sabato 30 aprile 2016

PJ HARVEY – THE HOPE SIX DEMOLITION PROJECT



Arriva un momento nella vita di un artista in cui questi tocca il vertice della propria creatività. A volte, il vertice corrisponde a un capolavoro, altre volte, no. Ma non è questa la cosa importante: ciò che conta veramente è aver terminato un percorso, aver raggiunto il punto d’arrivo di un cammino, lungo o breve che sia. Oltre non è possibile andare, se non replicando se stessi all’infinito o normalizzandosi sulle convenzioni. Non è questo il caso di PJ Harvey, una delle poche artiste in circolazione la cui fonte di cambiamento appare inesauribile, la cui ricerca è sempre puntata verso il futuro. Polly Jean è in continuo movimento e non sembra mai trovar pace, vittima delle mille suggestioni che affollano la sua mente e che fanno palpitare il suo cuore. Quando pensi che anche lei abbia raggiunto il vertice (Rid Of Me, Stories From The City,Let England Shake),  ecco che in lontananza spunta un’altra vetta da scalare, un altro mistero da scoprire, un nuovo territorio da esplorare. The Hope Six Demolition Project è la summa di tutto ciò che la Harvey ha fatto fino a oggi ed è un disco costruito sulle stratificazioni e sui sedimenti di una carriera in cui nulla è mai stato dato per scontato. Per capire come PJ sia arrivata fino a qui non si può prescindere dalla sua storia, bisogna ripercorrere le tappe, riprendere in mano gli umori selvaggi di Dry e Rid Of Me, abbandonarsi ai fantasmi del lugubre White Chalk, perdersi nel magma sonoro di Let England Shake. Ma The Hope Six Demolition Project, con il suo andamento ondivago, i saliscendi umorali e gli slanci sperimentali, è anche la cartina di tornasole per comprendere cosa accadrà nel domani della cantantessa del Dorset. Non stiamo parlando di un disco semplice (ma quale disco di Polly Jean lo è mai stato?), e anzi The Hope Six Demolition Project suona scorbutico e ben poco condiscendente nei confronti delle mode. Ma se siamo ancora capaci di stupirci di fronte a un mondo musicale che sembra aver esaurito la sua forza propulsiva e in cui tutto, più o meno, è già stato raccontato, lo dobbiamo proprio a lavori come questo. Appunti di viaggio fra zone di guerra (Afghanistan e Kosovo), lo sguardo caustico verso l’America e le sue politiche allineate a un consumismo sfrenato che si fa beffe dello stato sociale, e un libro di poesie (The Hollow Of The Hand, in collaborazione con il fotografo Seamus Murphy), sono solo il punto di partenza per un viaggio sonoro in cui sono le canzoni le vere protagoniste. Canzoni che si nutrono di contrasti, in una tavolozza nella quale convivono colori brillanti, abbagli di luce, cromature scintillanti, ma anche violente pennellate di nero pece. Il fluire è ondivago e spiazzante, il mood mai allineato, gli arrangiamenti stranianti e imprevedibili. Community Of Hope che apre con passo gagliardo e una melodia corale che non lascia scampo, Ministry Of Defence con la cadenza marziale di un Leviatano in musica, lo stato e la politica che tutto fagocitano in stridenti note di sax, il folk alla Joan Baez in Near The Memorials To Vietnam and Lincoln, l’equilibrio instabile di River Anacostia, in bilico fra gospel, ritmo tribale e accorata invocazione, lo sprofondo malinconico di The Orange Monkey, la ruvidezza rock adornata di handclapping di The Wheel sono solo alcuni dei momenti più riusciti di un disco, il cui unico fille rouge è rappresentato dall’uso ossessivo dei cori e dal sapiente arrangiamento dei fiati (fra i crediti anche il nostro Enrico Gabrielli). La nuova PJ Harvey, dicevamo, si porta dietro tutto il suo passato e lo rielabora, pensando nuovamente al futuro. L’urgenza espressa a inizio carriera, quel broncio capace di trasformarsi in ringhio, oggi è diventata un’altra cosa, un modo maturo e più riflessivo di fare musica, rimescolando (ancora) le carte in tavola, per prepararsi a una nuova partenza e a un nuovo cammino. Di vertice in vertice, con la passione e l’incanto di chi riesce sempre a stupirci, raccontandoci nuove storie. La metamorfosi continua.

