giovedì 31 agosto 2017

DANNY & THE CHAMPIONS Of The WORLD – Brilliant Light (Loose, 2017)




Sono ormai dieci anni che Danny George Wilson (voce e chitarra) e i suoi Campioni del Mondo (Chris Clarke al basso, Steve Brookes alla batteria, “Free Jazz” Geoff al sassofono e tastiere, Paul Lush alla chitarra e Henry Senior Jr alla pedal steel) trasportano un pezzo della tradizione musicale degli Stati Uniti nel cuore dell’Inghilterra. Una passione per il roots a stelle e strisce, quella di Danny, nata ancora più lontano, quando era alla guida della country rock band dei Grand Drive, e proseguita, poi, con i Champions, attraverso un pugno di album onesti e diretti, figli dei gusti ruvidi ma sinceri della working class delle periferie londinesi e di serate passate al pub a ballare e tracannare birra. Giunti al settimo album in studio, il combo prosegue lineare per la strada già tracciata, senza inventare nulla, ma continuando a fare bene il proprio mestiere, con la passione di chi ama ciò che suona e suona ciò che ama. Lontana anni luce da ogni fermento modaiolo, anche la scaletta del nuovo Brilliant Light propone il consueto menù di pietanze caserecce e saporite: piatti immutabili e ruspanti, grazie ai quali esibire con orgoglio, sotto il marchio di fabbrica, il claim: “fatti a mano da generazioni!”. L’ingrediente principale è il soul, le spezie sono il rock e il country. A ispirare la cucina, grandi chef del passato come gli Allman Brothers Band (Consider Me, con lo sferragliare finale delle chitarre, è uno dei migliori brani del lotto), Sam Cooke, Southside Johnny, The Commitmens, Rod Steward e Van Morrison, ma potrebbero anche essere azzardati paragoni più vicini nel tempo con JJ Grey & Mofro e Nathaniel Rateliff & The Night Sweats. Voce appassionata, potente sezione fiati, ballatoni strappamutande, qualche ammiccamento country (Waiting For The Right Time, Bring Me To My Knees), coretti, chitarre funky, intensità e sudore. Troverete questo, e molto altro, nei solchi di Brilliant Light, un disco lunghissimo (diciotto canzoni, forse troppe) e piacevolmente prevedibile dall’inizio alla fine, la cui unica pretesa è quella di divertire con una musica autentica, vibrante, americanissima.

VOTO: 7





Blackswan, giovedì' 31/08/2017


 

mercoledì 30 agosto 2017

CANZONI




Cinquantun anni appena compiuti, Lee Ann Womack, stella di prima grandezza del movimento neotraditionalist country, ha annunciato l’uscita del suo decimo album in studio. Il disco, che si intitola The Lonely, The Lonesome & The Gone, sarà nei negozi il 27 ottobre e sarà rilasciato via ATO Records. Le canzoni in scaletta saranno quattordici e conterranno il consueto melange di country, blues, soul e gospel. Il primo singolo è già in rete, si intitola All The Trouble ed è una cupa ballata bluesy firmata dalla Womack e da Adam Wright e Waylon Payne, membri della band che ha accompagnato la songwriter in studio di registrazione.





Blackswan, mercoledì 30/08/2017

martedì 29 agosto 2017

SUZANNE SANTO – RUBY RED (Soozanto Records, 2017)




Arriva un momento nella vita in cui si sente il bisogno di cambiare, di imboccare una strada diversa, di mettersi alla prova con nuove esperienze, di capire chi realmente siamo misurandoci fuori dal nostro contesto. Suzanne Santo ha passato gli ultimi dieci anni a lavorare insieme a Benjamin Jaffe al progetto HoneyHoney, due losangelino che utilizzando prevalentemente strumenti tradizionali (violino, banjo, chitarra acustica) e facendo leva sulla voce cristallina della Santo, ha pubblicato tre album di alt country rivisitato in chiave pop rock. Tre dischi all’attivo, l’ultimo dei quali, 3, è stato prodotto da Dave Cobb e ha aperto alla band le porte di un meritato successo. Suzanne, però, meditava da tempo un cambio rotta e animata dal desiderio di mettersi in gioco in solitaria, si è affidata alle sapienti mani dell’amico Butch Walker (produttore apprezzatissimo e songwriter di successo – il suo ultimo Stay Gold del 2015 ha ricevuto critiche entusiastiche), che le ha messo a disposizione i suoi personali studi di registrazione, i celebri Ruby Red Studios, che danno anche il titolo al disco. L’istinto naturale di Walker verso il rock più duro e ruvido e l’inclinazione crepuscolare del songwriting della Santo hanno prodotto un disco anomalo, cupo, più distante dalle melodie acustiche e solari che talvolta animano il pop country degli HoneyHoney. A eccezione della conclusiva Better Than That, l’americana, infatti, è stata messa da parte per far spazio a una scaletta in cui sono predominanti sonorità rock e soul, in cui la notte prevale sul giorno, la distorsione sul ricamo, il torbido sul cristallino. Apre il disco Handshake, un crescendo noir di tamburi battenti, violini strazianti e vibrante elettricità, biglietto da visita per un disco il cui mood oscilla fra l’oscuro e il meditabondo. Il primo singolo, Ghost In My bed, accelera il passo su una accattivante melodia pop, ma le partiture di pianoforte e di violino suggeriscono più di un languore malinconico. The Wrong Man è uno spiritual dalla buccia scabra che non starebbe male nelle mani degli Algiers, Best Out Of Me è una struggente ballata che si veste di nostalgico decadentismo, Regrets sfodera un bel piglio swamp, mentre Bullets è un lamento soul dall’atmosfera cinematografica, che avrebbe fatto una splendida figura sul nuovo disco di Lana Del Rey. Tutto molto bello, grazie anche alla voce emozionante, ipnotica e duttile di Suzanne, che riesce a esprimersi meravigliosamente sia quando gioca col passo lento della ballata sia quando occorre sfoderare grinta e rabbia. Non a caso, il meglio del disco sono due dei brani più rumorosi: il rock blues di Love Fucked Up, in cui Suzanne copre lo stridere delle chitarre, sfoderando un minaccioso ringhio da pantera della notte, e Blood On Your Knees, capolavoro di originalità, che inizia come una ballata in stile Adele e cresce poi in un’esplosione di chitarre percosse a sangue. Rispetto alla sua militanza negli HoneyHoney, gruppo piacevolissimo di cui consiglio vivamente di recuperare tutti e tre gli album in studio, Suzanne Santo da sola dimostra di possedere una marcia in più: una scrittura più stratificata, in cui confluiscono diverse modalità espressive, e grinta e passione da vendere. Assolutamente da non perdere.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 29/08/2017

