mercoledì 9 agosto 2017

AARON KEYLOCK – CUT AGAINST THE GRAIN (Provogue, 2017)



Se è vero che a diciotto anni, la maggior parte dei giovani, ancora non sa cosa fare della propria vita, ci sono però eccezioni che confermano la regola. Una è quella rappresentata da Aaron Keylock, chitarrista originario di Oxford, che le idee le ha chiarissime fin dall’infanzia. Tanto che, già all’età di dodici anni, teneva applauditissimi concerti su e giù per il Regno Unito. Un talento tanto precoce quanto strabiliante che lo ha portato, appena maggiorenne, a rilasciare il suo disco d’esordio e a essere inserito nella lista dei migliori chitarristi rock blues in circolazione, quella che comprende, tanto per capirci, campioni come Joe Bonamassa e Kenny Wayne Shepherd. Prodotto dal nostro Fabrizio Grossi (già collaboratore di Alice Cooper, Joe Bonamassa, Billy Gibbons, Steve Vai, etc.), Cut Against The Grain è una raccolta di canzoni ad alto contenuto energetico, che paga debito agli anni ’70 (il titolo, forse, ammicca ad Against The Grain, gioiello datato 1975 a firma Rory Gallagher) e a quel suono che oggigiorno siamo soliti definire classic rock. L’apertura di All The Right Moves, un hard rock blues impetuoso che cita proprio il grande chitarrista irlandese, mette subito le carte in tavola: musica diretta e senza fronzoli, piede schiacciato sull’acceleratore e un assolo al fulmicotone, per farci capire di che pasta è fatto il ragazzo. Il quale, nella successiva Down, va meravigliosamente di slide, tirando fuori un rock blues che gira dalle parti del North Mississippi (e dei North Mississippi Allstars). Se la voce di Keylock resta un po' anonima (ci vuole molto più vissuto alle spalle per arricchirla di sfumature) e qualche brano non risulta all’altezza degli altri (That’s Not Me, ad esempio), il ragazzo in compenso dimostra di avere una tecnica sopraffina (ma mai sacrificata al virtuosismo fine a sé stesso) e di conoscere a menadito le sue fonti di ispirazione. Just One Question è una turgida ballata elettrica ispirata a Gary Moore, la title track, con il suo riff alla Gallagher, macina con la slide tonnellate di tossine elettriche, Try e Spin The Bottle sono venate di glam quel tanto che basta da riportarci alla mente Marc Bolan e i suoi T Rex. Un esordio solido, già ben strutturato a livello di scrittura, e un chitarrista che fa le cose che servono e le fa con estrema consapevolezza: niente fronzoli, niente fuochi d’artificio, niente sbrodolamenti di note, ma un tocco dinamico, sanguigno e icastico, e un’intensità pazzesca soprattutto quando Aaron sfodera un gagliardo repertorio slide. Buon disco per tutti gli appassionati della sei corde e del rock più verace.

VOTO: 6,5





Blackswan, mercoledì 09/08/2017

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