2012, in occasione delle primarie del Pd).
"Renzi è la brutta copia di Obama. Pensa di essere come Obama ma ha ancora molta strada da fare e per di più è solo il sindaco di una città piccola e povera".
(Sergio Marchionne).

Correva l'anno 2012. Erano i tempi in cui non se le mandavano a dire questi due " grandissimi sòla ", come li ha apostrofati Diego Della Valle, alias Mr.Tod's. Si sa, l'amore non è bello se non è litigarello e, ora, in occasione del
tour di Matteone negli Stati Uniti, pare che tra l'ineffabile Marchionne e il Presidente del Consiglio sia sbocciata la passione. Che teneri vederli camminare fianco a fianco nel quartier generale della FCA e duettare in conferenza stampa in perfetta armonia, mentre si riempivano la bocca con parole come "futuro", "sogno", "coraggio", "rivoluzione". " Il Premier è come me, non ha paura...Appoggiamo Renzi", cinguettava l'amministratore delegato.
Non era una riedizione di " Scherzi a parte" ma una scena di ordinaria vergogna. Torniamo indietro. Vi ricordate quando l'imberbe Matteo, nell'aprile del 2012, dichiarava a Servizio Pubblico che l'articolo 18 fosse solo una questione mediatica e che nessun imprenditore lo avrebbe considerato un problema? Settembre 2014: " Lo Statuto dei Lavoratori va cambiato tutto, è stato pensato 44 anni fa. E l'articolo 18 non difende tutti, anzi non difende quasi nessuno", rilancia con arroganza un più che mai agguerrito Premier. Cos'è successo, nel frattempo, in questa strana estate a Matteone nostro? Un colpo di calore in quel di Forte dei Marmi? Di sole ce n'è stato poco, quest'anno. Troppi selfie? Troppi gelati Grom o sarà stato l'effetto di quella "Ice Bucket Challenge" ? Quel bischero di Renzi, dunque, vorrebbe farci credere che, una volta scardinato l'articolo 18, gli imprenditori facciano la coda per investire in Italia? Balle, non siamo mica dei grulli. La verità è che con il tentativo di abolizione dell'art.18 si cerchi una scorciatoia per fare i primi della classe con l'Unione Europea. D'altronde, con il "ce lo chiede l'Europa", si stanno devastando le garanzie minime, Costituzione compresa e con la benedizione del Colle. Il Premier sostiene che l'articolo 18 avrebbe creato lavoratori di serie A e di serie B? Bene, allora lo estenda a tutti, indistintamente. E, anzichè cianciare, cominci ad abbassare la pressione fiscale alle aziende, a pagare i crediti alle imprese, a combattere senza sconti la corruzione, l'evasione fiscale e il lavoro nero. Macchè, sarebbe troppo impegnativo. "Vi propongo di scegliere la strada meno battuta, la più difficile", disse nel febbraio scorso. Era la prima di una lunga serie di balle. Pinocchio, in confronto, è un dilettante.

Francesca Pascale a Radio Capital: " Silvio al Gay Village? Se potesse, ci andrebbe. Lui è un liberale. Dudù? Secondo me è gay. Al Gay Village indosserebbe il boa di struzzo. Io e Silvio, con i nostri 50 anni di differenza, siamo la coppia più trasgressiva ".

Maria Elena Boschi (Ministro per le Riforme) alla Festa dell'Unità di Zagarolo: " Peccato che a Roma sia difficile trovare la carne di cavallo".

Andrea Della Puppa (Responsabile del Carroccio a Maserada, provincia di Treviso) in un post su Facebook :" Cosa si lancia a uno zingaro che sta affogando? La moglie e i figli ".

Antonio Razzi (FI), a proposito di cinema: "Dopo tanti anni sono tornato al cinema. Io guardo solo ed esclusivamente film comici...Natale qui, Natale là...Groucho Marx? E che è? Se magna ?"
 