VOTO: 8





Blackswan, sabato 30/04/2016

venerdì 29 aprile 2016

THE SONICS - LIVE AT EASY STREET (ReVox, 2016)



Seattle festeggia The Sonics, la più importante Garage band d’America, sul palco della Easy Street Records con la smisurata complicità dei suoi rockers più illustri: Eddie Vedder e Mike McCready (Pearl Jam), Mark Pickerel e Matt Lukin (Mudhoney), Chris Ballew (Presidents Of The United States Of America), Ben Shepherd  (Soundgarden), Emily Nokes (TacocaT), Rod Moody (Swallow), Van Conner (Screaming Trees), Bill “Kahuna” Henderson (Girl Trouble) e infine, a completare la parata all stars, Jack Endino (Nirvana, Soundgarden, Mudhoney) dietro il banco mixer. Lo storico concerto si è tenuto il 18 Aprile del 2015 in occasione del Record Store Day e registrato da KEXP nella tappa del tour promozionale di This Is The Sonics l’incredibile, meraviglioso, album dell’anno scorso che ha riproposto prepotentemente all’attenzione del mondo del Rock, e di tutta la critica in coro (finalmente!), la mitica band di Tacoma dopo mezzo secolo di inattività discografica. Sa di miracoloso quello che stanno facendo questi attempati signori nati intorno agli anni ’40 e i grandi nomi che danno man forte alla realizzazione di questo devastante live stanno lì ad attestarlo. 






Tutti artisti che hanno segnato i ’90 con il movimento Grunge venuti su da adolescenti a pane e Sonics. Molto più quindi di un semplice tributo alla band di Larry Parypa, Gerry Roslie, Rob Lind (i tre membri originari) e dei “nuovi” Freddie Dennis (The Kingsmen) al basso e Dusty Watson (Dick Dale) alla batteria. In questo fantastico live si celebra il ritorno alle scene degli inventori di un genere, il Garage Rock, quella miscela fragorosa e sanguigna di R’n’R e R’n’B primordiale che ha fatto divertire e cantare a squarciagola generazioni di ragazzi. Live At Easy Street suona proprio così: selvaggio, urticante e, di questi tempi, necessario! Un happening in cui l’anagrafe vale meno di zero e la potenza aggregante del Rock non ha bisogno d’altro che di un palchetto, qualche amplificatore e canzoni meravigliose da suonare una volta di più. Il resto viene da sé. Ascoltare per credere!
La scaletta mette in fila 16 brani incendiari, i superclassici Cinderella, Boss Hoss, He's Waiting, Have Love Will Travel (sentita ultimamente e incredibilmente nella pubblicità della birra Peroni!), Psycho e The Witch. Dei gioielli di famiglia manca solo Strychnine, in compenso ci sono le nuove gemme: I Don't Need No Doctor (ecco come si sentono i Sonics ultimamente), Be a Woman, Bad Betty, The Hard Way, Sugaree, Leaving Here (con un grande Eddie Vedder alla voce), che non sfigurano affatto al confronto dei capolavori del biennio 64/66. C’è davvero poco che suggerisca revivalismo per nostalgici sopravvissuti ai problemi alla prostata o al bisturi del chirurgo plastico. Qui dentro c’è la ricetta per l’eterna giovinezza. Disco più divertente dell’anno. Rock’n’Roll & The Sonics never die! 

Voto: 8.5





Porter Stout, venerdì 29/04/2016

giovedì 28 aprile 2016

METALLICA - LIBERTE', EGALITE', FRATERNITE', METALLICA!



