giovedì 16 giugno 2016

LAYLA ZOE – BREAKING FREE



Il decimo disco di Layla Zoe conferma quanto di buono fatto finora da questa ragazza canadese, che, a dispetto della copertina molto stilosa, che le trasmette un aura da fotomodella, assomiglia in verità più a Janis Joplin (che proprio bella non era). Poco male, visto che Layla forse non calcherà mai una passarella nella sua vita, ma su un palco e con un microfono in mano appare molto più seducente di qualsiasi copertina di Vogue. Breaking Free, disco votato al più classico rock blues possibile, appare, fin dal primo ascolto, ribadire concetti ben noti a tutti gli appassionati di genere; eppure, nonostante la continua sensazione di deja vu, le undici canzoni in scaletta possiedono un’anima e sono attraversate da una passione, che non sempre si ha la possibilità di percepire in questi anni di musica di plastica. Zoe, dal canto suo, sfoggia una grandissima voce, di quelle potenti, che gonfiano ogni centimetro dell’aria circostante le casse dello stereo, così che un paragone con la grande Janis, a prescindere dalla somiglianza estetica, non è poi troppo peregrino. Il suo stile, a dire il vero, non è forse dei più originali; in compenso, si ha sempre la sensazione che Layla creda fortemente in quello che canta, tanto che, con una certa frequenza, ci ritroviamo ad osservare la superficie delle nostre braccia increparsi a causa della piacevole sensazione da pelle d’oca. Ad accompagnarla nel disco (e sul palco), tre musicisti di grande spessore: Gregor Sonnenberg al basso, Hardy Fischötter alla batteria e il superlativo Jan Laacks alla chitarra elettrica (un cameo di Sonny Landreth alla slide guitar in Wild One completa la line up). Settantun minuti di rock blues, che mostrano i muscoli (la vibrante Backstage Queen che apre il disco, ad esempio) o che si sciolgono in languori malinconici come nella pianistica e struggente He Loves Me. Tante belle canzoni, insomma, ma con due picchi che da soli valgono il prezzo del biglietto: una Wild Horses (Rolling Stones) sospesa a mezz’aria, nonostante carica di un dolente pathos blues, e Highway Of Tears, la miglior ballata ascoltata quest’anno, undici minuti disperati (ma veramente disperati) su cui aleggia il fantasma di Gary Moore. Un pezzo talmente bello che è quasi impossibile passare al brano successivo senza sentirsi in colpa. Così, diventa stucchevole ribadire, per correttezza recensoria, che certi dischi non cambiano di una virgola la storia, perché, poi, quando li metti sul piatto, capisci che lavori come Breaking Free diventano metro di giudizio per tutte le uscite dell’anno.

VOTO: 7,5





Blackswan, giovedì 16/06/2016

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