 
 


Cleopatra, lunedì 29/09/2014

domenica 28 settembre 2014

MICKY & THE MOTORCARS – HEARTS FROM ABOVE



Agli appassionati di Americana non sarà sfuggita l’uscita del sesto full length dei Micky & The Motorcars, band originaria dell’Idaho ma ormai in stanza permanente a Austin, Texas. In circolazione da più di un decennio, capitanato dai fratelli Micky alla chitarra acustica e Gary Braun, alla voce solista (gli altri sono Dustin Shaefer alla chitarra elettrica, Joe Fladger al basso e Bobby Paugh alla batteria), il combo texano, dopo qualche album passato inosservato, ha cominciato a ottenere un meritato successo commerciale a partire dal 2008, grazie anche a una ponderosa attività live che ha visto i cinque salire sul palco per quasi trecento serate l’anno. Hearts From Above, disco interamente autoprodotto tramite il sistema del crowdfunding, ha tutte le carte in regola per essere l’album della definitiva consacrazione. Assolutamente in linea con quella dei precedenti lavori, la scaletta del nuovo album propone un solido country rock in cui protagoniste assolute sono le chitarre, belle melodie mainstream, che non troveranno difficoltà a numerosi passaggi radiofonici, e ottime soluzioni compositive, soprattutto là dove il passo rallenta un po’ e le canzoni assumono l’andamento della ballata. Così, fra alcuni brani onesti e ben suonati (godibili ma senza grandi picchi), si segnalano invece alcune canzoni davvero di livello, a dimostrarci che questi ragazzi hanno stoffa da vendere: Long Road To Nowhere incanta con la fisarmonica in bella evidenza, ricordandoci le cose migliori dei Counting Crows, mentre From Where The Sun Now Stands, ballatone per pianoforte e chitarra acustica posta quasi in chiusura di disco, saprà intenerire anche i cuori più rocciosi. Da segnalare anche la title track  e Destined To Fall, brani sferzati da chitarre ruggenti ma sempre caratterizzati da melodie fresche e orecchiabili, che rappresentano perfettamente il mood di un album ricco di citazioni (Jason Isbell & 400 Unit, Tom Petty, Steve Earle, Counting Crows) e piacevolissimo all’ascolto, dalla prima all’ultima canzone.

VOTO: 6/7 





Blackswan, domenica 28/09/2014

sabato 27 settembre 2014

JOE BONAMASSA - DIFFERENT SHADES OF BLUE

Si potrebbe affermare, senza il rischio di esagerare, che recensire i dischi di Joe Bonamassa sia ormai diventato un mestiere a parte, determinato da ritmi e scadenze ben specifiche. Dal vivo o in studio, da solo o in compagnia (senza contare che l'uomo vanta una discreta serie di comparsate, come da ultimo è successo nel testamento spirituale di Johnny Winter), il chitarrista statunitense partorisce almeno un album ogni quattro/cinque mesi. Un tour de force, insomma, che ci costringe a stare chini sulla tastiera del pc con una frequenza di gran lunga superiore alla media. Grazie a Dio, nonostante questa frenetica ipercreatività, il livello delle uscite targate JB è sempre buono e ascolti e recensioni vanno via lisci e piacevoli come bere un bicchier d'acqua in una giornata d'arsura. Different Shades Of Blue, concepito a Nashville, registrato a Las Vegas e uscito proprio in questi giorni nei negozi, non si discosta dallo standard qualitativo delle produzioni precedenti e fin dai primi ascolti sia ha la sensazione che acquistare un disco di Bonamassa sia ormai un pò come mettere i soldi in banca. Tuttavia, questa volta, l'accento si sposta su blues, r'n'b e funky, come se le recenti collaborazioni con Beth Hart avessero eccitato il talento compositivo di Joe, indirizzandolo definitivamente verso marcati territori black. Sono infatti davvero pochi i momenti in cui riemerge l'antico amore di Bonamassa per quelle sonorità hard rock che avevano segnato i tre lavori con i Black Country Communion, e sono tutti piazzati a inizio disco: l'intro di Hey Baby (New Rising Sun), dagli echi clamorosamente hendrixiani, e la successiva Oh Beatifull!, impreziosita da un riffone in quota Led Zeppelin e da un vigoroso assolo, che per fantasia e classe può essere annoverato tra i migliori di sempre del nostro eroe. Il resto del disco è invece un tripudio di declinazioni blues, spesso in abito funky, in cui oltre alla chitarra di Joe diventa protagonista la sezione fiati, composta dagli ottimi Lee Thornburg (tromba e trombone) e Ron Dziubla (sax). Una splendida hard ballad decisamente melodica (la title track) e un lentone da paura (So What Would I Do) a conclusione del disco, sono i momenti migliori di Different Shades Of Blue, album che riproduce esattamente le peculiarità di ogni disco di Bonamassa: scrittura convenzionale ma di qualità, produzione che mette l'accento sulla sei corde, prestazioni strumentali di livello mostruoso. Ciò che manca, come sempre, è lo spunto, l'intuizione, il colpo di genio, che possano trasformare questo disco, come tutti gli altri, in un classico di genere. Che sia arrivato il momento per Bonamassa di fermarsi per rifiatare un pò e concentrarsi, anima e corpo, su un unico progetto? Forse sarebbe questo l'unico modo per sfornare finalmente un capolavoro e non solo un buon disco.

