domenica 26 giugno 2016

ELISABETH COOK - EXODUS OF VENUS



Tante delle cose più interessanti uscite in questo 2016 sono colorate di rosa: Bonnie Bishop, Lucinda Williams, The Savages, Jane Lee Hooker, solo per citarne qualcuna. A tanti bei dischi si aggiunge anche Exodus Of Venus, il nuovo disco di Elisabeth Cook. Un nome che dalle nostre parti dice poco o nulla, mentre in America, invece, questa ragazza originaria della Florida vanta un cospicuo seguito di fans. La musica della Cook si può inserire tranquillamente nel filone americana, anzi a voler essere precisi nel filone Ameripolitan, classificazione creata di recente per indicare una musica fortemente legata alle radici che fonde principalmente quattro generi: honky tonk, western swing, rockabilly e soprattutto outlaw country. I Music Awards di Ameripolitan sono nati nel 2014 e la Cook, alla prima edizione, ha vinto un riconoscimento per la categoria Oulaw Female. Insomma, stiamo parlando di un personaggio di tutto rispetto. Exodus Of Venus è il suo primo full lenght dopo uno iato durato sei anni e nasce da due dolorose esperienze: la morte del padre e la fine del matrimonio con Tim Carroll, suo collaboratore e chitarrista storico. Due eventi che hanno necessariamente segnato la vita della quarantreenne songwriter, ma hanno anche influenzato decisamente il suono di queste canzoni. Il nuovo disco, infatti, si discosta nettamente dai lavori precedenti, è più elettrico e più virato verso sonorità rock e blues, ma soprattutto i brani che compongono la scaletta sono pervasi da un mood cupo e depresso, che si riverbera pesantemente anche sui testi. La title track, con cui si apre il disco, è una ballata elettrica dai toni swamp, sostenuta da una ritmica quadrata e dalla chitarra ruvida di Dexter Green, che oltre a suonare nel disco lo produce anche.




E’ subito chiaro che le sonorità rock predominano, che il sound è irrorato da un’aspra malinconia e che durante l’ascolto sarà (prevalentemente) la notte a prendersi cura di noi. I testi sono chiaramente autobiografici, e la Cook mette a nudo le sofferenze di un amore che le ha causato un crollo fisico ed emotivo (Broke Down In London On The M25). Nel consueto gioco dei rimandi è soprattutto Lucinda Williams a venire in mente, come è palese nel solido groove di Dyin’, un altro brano innervato da un rancore a stento trattenuto. Ma il peso del dolore e i fantasmi del passato emergono prepotentemente soprattutto nel rock astioso di Evacuation e nel rallenti blues di Slow Pain, una lenta e lunga discesa nei più inaccessibili romiti del dolore, segnata dalle rasoiate di lap steel di Jesse Aycock e dalle distorsioni noise di Green. Da segnalare anche Dharma Gate, ballata avvolta di una trasognata nostalgia, che depurata dagli accenti americani, potrebbe funzionare benissimo in un disco di Lana Del Rey, Straightjacked Love, una sorta di vademecum del genere Ameripolitan, e il battito funky soul di Methadone Blues, uno dei momenti più leggeri in scaletta. In verità, non c’è una sola canzone di Exodus Of Venus (titolo programmatico come pochi) che non meriti di essere citata (oltre che, ovviamente, ascoltata con estremo interesse). La Cook, infatti, mette a segno il suo personale capolavoro e uno dei dischi di americana più belli dell’anno: aspro, ruvido, depresso, ben poco accondiscendente e lontano dai consueti lidi contigui a sonorità country. Come spesso succede in ambito musicale, da un grande dolore nasce una grande arte: qui c’è rabbia, c’è rancore, c’è un grumo di fiele che rende amara la bocca. E’ sincerità, è sofferenza, è la vita, è musica vera.

VOTO: 9 





Blackswan, domenica 26/06/2016

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