giovedì 30 novembre 2017

PREVIEW



E’prevista, per il 19 gennaio del 2018, via Rhino Warner, l’uscita nelle versioni rimasterizzata (un cd), deluxe (cinque cd) ed expanded (due cd) di Fleetwood Mac, decimo album della band anglo-statunitense, pubblicato nel 1975. Il disco è stato il primo ha vedere nella line up la presenza di Stevie Nicks e Lindsay Buckingham. Disco d’oro in Inghilterra e di platino in Canada e negli Stati Uniti, la scaletta annovera gemme del calibro di Rhiannon, Monday Morning e Sugar Daddy.





Blackswan, giovedì 30/11/2017

mercoledì 29 novembre 2017

ALI HANDAL - THAT'S WHAT SHE SAID (Red Parlor Records, 2017)

Ali Handal è una straordinaria musicista che, soprattutto da noi, vive, però, lontanissima dalle consuete (e consunte) rotte commerciali, pur avendo un piccolo ma appassionato seguito di fans che stravedono per la sua voce e la sua chitarra. Alle sue spalle, oltre a un pugno di dischi di pregevole fattura, ci sono anche collaborazioni prestigiose con Neil Young, di cui è stata per un certo periodo la backing vocalist, e Paul Williams, autentica leggenda della canzone americana; inoltre, Ali, ha anche scritto uno straordinario manuale di tecnica chitarristica e composizione, dedicato a tutte le donne che hanno intenzione di intraprendere la carriera di songwriter (Guitar For Girls, pubblicato dalla Hal Leonard). Le sue canzoni, poi, sono finite nella colonna sonora di alcune seguitissime serie tv (Sex and the City, Dawson’s Creek, per citarne un paio) che le hanno permesso di avere un po’ di quel ritorno mediatico, mancato in altre occasioni. That’s What She Said è il primo disco pubblicato con la Red Parlor Records ed è il primo disco in cui la Handal spinge tantissimo sulle sonorità funky, di cui sono colorate la maggior parte delle canzoni in scaletta, composta di dodici brani, alcuni dei quali iniziati a scrivere già cinque anni fa e, successivamente, ritoccati e perfezionati per l’occasione. Gli elementi più interessanti del disco, tuttavia, sono altri: in primo luogo, la splendida voce di Ali, potente e ricca di sfumature, e la sua tecnica alla chitarra, il cui suono pulito e icastico, va subito al dunque, senza fronzoli e sbrodolamenti, sia quando usa l’elettrica, sia quando si cimenta con la slide sulla chitarra acustica. Ad accompagnarla, poi, c’è una band di fenomeni, tra cui Jimmy Paxson alla batteria (sessionista che ha collaborato un po’ con tutti, da Stanley Clarke a Steve Vai), Bikki Johnson (altra apprezzatissima sessionista losangelina) al basso, David Leach alle percussioni e Steve Aguilar alle tastiere. Il risultato è un disco che, a prescindere dalle canzoni, è suonato da Dio, tra atmosfere bluesy e jazzate, ballate intense dai sentori “americani” (la conclusiva Last Lullaby, lenta e sospesa, è da brividi) e travolgenti groove funky. Un disco che, come si evince dal titolo, parla di uomini e donne, di rapporti interpersonali e di amori, attraverso una prospettiva squisitamente femminile, che pesca nel vissuto di Ali, che sa commuovere e al contempo anche divertire. Tra gli high lights il funky grassissimo di Everybody’s So Naked, basso gommoso, drumming pirotecnico e la straordinaria chitarra di Ali a incollare gli strumenti in un groove irresistibile, il velluto jazzy di What Is And What Should Never Be, canzone presa in prestito dal secondo album dei Led Zeppelin, e le armonie pop di Enough For Me, in cui la Handal dimostra quanto sia versatile il proprio timbro vocale. Per amanti della sei corde, ma non solo.