VOTO: 7

Blackswan, sabato 27/09/2014

DALLA PARTE DEL KILLER: LIVE KILLER!

venerdì 26 settembre 2014

LIVE KILLER !



Questa sera a partire dalle ore 21.00 circa, puntata speciale di Dalla Parte Del Killer dedicata ai dischi live più importanti della storia. Ospite della trasmissione, il grande Lozirion.
Solo su RADIOPANESALAME.

SERATA A STELLE & STRISCE

mercoledì 24 settembre 2014

LIBERTA’ – JONATHAN FRANZEN




Dopo Le correzioni, Jonathan Franzen sceglie di nuovo un matrimonio, il vincolo che lega due persone, per raccontare ciò che lega tutti gli uomini. Perché di tutti è la domanda: «Se sono libero di scegliere, allora come devo vivere?» Libertà è uno di quei rari romanzi del presente in grado di dare del tu ai classici. Walter e Patty erano arrivati a Ramsey Hill come i giovani pionieri di una nuova borghesia urbana: colti, educati, progressisti, benestanti e adeguatamente simpatici. Fuggivano dalla generazione dei padri e dai loro quartieri residenziali, dalle nevrosi e dalle scelte sbagliate in mezzo a cui erano cresciuti: Ramsey Hill (pur con certe residue sacche di resistenza rappresentate, ai loro occhi, dai vicini poveri, volgari e conservatori) era per i Berglund una frontiera da colonizzare, la possibilità di rinnovare quel mito dell'America come terra di libertà «dove un figlio poteva ancora sentirsi speciale». Avevano dimenticato però che «niente disturba questa sensazione quanto la presenza di altri esseri umani che si sentono speciali». E infatti qualcosa dev'essere andato storto se, dopo qualche anno, scopriamo che Joey, il figlio sedicenne, è andato a vivere con la sua ragazza a casa degli odiati vicini, Patty è un po' troppo spesso in compagnia di Richard Katz, amico di infanzia del marito e musicista rock, mentre Walter, il timido e gentile devoto della raccolta differenziata e del cibo a impatto zero, viene bollato dai giornali come «arrogante, tirannico ed eticamente compromesso». Siamo negli anni Duemila, quelli della presidenza Bush e dell'operazione Enduring Freedom, anni in cui negli Stati Uniti (e non solo...) la libertà è stata come non mai il campo di battaglia e la posta in gioco di uno scontro il cui fronte attraversa tanto il dibattito pubblico quanto le vite delle famiglie. Che si combattano guerre imperiali o guerre domestiche, in gioco c'è sempre la libertà e il senso da dare a questa parola. Nove anni dopo Le correzioni, Jonathan Franzen torna con un romanzo spietato e divertente, un vasto affresco storico capace di un'umanissima, malinconica attenzione per il dettaglio: una riflessione sulla libertà e sulle cose cui siamo disposti a rinunciare per essa, sull'ambiguità di un diritto che a volte si fonda sulla sopraffazione dell'altro, sulle catene che ci imprigionano e su quelle che in realtà ci rendono più liberi. Ma questo è anche un romanzo sul matrimonio, su ciò che ci lega a un'altra persona, e sulla politica, che è ciò che ci lega a tutti gli uomini. Sul desiderio e il risentimento, sull'invidia che fonda le amicizie, sul conformismo della società di massa e sulle aspettative deluse: tutte cose che, a ben vedere, sono modi diversi di pensare la libertà.

