lunedì 24 luglio 2017

ALGIERS – THE UNDERSIDE OF POWER (Matador, 2017)



In una scena musicale dominata da passatismo e revivalismo, gli Algiers hanno percorso una strada difficile e in controtendenza, definendo una proposta che, seppur derivativa nei punti di riferimento (ma quale non lo è?), è apparsa fin da subito totalmente nuova nella struttura e nei contenuti. Ci è voluto coraggio, in questi anni di ispirazione ai minimi termini e di riciclaggio compulsivo, per uscire dal coro e far sentire una voce, che non solo suonasse diversa da tutte le altre, ma che fosse in grado di declinare un linguaggio ostico, corposo, ricco di contenuti. Quello che la band di Atlanta è riuscita a fare in un solo disco è stato un triplo salto mortale senza rete, un azzardo a rischio caduta libera perfettamente riuscito (se non a livello commerciale, sicuramente da un punto di vista artistico). Non solo, infatti, gli Algiers hanno creato un suono identificativo e immediatamente riconoscibile, ma hanno codificato un genere, creando un’inaudita miscela che pesca dalla grande tradizione nera (soul, r’n’b, gospel) rimasticata, però, in chiave post-punk. L’omonimo esordio del 2015 fece, quindi, gridare al miracolo in molti, compreso il sottoscritto: un disco spiazzante e ricco di pathos, in cui le black roots del profondo Sud degli Stati Uniti venivano destrutturate sull’asse Berlino-Londra, sotto il tiro incrociato di un bombardamento noise, goth e industrial. Un po’ come ascoltare le canzoni della grande Mahalia Jackson suonate (rectius: disturbate) dagli Einsturzende Neubauten o dai Joy Division. I testi militanti, lo schieramento hic et nunc tra le fila dell’ultra sinistra, le barricate per i diritti civili dei neri, tema ricorrente nelle canzoni della band (vedi la nuova Walk Like A Panther che campiona la voce di Fred Hampton, attivista delle Pantere Nere ucciso nel 1969) completano l’habitus concettuale di una band che si pone con orgoglio fuori da ogni logica dello star system. Il sophomore The Underside Of Power non fa altro che ribadire, sviluppandole, quelle idee. Se da un lato l’effetto sorpresa è chiaramente venuto meno, è altrettanto vero che la band non ha affievolito la propria vis iconoclasta, mantenendo dritta la barra di una musica che veicola temi politici e militanti in controtendenza rispetto allo smantellamento ideologico (e morale) della società. La saturazione dei suoni, cupi, metallurgici e in odore di apocalisse, resta un punto fermo di una scaletta che, tuttavia, aggiunge nuovi elementi alla rabbia dissonante e digitalizzata che contraddistingue le canzoni degli Algiers. Ecco allora la dolcezza in formaldeide di Mme Rieux, petali di pianoforte sparsi proprio là, dove prima erano cadute le molotov; ed ecco il gospel imprigionato nel loop di Hymn For An Average Man, nenia crepuscolare attraversata da un romanticismo dagli echi siderurgici. Fingono addirittura ad essere lineari, gli Algiers, ma in fin dei conti stanno solo mischiando le carte: così le convulsioni northern soul della title track, che rilegge The Commitments sotto l’algida luce dei neon, giocano con la melodia e l’inquietudine, ponendosi come unico obbiettivo quello di dissacrare un genere per tenerlo in vita, potenziandolo con un esoscheletro al titanio. Così, ancora una volta, gli la band di Atlanta vince la sua battaglia per la modernità, trasformando il passato, le radici, il pensiero marxista e la militanza nera in qualcosa che suona nuovamente attuale. Una sportellata ai ben pensanti musicali, un quadro a tinte fosche di un’umanità in debito d’ossigeno, un grido di rabbia di chi non vuole arrendersi al degrado etico e al potere corrotto della politica, e pensa che stare sulle barricate e combattere sia meglio che crogiolarsi in una muta e rassegnata disperazione: The Underside Of Power è tutto questo. Un calcio nello stomaco e un’audace prospettiva di speranza.

VOTO: 8





Blackswan, lunedì 24/07/2017

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