Blackswan, giovedì 29/11/2017

PREVIEW




Novità in casa Sub Pop, i Mudhoney hanno annunciato la realizzazione di un nuovo album nel 2018 (non si conoscono ancora né il titolo né la data dell’uscita) mentre, il prossimo 19 gennaio, sarà disponibile il live album LiE, registrato durante il loro tour europeo del 2016. Oltre ai brani più conosciuti della storica band di Seattle la scaletta conterrà anche la cover di Edition Of You dei Roxy Music.





Porter Stout, mercoledì 29/11/2017

martedì 28 novembre 2017

SAMANTHA FISH - BELLE OF THE WEST (Ruf Records, 2017)

La maggior parte degli artisti incircolazione, dopo aver rilasciato uno dei migliori album in carriera, si prenderebbe almeno un anno di tempo, per godersi l’onda lunga del successo e riflettere sul proprio futuro. Samantha Fish, chitarrista e songwriter originaria di Kansas City, è evidentemente un’anima inquieta ed è spinta dall’urgenza di una creatività che pare non darle respiro. Solo otto mesi fa, infatti, usciva Chills & Fever, album ispiratissimo, divertito compendio di Memphis soul e Motown R&B suonato con consapevolezza filologica e piglio da consumata e indomita garage rocker. Il tempo di prendersi gli applausi del pubblico e della stampa specializzata, ed eccola di nuovo in sella con un progetto diverso, sia nella forma che nella sostanza, ma egualmente centrato nel risultato finale. Samantha si affida nuovamente alle sapienti mani di Luther Dickinson (il frontman dei North Mississippi Allstars aveva già prodotto Wild Heart del 2015), si chiude negli Zebra Ranch studios nelle North Hills del Mississippi e chiama alla sua corte un pugno di straordinari musicisti locali, quali la violinista e cantante Lillie Mae, il chitarrista Jimbo Mathus, frontman degli Squirrel Nut Zippers, il bluesman Lightin’ Malcom, la bassista e cantante Amy LaVere e Shardè Thomas, flautista e pronipote del grande bluesman Otha Turner. Con questo parterre de roi, la Fish appronta una scaletta di undici brani che catturano lo spirito e la spontaneità del Mississippi Sound. Un disco prevalentemente (ma non esclusivamente) acustico, in cui confluiscono blues, gospel e country, amalgamati attraverso la genuinità dell’America rurale e l’occhio vigile di una ragazza moderna che conosce la propria storia e custodisce con amore le tradizioni. Basta ascoltare l’apertura della politicizzata American Dream (Hand On The Bible, Foot On Your Neck è un verso che racconta l’America di Trump meglio di un saggio) per capire quanto profondo sia il lavoro filologico messo in piedi dalla Fish: blues che odora di campagna e di fiume, cadenza quasi militaresca e il piffero uncinante con cui Shardè Thomas duetta con violino di Lillie Mae. Un pezzo stratosferico che torna a far brillare di modernità un suono antichissimo. La Fish ha messo da parte la sua chitarra elettrica e i suoi viscerali assoli per abbracciare il suono del territorio, ma non ha perso un briciolo né di passione né di potenza. Impossibile, allora, non essere travolti dalla piena di Cowtown, funky blues che gira dalle parti dei North Mississippi Allstars, o dal beat inesorabile di Poor Black Mattie, bluesaccio assassino preso in prestito dal repertorio di R.L. Burnside e cantato in duetto con Lightnin’ Malcom. La Fish, però, sa anche toccare le corde del cuore, inanellando tre ballate al limitare della notte: gli struggimenti d’amore raccontati in Nearing Home, cantata in duetto con Lillie Mae, il malinconico dark swamp di Daughters, quadro a tinte fosche di disperazione famigliare, e il passo spettrale di Don’t Say You Love Me, canzone disturbata dall’ossessionante violino della Mae. Da citare, poi, anche il country millesimato della title track, a dimostrazione di quanto sia versatile il songwriter di Samantha Fish, un’artista che in un anno ha piazzato un uno-due da k.o., dimostrando di aver avuto la forza di uscire dai confini di genere (rock blues) entro i quali si muoveva a inizio carriera, e grazie a passione, entusiasmo ed energia giovanile, aver liberato una creatività che, è più una certezza che un auspicio, la può portare ovunque.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 28/11/2017