Ci sono libri così belli, così importanti, così definitivi, che quando li finisci ti ritrovi in una condizione simile al lutto: ti manca la presenza quotidiana di quelle pagine, l'abitudine a certi personaggi, l'attesa che sottende allo sviluppo della trama. E poi, ci sono altri libri, altrettanto belli, importanti e definitivi, che per osmosi si appropriano di una parte di te, lasciandoti in cambio una folla di pensieri e suggestioni che si accalcano in testa, disordinati e pressanti come gente in fila per entrare allo stadio. E' questa la sensazione che sto vivendo dopo aver concluso Libertà, un romanzo a cui ho dato tutto in termini di partecipazione emotiva e che ora mi sta restituendo un carico di riflessioni troppo imponente per essere sviscerato in pochi giorni. Così, nell'attesa di far chiarezza e dare una risposta a quesiti indubbiamente più grandi di me (cos'è la libertà, di che si nutre l'amore, di che natura si sostanziano i vincoli familiari), vi lascio alla recensione del libro che è stata fatta dall'amico Alessandro Raggi, autore del blog BluesPaper e conduttore della trasmissione radiofonica SongBook.

Probabilmente Libertà diventerà un bestseller moderno. Probabilmente, perchè i presupposti ci sono tuttti, anche se le strade dell'editoria e quelle del mercato non sempre si incontrano.

Antefatto. Jonathan Franzen, ormai non più promettente ma acclamato scrittore americano, nel 2012 pubblica il suo nuovo romanzo, intitolato semplicemente Freedom, ovvero libertà. La fuga di notizie nei mesi precedenti la pubblicazione anticipa che il nuovo lavoro di Franzen, dopo l'acclamato Le correzioni, sia degno dei più grandi romanzi americani mai scritti. Addirittura Obama, in quanto Presidente, lo legge in anteprima, sfoggiandolo nelle passeggiate in famiglia nella vacanza estiva del 2012. Ovviamente, una pubblicità più grande e planetaria Franzen non avrebbe mai potuto sognarla.

Nonostante tutto il clamore e le promesse di grandeur, Libertà non delude nessuna delle aspettative, e poggia interamente su una certezza: Jonathan Franzen è un talento della scrittura e della costruzione. E dire che non è facile mantenere il ritmo alto per oltre seicento pagine, quando l'incipit è solamente quello della crisi familiare dei Berglund, normale famiglia del Midwest alle prese con due figli in età da college. Invece, pagina dopo pagina, come un fine amanuense, Franzen dona ad ogni personaggio una luce propria, quasi che ognuno potesse vivere senza lo scrittore. I vari Walter, Patty, Richard o Joey fanno parte di un quadro più ampio, che va oltre la narrazione degli episodi per costruire una descrizione profonda degli svariati significati della parola libertà.

E proprio nella volontà di declinare il titolo del romanzo sta la grandezza del libro, che può essere visto, senza alcuna esagerazione, come un'opera dal forte retrogusto filosofico. Libertà dunque può essere la lotta dentro ognuno di noi per sfuggire dal proprio passato e da una vita già confezionata (Patty). Oppure è la necessità di emergere quando si ha la sensazione di essere un perdente nato (Walter). Ma c'è anche la libertà del talentuoso Richard Katz, cantante di alternative rock che per trovare la vena artistica ha bisogno di vivere in piena libertà, rifuggendo i rigidi schemi della discografia.
Ma Franzen parla anche di un intero paese, gli Stati Uniti, che per la propria libertà decide di condurre guerre come quella in Iraq, sulla cui necessità l'idea dello scrittore emerge in maniera chiara.

