venerdì 3 febbraio 2017

THE MOLOCHS - AMERICA’S VELVET GLORY (INNOVATIVE LEISURE, 2016)



Qualche giorno fa Emiliano Morreale su Repubblica, faceva il punto sulla voglia di nostalgia che attraversa molte delle arti più popolari: cinema, televisione e musica. Un elenco che comprendeva La La Land, musical ambientato negli anni 50, che potrebbe far man bassa di statuette alla prossima edizione degli Oscar, l’adattamento vintage se non addirittura rètro in serie tv popolarissime come Mad Men, Masters Of Sex, Vinyl e The Americans, il prossimo tour degli U2 incentrato su The Joshua Tree a 30 anni dalla sua uscita. Niente di nuovo sotto il sole quindi, il momento storico è quello che è, di rivoluzioni neanche mezza, ci si consola con i beni rifugio del passato. Una disanima che ci dà lo spunto per introdurre il bel disco dei Molochs e aggiungere qualche considerazione, più in generale, su come oggi vengono recepiti tutti quei generi musicali, ancora vitalissimi, in cui non ci si vergogna di volgere lo sguardo verso gli anni 60 e 70. Dialettica tra diverse generazioni, del tutto normale e diffusamente acettata nelle altre arti, che invece genera scompiglio e disappunto nei mezzi d’informazione specializzati. Oramai è prassi leggere recensioni in cui la premessa è più significativa dello svolgimento. Tutto uno scusarsi perché ci si interessa una volta di troppo a musicisti che preferiscono rifarsi agli Stooges anziché ai padri dell’elettronica.




Sul banco degli imputati le chitarre che, a loro dire, avrebbero perso la centralità nell’evolversi della nostra musica preferita. Quindi la chiosa: il disco è bello, anzi, bellissimo però vecchio, anzi, vecchissimo! Come nei bugiardini dei farmaci: ti toglie la febbre ma, attenzione, potrebbe sopraggiungere l’osteoporosi. Ecco, ascoltando America’s Velvet Glory, secondo album della band californiana capitanata da Lucas Fitzsimons, si corre questo rischio, il disco è uscito l’altro ieri ma potrebbe provenire dagli anfratti più reconditi degli anni 60: chitarre jingle-jangle, ricerca del perfetto refrain, ingredienti tradizionali come il Garage, il R’n’B e la Psichedelia. Memorie byrdsiane (The One I Love), la Swinging London degli Stones di 19th Nervous Breakdown presa a modello per la contagiosa No More Cryin’, oppure You and Me e New York ricche di atmosfere velvettiane. In altre parti del disco ci sembrerà di incrociare lo sguardo di Jonathan Richman (I Don't Love You) e Gordon Gano (No Control). Un gioco di rimandi, pressoché infinito e dichiaratamente simbolico, che i Molochs padroneggiano sapientemente insieme ad una capacità di scrittura fuori dal comune. Insomma, per alcuni potrebbe essere un nonsense temporale, oppure, in un mondo meno appiattito alle mode del momento, una band che non cambierà la storia del Rock ma che ha tutti i numeri per rinfocolare passioni ed entusiasmi mai sopiti e, perché no, crearne di nuovi (cosa tra l’altro già successa negli 80 e nei 90 senza provocare per questo nessun allarme). I Molochs si aggiungono dunque alle altre realtà che vanno affermandosi in questi ultimi anni: Parquet Courts, Mystery Lights, Night Beats, A Giant Dog, Allah-Las, Cool Ghouls e via elencando solo tra le più recenti. Il movimento esiste, le chitarre sono sempre lì al centro del proscenio e ci si diverte parecchio ad ascoltarle. Per le controindicazioni rivolgersi altrove.

VOTO: 7,5





Porter Stout, venerdì 03/02/2017

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