mercoledì 14 gennaio 2015

PUNCH BROTHERS - PHOSPHORESCENT BLUES



La musica dei Punch Brothers, come quella di altre band molto seguite da questo blog (i Chatam County Lines, ad esempio) viene definita progressive blue grass. Un termine, questo, che mette in evidenza, da un lato, l'utilizzo di strumenti tipici della tradizione rurale americana, e dall'altro, il superamento dei confini formali entro il quale il genere si muove. Avevamo già parlato di questo quintetto originario di Brooklyn un paio di anni fa, a proposito del loro Who's Feeling Young Now?, decisamente uno dei migliori dischi del 2012. I cinque ragazzi newyorkesi ci avevano affascinato con un impasto sonoro che guardava al cuore musicale degli Stati Uniti, plasmandolo però con un gusto che richiamava le atmosfere malinconiche tanto care ai Radiohead (ascoltate la loro Movement And Location per farvi un'idea); e nel contempo, ci avevano suggestionato, ingenerando non poche aspettative su quello che sarebbe potuto essere il prosieguo della loro carriera. Dopo un Ep (Ahoy!, pubblicato solo qualche mese dopo il citato full lengh) che non aggiungeva nè toglieva alcunchè a quanto di buono già ascoltato, oggi i Punch Brothers tornano con un album nuovo di zecca, confermando in toto le ottime impressioni che il predecessore ci aveva lasciato. Anzi, a essere sinceri, Phosphorescent Blues è anche meglio. Non solo, infatti, ascoltiamo una band convintissima dei propri mezzi e capace di osare, grazie anche alle indubbie capacità tecniche dei sui membri, ma ciò che davvero ci è piaciuto è soprattutto la volontà di fare uno sforzo ulteriore, di spingere la contaminazione del blue grass fino alle estreme conseguenze (un discorso peraltro iniziato fin da Punch, esordio del 2008). Se Who's Feeling Young Now? offriva all'ascolto canzoni che guardavano con insistenza a un certo pop rock di matrice britannica, pur mantenendo una solida connotazione roots, Phosphorescent Blues azzarda un ulteriore passo avanti. Il Blue Grass residua nella strumentazione classica (mandolino, contrabbasso, violino, chitarre acustiche e banjo) e in qualche raro momento, culminante nella splendida Bool Weevil; il resto del disco, invece, è una scommessa, peraltro, decisamente vinta. Si parte con Familiarity, che è la vera chiave di lettura dell'intero album: una suite di dieci minuti nei quali i Punch Brothers riescono a infilare di tutto: musica da camera, folk, pop e soul, in un complesso susseguirsi di rimandi in cui si riesce a scorgere perfino il Brian Wilson di Smile. A un primo acchito tutto sembra scombinato e pretenzioso: poi, dopo ripetuti ascolti, si colgono l'audacia e il filo delle intuizioni che sono l'amalgama, non solo del brano, ma dell'intero album. Un disco, Phosphorescent Blues, che inizialmente perplime (sensazione di arroganza alternative), ma che cresce a dismisura quando entriamo in sintonia con la logica che sottende alla scaletta: rinnovare la tradizione e giocare con le radici per vedere se l'innesto può produrre frutti succosi che profumino di musica classica come in Passepied (Debussy), di pop (le incantevoli Julep e I Blew It Off) e addirittura di funky soul (Magnet è ciò che scriverebbe Prince se avesse a disposizione solo strumenti acustici). Al comando di una band affiatatissima e dalle indubbie capacità tecniche (andatevi a vedere i video delle loro performance dal vivo) c'è un signore che si chiama Chris Thile: possiede una voce angelica e suona il mandolino come Gesù. Non è un caso, quindi, se alcuni momenti di Phosphorescent Blues vi sembreranno celestiali. Amen.

VOTO: 8 





Blackswan, mercoledì 14/01/2015

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