In occasione del record Store Day dello scorso 16 aprile, i Metallica sono usciti con un nuovo album dal vivo, registrato al Bataclan di Parigi l'11 giugno del 2003. Libertè, Egalitè, Fraternitè vuol essere, come si legge nelle brevi note di copertina, un tributo alle vittime dei terribili attentati del novembre dello scorso anno, oltre che una sorta di regalo ai fans più affezionati (la tiratura del cd è limitata a ventimila copie e all'interno del packaging troverete il vostro numero di matricola). Il concerto è relativo al tour promozionale di St.Anger, il quarto album in studio prodotto da Bob Rock, che nello specifico aveva peraltro curato anche tutte le parti di basso, in attesa che Robert Trujillo si aggiungesse alla band (e la differenza fra Bob Rock - e Jason Newsted-  e Trujillo in questo live si sente proprio tutta). La scaletta del disco, tuttavia (e mi verrebbe da dire: fortunatamente), presenta un unico episodio tratto da St.Anger (la sola Frantic), mentre tutte le altre canzoni sono relative ai primi quattro album dei Metallica (cioè, il meglio della loro produzione). Apre The Four Horsemen, da Kill 'Em All, e chiude Damage, Inc, da Master Of Puppets. In mezzo, alcuni classici della band quali Seek & Destroy (Kill 'Em All), Ride The Lighning (dall'omonimo disco del 1984) e Blackened (da ...And Justice For All). La registrazione è più che buona (anche se il missaggio, in qualche punto, lascia un pò a desiderare), l'onda d'urto è come sempre mostruosa (la presenza di Trujillo si fa sentire) e le canzoni esplodono tutte nella loro mastodontica potenza. I proventi derivanti dalla vendita del cd verranno interamente devoluti a Give For France, un'associazione filantropica che raccoglie fondi per i sopravvissuti e i famigliari delle vittime degli attacchi del 13 novembre.

VOTO: 6,5



al seguente link è possibile ascoltare un estratto del live dei Metallica:





Blackswan, giovedì 28/04/2016

mercoledì 27 aprile 2016

ROBERTO COSTANTINI - LA MOGLIE PERFETTA



Nel maggio del 2001, a Roma, due coppie, il professore italoamericano Victor Bonocore e la moglie Nicole Steele, il pubblico ministero Bianca Benigni e il marito Nanni. Due matrimoni come tanti, a volte felici, a volte meno. Tra loro una ventenne pericolosa, Scarlett, sorella di Nicole. Intorno, la terra di mezzo del S ordomuto e del Puncicone, gli appalti pubblici, il gioco d'azzardo, l'usura, e la morte atroce di una ragazza, Donatella. Sembra essere l'ennesimo atto di viole nza patito da una donna per mano di un uomo violento, l'assassino viene scoperto e giustizia è fatta. O forse no? Quando viene ucciso Victor Bonocore, Michele Balistreri dirige la terza sezione della squadra Mobile e indaga insieme al pm Bianca Benigni. La miscela è esplosiva, le modalità di conduzione dell'indagine contro le sorelle Steele sono fuori dai confini della legge e l'esito è disastroso. L'arresto di Scarlett e Nicole incrina le relazioni tra Italia e Stati Uniti. Tutto finisce male. Nel 2011 una rivelazione inattesa spinge Balistreri a riaprire quel caso rimasto senza colpevoli. Ma se non è tardi per la giustizia, forse lo è per l'amore e per la vita. O forse no.
Dopo averci fatto palpitare con i tre episodi della Trilogia del Male (Tu Sei Il Male, Alle Radici Del Male, Il Male Non Dimentica), Roberto Costantini torna con un nuovo romanzo che vede protagonista ancora una volta Michele Balistreri. La Moglie Perfetta, però, presenta delle novità non da poco rispetto ai tre romanzi precedenti. Intanto, l'azione si sposta interamente a Roma, e il contesto libico e i continui flash back sulla giovinezza di Balistreri vengono completamente abbandonati. Se è vero poi che, come di consueto, non mancano salti temporali fra presente e passato (la prima parte del romanzo è separata dalla seconda da un balzo temporale di dieci anni), è, per converso, altrettanto vero che Costantini riesce a carpire l'attenzione del lettore inserendo nella narrazione anche impliciti rimandi a fatti di cronaca nera più o meno recenti (i riferimenti a Mafia Capitale e alla triste vicenda di Amanda Knox e Meredith Kercher). Altra novità, forse la più saliente, è che Balistrieri condivide il ruolo di protagonista del romanzo con altri personaggi, che per gran parte del libro rubano la scena proprio all'amato commissario: intere parti del romanzo vengono, infatti, raccontate da Nanni e Bianca, e creano quell'intreccio narrativo che, pagina dopo pagina, verrà dipanato dall'abile e cinico poliziotto. Fatte le dovute premesse, stiano pure tranquilli tutti i fans di Balistreri, visto che la trama, pur cambiando registro, regge alla grande anche lontano dalla Libia, la prosa di Costantini è sempre un bel leggere e i colpi di scena, che vi terranno col fiato sospeso, non mancano. Anzi, in questo caso, c'è  una svolta finale (del tutto inaspettata) che unisce la trama gialla a quella che, forse, sarà in futuro un importante sviluppo nella vicenda personale di Balistreri. Ottimo ritorno.