Le fonti di ispirazione dell'autore sono molteplici, e spuntano fuori nelle pagine del romanzo. Tra queste, il pretesto di inserire nella narrazione personaggi come Michael Stipe, Jeff Tweedy ed i Bright Eyes è un forte richiamo al retroterra nel quale cresce questa opera.

Libertà è dunque un grande romanzo, che nelle ultime pagine addirittura commuove, un sentimento (forse l'unico) che nelle 600 pagine il lettore non aveva ancora provato. Per una storia che parte dalla anonima St. Paul (Minnesota) con una altrettanto anonima famiglia non è male. 

Alessandro Raggi & Blackswan, mercoledì 24/09/2014

martedì 23 settembre 2014

MY BRIGHTEST DIAMOND - THIS IS MY HAND




Il quinto full lenght di Shara Worden, al secolo meglio conosciuta con il moniker di My Brightest Diamond, è un disco che sorprende fin dal primo ascolto. Anzi, di più: continua a sorprendere anche dopo parecchi passaggi in cuffia, al punto che quasi non ci si accorge della cosa più importante, e cioè che questo è anche un bel disco. Un gran bel disco. La Worden a dire il vero, ci ha sempre abituato bene, a partire da Bring Me The Workhorse (2006), brillante esordio che tingeva di dark wave un indie pop versatile e multiforme. Con This Is My Hand, tuttavia, la cantautrice statunitense porta alle estreme conseguenze il suo desiderio di stupire, getta il cuore oltre l'ostacolo della residua reticenza, azzardando e scommettendo, manipolando la materia pop con coraggio, visione e, cosa non da poco quando si sperimenta, una straordinaria unità di intenti. Non c'è una sola canzone dell'album, infatti, che non metta in difficoltà l'ascoltatore per il suo andamento oscillante, la sua struttura obliqua, la sua natura sfaccettata. Così, un nuovo ascolto si impone subito, ed è un invito a cercare i suggerimenti e i numerosi imput che la Worden distribuisce come indizi, come tessere di un puzzle il cui completamento porta alla comprensione. This Is The Hand, a un primo piano di lettura, risulta essere uno dei dischi più percussivi che abbia mai ascoltato: tamburi, batteria, batteria elettronica, beat e hand clapping, sono il filo conduttore svelato nell'iniziale Pressure e poi sviluppato per tutto il corso dell'album. Una ritmica festosa e debordante che nasce dal desiderio di riprodurre, rivisitandolo in ottica avant pop, il suono delle marching bands statunitensi, quelle che potete ascoltare allo stadio prima della partita o che accompagnano le sfilate durante feste e celebrazioni. Un suono che affonda le sue radici nella tradizione americana, ma che nello specifico viene rivestito di abiti elettronici e delle acrobazie vocali della Worden, giusto contrappunto all'esuberante presenza della sezione fiati. Sotto queste inusitate vesti, che assumono tinte meno sgargianti nella seconda parte del lavoro, si nasconde però l'anima di una musicista in continuo movimento, che accantonate anche le ultime reminiscenze dark wave, prosegue il proprio percorso spostandosi verso insediamenti più squisitamente soul e jazzy. Il risultato è un album che, come si diceva all'inizio, colpisce per scelte bizzarre e intuizioni fuorvianti, ma che, a poco a poco, svela una sottostante complessità melodica, vero nucleo pulsante del disco. Accostato inevitabilmente, e un pò banalmente, all'ultimo lavoro di St.Vincent (il mood meno intimista della prima parte del disco mi ha fatto però tornare in mente anche The Classic di Joan As Police Woman), This Is My Hand ha tutte le carte in regola (Love Killer e Before The Words, pur nella loro complessità strutturale, hanno un'incredibile appeal radiofonico)  per svelare l'originalità di My Brightest Diamond anche al grande pubblico. Sarebbe il giusto riconoscimento per un'artista che, ad oggi, si lascia alle spalle una prima parte di carriera praticamente senza sbavature.

VOTO: 7,5





Blackswan, martedì 23/09/2014