lunedì 28 agosto 2017

Shelby Lynne & Allison Moorer – Not Dark Yet (Silver Cross/Thirty Tigers, 2017)




A dispetto dei cognomi diversi, Shelby Lynne e Allison Moorer sono sorelle, ed entrambe, cosa abbastanza singolare, hanno alle spalle un’importante carriera in ambito country. Cresciute in Alabama, vittime di un’infanzia difficile a causa del padre violento e alcolista che ha ucciso la madre e si è tolto la vita quando le due ragazze erano ancora minorenni, Shelby e Allison hanno intrapreso due strade artistiche parallele che non si sono mai incrociate. Shelby ha all’attivo 16 album e ha vinto un Grammy Awards nel 2001 come miglior giovane artista; Allison, dal canto suo, non ha mai vinto nulla, ma ha raggiunto, forse, una maggior caratura che le è valsa negli anni parecchie collaborazioni importanti (Steve Earle, che ha sposato nel 2006, David Byrne, The Chieftains, Sheryl Crow, etc.). C’è voluto tempo perché la vita professionale delle due sorelle si intersecasse, ma alla fine è successo: Not Dark Yet è in assoluto il primo disco suonato in condominio da Allison e Shelby. Per l’occasione, le due ragazze si sono affidate per la produzione a Teddy Thompson (figlio di Linda e Richard) e hanno portato in studio un pugno di musicisti straordinari: Benmont Bench (da una vita con Tom Petty) al pianoforte, Doug Pettibone e Val McCallum alle chitarre, Don Heffington e Michael Jerome alla batteria e Taras Prodaniuk al basso. In scaletta, nove cover e un solo brano originale, Is It Too Much, splendida ballata jazzy dalle cupe atmosfere notturne. Per quanto riguarda la scelta dei brani da reinterpretare, le due cantanti hanno evitato la strada dell’ovvietà, preferendo, invece, un repertorio vario e prendendosi anche qualche azzardo. Se, infatti, Lungs di Townes Van Zandt e I’m Looking For Blue Eyes di Jessi Colter sono due brani riusciti perché si sposano molto bene con il target musicale delle due songwriters, Into My Arms, dal repertorio di Nick Cave, manca della profondità baritonale e dell’inquietudine che animava l’originale di Re Inchiostro, mentre Lithium dei Nirvana è troppo lontana dalle corde delle sorelle perché ne sia potuta venir fuori qualcosa di buono. Di sicuro più riuscite sono la rilettura di My List dei Killers, più intima e intensa rispetto a quella che trovate su Sam’s Town, Not Dark Yet, che da il titolo all’album, assai rispettosa dell’originale di Bob Dylan e soprattutto The Color Of A Cloudy Day di Jason Isbell e Amanda Shires, scelta inusuale, visto che la canzone è di fine 2016, ma azzeccatissima (anche perché la canzone è bellissima di suo) . In definitiva, Not Dark Yet è un disco ben suonato, ben cantato (l’interplay delle voci è calibratissimo) e ben confezionato (la produzione di Thompson è asciutta e funzionale); eppure, non tutto il materiale ascoltato è all’altezza della fama delle due interpreti, che, non è un caso, danno il meglio nell’unica, e già citata, canzone originale: Is It Too Much. Che sia questa la strada da seguire per una futura, nuova collaborazione? 

VOTO: 6,5





Blackswan, lunedì 28/08/2017