Blackswan, mercoledì 27/04/2016

AMERICANA

martedì 26 aprile 2016

JOE BONAMASSA - BLUES OF DESPERATION



La prolificità di Joe Bonamassa è un dato di fatto che ha pochi eguali. Ogni anno, le uscite a suo nome, sia che si tratti di dischi solitisti, dischi live, collaborazioni con Beth Hart, comparsate in lavori altrui (il tributo dello scorso anno di Mahalia Barnes a Betty Davis) o progetti paralleli (i disciolti Black Country Communion e gli attuali Rock Candy Funk Party), ammontano come minimo a tre (nel 2016 due dischi sono già usciti, un terzo, con Beth Hart, è previsto per fine anno). A fronte di un così cospicuo numero di pubblicazioni, bisogna dire che il chitarrista newyorkese ha sempre mantenuto, però, un livello qualitativo più che discreto. Certo, a meno che non siate fans, non tutte queste uscite sono imprescinbili; tuttavia, si può dire, senza timore di prendere un abbaglio, che Bonamassa non è mai sceso al livello di raschio del barile. Prova ne è Blues Of Desperation, dodicesimo album in studio, uscito a distanza di due anni dal precedente Different Shades Of Blues (2014), che si presenta come uno dei migliori capitoli della sua discografia. Registrato a Nashville, prodotto dal fido Kevin Shirley, questo nuovo full lenght suona potente più che mai, grazie a un wall of sound a cui contribuiscono i nuovi amplificatori Fender (accantonati per il momento i Marshall), l'affiancamento di due batteristi in svariati brani (Anton Fig e Greg Morrow), una sezione fiati e un terzetto di voci femminili, guidato da Mahalia Barnes. Una resa, quindi, dai volumi pieni e dal suono grintosissimo, in cui la componente rock tende a prevalere su quella blues in moltissimi episodi in scaletta. Tanto che, almeno in alcuni casi, sembra di ascoltare più il Bonamassa al servizio dei Black Country Communion che non quello che ci aveva abituati a prove più vicine al blues tradizionale (da ultimo, il live Muddy Wolf At Red Rocks). Parte This Train ed è tutto chiaro: una bordata hard rock che fila come un diretto, spazzando via tutto con potenza sferragliante (l'ascolto a tutto volume è di una resa impressionante). Non sono da meno Mountain Climbing, altro brano molto hard, con un bel riff alla Ac/Dc, e il ringhio della title track, che col blues, almeno quello tradizionale, ha davvero poco a che vedere e gira più dalle parti dei Led Zeppelin. Il blues affiora soprattutto nella parte finale del disco, quando Bonamassa si avvicina a standard più classici (Livin' Easy e What I've Known For A Very Long Time), oppure nella superba No Good Place For The Lonely, che inizia bluesy e cadenzata, e poi si abbandona in una sbrigliata seconda parte, in cui la chitarra di Bonamassa prende letteralmente il volo con un assolo da urlo. C'è il tempo anche per la ballata elettroacustica di Drive, il brano più morbido dell'intero lotto, e per You Left Me Nothin' But The Bill And The Blues, un divertissement r'n'b, con il chitarrista ancora in grande spolvero. Insomma, Blues Of Desperation è sempre, più o meno, il solito disco di Bonamassa, quel disco che alterna ballate a pezzi tirati e che, a volte, suona più blues, e altre, invece, più rock. Se non amate il genere, tenetevene decisamente alla larga; se, invece, questa è la musica che fa per voi, il livello di godimento è, come sempre, altissimo.

PS: la versione deluxe del cd comprende un set fotografico di circa sessanta pagine che immortala i pezzi migliori del Bona - Seum, la collezione di chitarre di proprietà di Bonamassa. Spettacolo!

VOTO: 7





Blackswan, martedì 26/04/2016