lunedì 27 novembre 2017

IL MEGLIO DEL PEGGIO





"Tra Berlusconi e Di Maio, voterei Berlusconi" (Eugenio Scalfari).

Eugenio Scalfari, venerabile fondatore del quotidiano Repubblica, ha ammesso senza tante perifrasi di preferire l'ex Cavaliere a Luigi Di Maio. Un endorsement in piena regola che ha il retrogusto (amaro) di un colpo di spugna a vent'anni di leggi ad personam, conflitti di interessi e di condotte inadeguate alle istituzioni. Come era prevedibile, l'affermazione ha suscitato non pochi malumori e polemiche su vasta scala, tanto che Sua Eminenza Eugenio è dovuto correre ai ripari per ridimensionare la dirompenza della boutade. Peccato che il buco pare peggio della toppa. "Cari lettori, non cadete nell'inganno di chi sfrutta una domanda paradossale per sostenere che avrei cambiato posizione su Berlusconi: non l'ho mai votato e ovviamente non lo voterò mai". Misunderstanding o no, Silvietto, come in un racconto dei fratelli Grimm, da ranocchio si è trasformato in principe, mentre Eugenio Scalfari, dapprima (finto) oppositore del sultano di Arcore, pare avere cambiato maschera come Vitangelo Moscarda, il protagonista del romanzo di Luigi Pirandello, "Uno, nessuno e centomila". Scalfari rappresenta tutti quegli italiani dalla memoria corta che, come Moscarda, indossano centomila maschere, una per ogni circostanza e secondo la convenienza, vivendo la follia come unica via di scampo dalla paradossalità della vita. Ma la situazione politica italiana non è un romanzo. Un paradosso, sì. E se si arriva a pensare che scegliere Berlusconi rappresenti il male minore, significa avere ineluttabilmente abdicato alla morale.  

Cleopatra, lunedì 27/11/2017

domenica 26 novembre 2017

PREVIEW




La rock folk singer songwriter Brandi Carlali ha pubblicato il video di The Joke, il primo singolo tratto dal suo nuovo album, By The Way, I Forgive You, la cui uscita è prevista per il 16 febbraio del 2018. Il disco sarà pubblicato dall’etichetta New Elektra e sarà prodotto da una coppia d’assi, quali Dave Cobb e Shooter Jennings. Il singolo, che potete ascoltare qui sotto è uno strabiliante esempio delle doti vocali di Brandi, una delle voce più belle dell’americana in quota rosa.





Blackswan, domenica 26/11/2017

sabato 25 novembre 2017

JOEL SELVIN - THE ROLLING STONES ALTAMONT (Hoepli, 2017)

