lunedì 31 agosto 2015

MOTORHEAD - BAD MAGIC



Ci sono cose che non cambiano mai, che restano immutabili nel tempo, nonostante eventi epocali destinati a trasformare il mondo. Così, a dispetto di un decennio dominato dai social network, in cui tutto scorre alla velocità della luce, la Nutella ha mantenuto intatto il proprio sapore che, a distanza di tanti anni, continua a regalarmi le stesse sensazioni di quand'ero bambino. Allo stesso modo i Motorhead, dopo quarant'anni di onorata carriera, non smettono di proporre la loro incandescente miscela di metal primordiale e anfetaminica velocità. Anacronistici? Può darsi, eppure ancora incredibilmente convincenti. Anzi, di più. Perchè se in passato qualche dubbio sulla tenuta della band lo avevamo avuto, paventando un inevitabile declino dopo un vita passata sul ring dello star system, oggi i Motorhead sembrano più vitali che mai e ci appaiono come degli eroi immortali. Ditemi infatti chi di voi, dopo aver ascoltato tutte le notizie esiziali a proposito delle sue condizioni di salute, pensasse seriamente che Lemmy sarebbe arrivato sano e salvo al ventiduesimo disco. Invece, mentre lo davamo già a due passi dalle sponde dello Stige, pronto a banchettare in eterno con gli altri dei del rock, Mr Kilmister piazza il colpo a sorpresa, un'impennata d'orgoglio che assume i connotati di un inesplicabile miracolo: Bad Magic è infatti un discone, di gran lunga più riuscito dei già convincenti The World Is Yours (2010) e Aftershock (2013). Lemmy canta da Dio, con quel torbido raschio che puzza di sigarette, Jack Daniels e catrame, e le canzoni funzionano maledettamente bene, alternando monolitici shianti da pressa siderurgica (la sorprendente Victory Or Die) a episodi più articolati e sapientemente costruiti (Fire Storm Hotel e la struggente Till The End). Tra i momenti migliori di un disco che graffia e ruggisce dalla prima all'ultima nota, si segnala anche una grande cover di Sympaty For The Devil dei Rolling Stones, quasi un patto di sangue fra vecchi guerrieri che non sono intenzionati a cedere un centimetro di palco al tempo che passa. "Noi siamo i Motorhead e vi spaccheremo il culo", tuonava anni fa il buon Lemmy. Missione compiuta. Anche questa volta.

