mercoledì 2 dicembre 2015

THE YAWPERS – AMERICAN MAN



Mi domando come sia possibile che la maggior parte della stampa musicale italiana non si sia accorta, o quasi, degli Yawpers. Perché, credetemi, questo disco è vera e propria deflagrazione che vi lascerà storditi e attoniti. Non sto dicendo che fra le dodici canzoni in scaletta si annidi qualcosa di inaudito (agli ascoltatori più esperti non sfuggiranno echi di Hank Williams III, The Blasters, Tito & Tarantula), sebbene poi l’impasto finale risulti originale e variegato; ciò che davvero sorprende di questa band proveniente da Denver, Colorado, sono la carica assassina, la forza travolgente e un’inesauribile energia che, quando lo stereo passa l’ultima traccia del disco, lasciano l’ascoltatore sudato ed esausto, come se l’avesse suonato lui. Ma andiamo con ordine. Gli Yawpers sono un trio composto da un batterista (Noah Shomberg) e due chitarristi acustici (Nate Cook, che è anche il cantante, e Jesse Parmet, che usa la slide come un coltello). Non tragga in inganno però la dimensione acustica del combo: questi tre ragazzi, dal look assolutamente improbabile, picchiano come la più elettrica delle band punk metal. Il nome del gruppo, per completezza di narrazione, è preso in prestito da Song To My Self, un poema di Walt Whitman, che così recita: “I sound my barbaric yawp over the roofs of the world”. Ed è chiaro fin da subito che, al di là di cotanto stuzzicante riferimento letterario, Cook e compagnia bella abbiamo preso alla lettera il desiderio far risuonare dal tetto del mondo il loro grido di rabbia e le loro canzoni ben poco accomodanti. Un mondo, quello gridato dagli Yawpers, fatto di tenebra e di rovina, in cui l’uomo americano ha perso il proprio sogno, finito come un detrito ai margini di una qualsiasi periferia metropolitana. Definire questa musica semplicemente punk rock sarebbe assai riduttivo: nel tritatutto del combo di Denver ci finiscono il folk (azzardiamo la connotazione di sleazy folk), il blues, il cow punk, il rock a stelle e strisce, lo psycho-billy, il country e, ovviamente si, tanto punk. Il tutto strapazzato da un terzetto incapace di essere lineare, che predilige percorsi a zig e zag e la vertigine di continui saliscendi, e che restituisce un suono americano destrutturato e privato di ogni epica. La voce di Cook è come il ringhio di un giaguaro, Shomberg martella senza posa, e Parmet e la sua slide firmano i pezzi col marchio del serial killer. Non c’è trucco e non c’è inganno: tutto suona in presa diretta, tutto è sporco, genuino e feroce, e ogni svisata di bottleneck è una stilettata che colpisce direttamente alla gola. Eccessivi? Forse. Torbidi e sguaiati? Pure. Imperfetti? Certo, ed è proprio questo il bello, perché i tre di Denver confezionano un disco puro e selvaggio, come non se ne sentivano da tempo. Non saranno la salvezza del rock’n’roll, ma di sicuro sapranno destare la vostra attenzione e farvi esclamare “ Cazzo, che bomba!”.

VOTO: 8 





Blackswan, mercoledì 02/12/2015

5 commenti:

Cumbrugliume ha detto...

...devo proprio recuperarmeli!

Blackswan ha detto...

@ Michele: non ne resterai deluso :)

Unknown ha detto...

“ Cazzo, che bomba!”. Grazie mille ;)

Unknown ha detto...

interessante . Non mi piace molto il cantante che a tratti fa questi vocalizzi che sono al limite del metal. Cioè quando canta "normalmente" è bravo .

Blackswan ha detto...

@ Sally : mi fa piacere che ti sia piaciuto :)

@ Ale: perchè, tu ascolti cantanti che cantano normalmente? :)))