VOTO: 7,5





Blackswan, lunedì 31/08/2015

venerdì 28 agosto 2015

OLIVIA CHANEY - THE LONGEST RIVER



Esordire a trentatre anni nonostante una voce così bella, è una di quelle ingiustizie che solo i nostri tempi, così restii a comprendere la bellezza e il talento, possono perpetrare. Fossimo stati negli anni '60 o '70, Olivia Chaney avrebbe avuto lo spazio che merita già da tempo. Invece, ferme restando le dovute eccezioni, continuiamo a beatificare stuoli di folk singers che, pur non avendo stoffa, riescono a imporsi al grande pubblico grazie a un hype superiore o per aver azzeccato un singolo di successo, di cui il tempo però cancellerà ogni traccia. Se la qualità della musica e le capacità tecniche di chi la suona hanno ancora un senso, consoliamoci per il ritardo e pensiamo al fatto che Olivia Chaney è qui ed è qui per restare. Nata nel 1982 a Firenze (è una casualità, non la classica fuga di cervelli dal nostro triste paese), trasferitasi a Oxford, dove ha mosso i primi passi artistici, la songwriter e polistrumentista inglese è cresciuta con i dischi di babbo, appassionato di Bob Dylan, Bert Jansch, Fairport Convention e e in genere di tutto il folk anni '60. Dopo aver studiato jazz alla Royal Academy Of Music di Londra e aver lavorato, anche come attrice, allo Shakespeare's Globe Theatre, la Chaney ha iniziato a collaborare con vari musicisti (Zero 7, Alasdair Roberts) e finalmente nel 2010 ha rilasciato il suo primo Ep. Oggi, a distanza di cinque anni da quel primo lavoro, la Nonesuch Records ha prodotto l'esordio full leght di un'artista che, come si diceva, avrebbe meritato da tempo le luci della ribalta. La Chaney si muove ovviamente nei territori che meglio conosce e che sono quelli del folk di derivazione (soprattutto) inglese e americana, mettendo insieme una scaletta di canzoni originali (oltre a un paio di cover) suonate per pianoforte e chitarra, intessute su arrangiamenti essenziali e glorificate da una voce splendida. Lo scarto decisivo è proprio il timbro vocale e la tecnica sopraffina della Chaney (ascoltare There's Not A Swain per farsi un'idea), tanto che, forse per la prima volta, a ragione, il paragone con Joni Mitchell non suona come una forzatura o un'esagerazione. Le canzoni del disco scorrono lente proprio come un lungo fiume, si immergono nella natura, ne svelano i colori e i profumi, per librarsi poi leggere verso il cielo, nell'aria odorosa di primavera. The Longest River è un disco di musica che si abbevera di cultura, è figlio di studi e di un background artistico non solo di superficie; eppure, non risulta mai verboso o pretenzioso, ma conquista, ascolto dopo ascolto, con le sue atmosfere rilassate e dolcissime suggestioni contemplative. Un esordio coi fiocchi.

VOTO: 8





Blackswan, venerdì 28/08/2015

mercoledì 26 agosto 2015

BITERS - ELECTRIC BLOOD



Non fatevi ingannare dalla copertina dell'album d'esordio dei Biters, giovane quartetto proveniente da Atlanta: il rimando esplicito a Ride The Lightning dei Metallica può confondere le idee e indurre a pensare di trovarsi di fronte a un disco di trash metal. Invece, Tuk Smith e soci, sono senz'altro derivativi, ma hanno in testa tutt'altro genere. Alfieri di quell'intramontabile, e progressivamente implementata, definizione di classic rock, i Biters rispolverano i dischi degli Ac/Dc, padri putativi di mezzo mondo, e dei Cheap Trick, dei quali hanno anche aperto i concerti, mentre, più per attitudine che per altro, fanno venire in mente anche i Guns. Una bella spolverata con una piccola dose di glam e una più corposa di pop punk, e il gioco è fatto. Ne viene fuori così un disco rombante, sovraccaricato di testosterone, in parte però mitigato dalla capacità di azzeccare quei ritornelli catchy che tanto piacciono alle radio FM. Sia ben inteso che questi ragazzi, anche se hanno la melodia facile (sentite Restless Hearts che apre il disco), sanno comunque graffiare, avendo trovando un equilibrio che soddisferà tanto i rocker della domenica, quanto quelli che amano il ringhio delle chitarre e le potenti linee di basso. E poi, forse anche in virtù di quest'ibrido ben riuscito e capace di soddisfare ogni palato, Electric Blood è il classico disco che non toglieresti mai dallo stereo, tanto è divertente spararlo a tutto volume per la gioia dei vicini. Non sarà la salvezza del rock'n'roll e probabilmente il prossimo anno ci saremo già dimenticati che sia esistito: eppure, un esordio così fresco, energico e cazzone è capace di riaccendere la passione per quella semplice magia che ci rende felici e che chiamiamo rock. Classic rock.

VOTO: 7





Blackswan, mercoledì 26/08/2015

martedì 25 agosto 2015

LARRY CAMPBELL & TERESA WILLIAMS - LARRY CAMPBELL & TERESA WILLIAMS



A prima vista questi due nomi diranno poco o nulla, soprattutto a coloro che non sono avvezzi alle sonorità americane. Eppure, almeno Larry Campbell, possiede un curriculum artistico di tutto rispetto. Sessant'anni, newyorkese, polistrumentista, Campbell ha collaborato e suonato con decine di artisti che hanno inciso profondamente sulla storia del rock a stelle e strisce: da Bob Dylan, nella cui band ha militato dal 1997 al 2004, passando per Paul Simon, Sheryl Crow, Black Crowes, Willie Nelson, Hot Tuna, Little Feat, per arrivare a Levon Helm, con cui, prima che il batterista morisse, ha collaborato nella realizzazione di alcuni dischi. Esperienza, questa, condivisa la moglie Teresa Williams (lei, cantante, ha prestato all'ex The Band la propria voce), insieme alla quale Campbell ha sempre coltivato la passione per sonorità roots, meglio se declinate con accento sudista. Dopo tanti anni, i coniugi si sono decisi a provarci con le proprie forze, allestendo una scaletta di brani originali e un paio di cover (Keep Your Lamp Trimmed And Burning di Reverend Gary Davis e Attics Of My Life, a firma Jerry Garcia, e facendosi accompagnare da un pugno di abili e navigati musicisti, fra cui Bill Payne, pianista dei Little Feat. Punto focale del disco sono ovviamente gli intrecci vocali fra i due e un suono artigianale che pesca dal meglio della tradizione. Country e ragtime si alternano così ad alcuni momenti più elettrici, come l'iniziale Surrender To Love, dai frizzanti sentori rhythm'n'blues, o la sudista Ain't Nobody For Me, con risultati peraltro sempre di ottimo livello. Il meglio però lo si ascolta nella citata cover di Reverend Gary Davis e in due ballate da brivido: Another One More Time, che possiede anche un delicato retrogusto radiofonico, e Down On My Knees, che brilla per il perfetto impasto di voci e l'arpeggio alla sei corde di Campbell. Il risultato finale è un gran disco di americana, tra i migliori ascoltati nel 2015, suonato meravigliosamente da due interpreti carichi di passione, esperienza e carica emotiva. Ci avessero pensato prima, i coniugi Campbell avrebbero potuto regalarci chissà quali impareggiabili gemme.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 25/08/2015

lunedì 24 agosto 2015

CHARLIE BARNES - MORE STATELY MANSIONS



Inglese di Leeds, cantante, polistrumentista, Charlie Barnes è l'ennesimo giovane cantautore che riversa nella propria musica pene d'amore e mood malinconico. Il verbo è quello di un pop rock di classe, stilisticamente molto elegante, che ha i propri riferimenti in un passato recente, che guarda agli anni '90 e '00. Non ci vorrà molto all'ascoltatore più attento ritrovare infatti nelle canzoni di More Stately Mansions numerosi echi che riportano ai primi Muse (la voce di Barnes ricorda parecchio quella di Matt Bellamy), ai Radiohead, agli Ours e, perchè no, anche a Jeff Buckley. Ora, capisco che raccontato così non produca troppe suggestioni: eppure l'esordio di questo ragazzo è tutt'altro che disprezzabile. Le idee, infatti, ci sono, e le canzoni pure, così come un indiscusso talento interpretativo che produce considerevoli dosi di pathos. Quello che manca a Barnes, è semmai la misura. Certi brani soffrono di un eccesso di spettacolarizzazione, di arrangiamenti un pò troppo pieni e pretenziosi, di un'emotività spinta ai limiti del melodramma (MachbethMachbethMachbeth). In certi momenti, il mood si fa decisamente radio frendly (Sing To God), in altri invece si incupisce improvvisamente (Hammers), procurando un sali e scendi sonoro che da l'impressione di essere fuori controllo. Eppure, quando il ragazzo asciuga le canzoni e mette a fuoco l'obbiettivo, i risultati sono assai convincenti, come in Dresden, la migliore del lotto, o nella citata Hammers. Non abbastanza per poter parlare a proposito di Barnes come della next big thing o della new sensation, nel modo in cui piace tanto fare alla stampa britannica, ma nemmeno così poco da archiviare il disco fra le quisquilie. Da tenere d'occhio in prospettiva futura.

VOTO: 6,5






Blackswan, lunedì 24/08/2015