Leggere il resoconto di ciò che avvenne il 6 dicembre 1969 all’Altamont Raceway Park è più o meno come leggere un bollettino di guerra. Già, perché quella frase che gli americani usano per indicare il 3 febbraio del 1959 (The Day That Rock Die), data di morte di Buddy Holly, The Big Bopper e Ritchie Valens, il cui aereo si schiantò a Mason City, nello Iowa, può tranquillamente essere riadattata al giorno del free concert californiano fortemente voluto dai Rolling Stones.  Ad Altamont, il rock, così come lo si conosceva, muore colpito alle spalle dai fendenti che massacrarono il corpo dello sfortunato Meredith Hunter. E’ la fine di un’epoca, il sogno di un mondo migliore si trasforma in un incubo, la summer of love che aveva animato la gioventù americana e che aveva trovato la sua espressione zenitale, qualche mese prima, a Woodstock, si infrange contro l’insulsa mattanza perpetrata selvaggiamente dagli Hells Angels. Se pochi mesi prima, nelle campagne vicino a Bethel, si era celebrato il rituale di una musica che prendeva per mano i giovani americani, raccontandogli una favola di fratellanza, comunione e amore, quella stessa gioventù, ad Altamont, si trova a fare i conti con la disillusione e lo sgretolamento degli ideali “peace and love”, che in quell’autodromo vennero stritolati in un’esiziale morsa di violenza. Il rock perse la sua purezza e la sua verginità in nome delle logiche dello star system, aprendo un decennio, quello degli anni ’70, in cui l’immediatezza, la visione e i fermenti avanguardistici vennero azzerati dalle ferree regole dello showbiz: quel movimento, grezzo e sincero, quel rock che avrebbe dovuto cambiare il mondo, si inginocchia, invece, davanti a Dio Denaro e a una concezione in cui la musica rappresenta solo uno degli ingranaggi della macchina spettacolo (grandi produzioni sul palco, materiali scenici, coreografie, l’intrattenimento che prende il posto del contenuto). Sono queste, almeno in parte, le logiche che produssero l’evento più sgangherato e funesto della storia (in seguito, ci saranno altri concerti disastrosi e altri morti, certo, ma mai provocati da tanta imbarazzante stupidità). Trecentomila persone mandate al macello, senza adeguati supporti logistici e medici, con l’unico argine della security data in mano agli Hells Angels, gang incontrollabile di teppisti, picchiatori e tossici. Selvin racconta scrupolosamente cosa accadde quel 6 dicembre, sul palco e tra la folla, ripercorre le tappe che portarono al brutale omicidio di Meredith Hunter, e inchioda i responsabili dell’evento (Rolling Stones in primis) alla demenzialità della location scelta e all’insussistenza delle più ovvie misure di sicurezza. C’è dell’altro, però, che rende questa lettura indispensabile per tutti gli appassionati di musica. Selvin, infatti, ricostruisce con dovizia di particolari la San Francisco del tempo, il movimento hippy e il suo progressivo indebolimento, entrando a curiosare anche a casa Grateful Dead, band che rappresentava al meglio gli umori della città e i fermenti dell’epoca. Non solo. La precisa ricostruzione di Selvin mette in discussione uno dei capisaldi della cinematografia musicale, e cioè quel Gimme Shelter girato dai fratelli Maysles e fortemente voluto da Mike Jagger, il cui montaggio finale, più che per raccontare la verità dei fatti, ebbe semmai intenti agiografici nei confronti dei Rolling Stones. Già, i Rolling Stones. Il resoconto di Selvin sulla band capitanata da Jagger e Richards è impietoso: avidi e senza scrupoli, animati solo da brama di gloria e di denaro, inconsapevoli della realtà circostante, compressi nel mondo dorato delle loro vita da rockstar, sono loro i principali responsabili del disastro. Perché accettarono una location inadatta solo allo scopo di replicare la marea umana di Woodstock, perché continuarono a suonare nonostante gli orrori perpetrati dagli Hells Angels, e perché se ne infischiarono bellamente di quelle trecentomila persone, accalcate una sull’altra, in balia di una security di picchiatori di professione, e stravolte da quantitativi industriali di pessimo LSD e di vino anche peggiore. C’è poi quel palco troppo basso, tenuto insieme (letteralmente!) con lo spago e quell’elicottero che, forse, avrebbe potuto salvare la vita a Meredith Hunter, ma che i Rolling Stones si guardarono bene dal concedere, per poter poi, a fine concerto, evacuare in sicurezza la folle location. Un libro consigliatissimo per tutti coloro che vogliono fare definitiva chiarezza su una delle pagine più oscure e imbarazzanti della carriera di Mike Jagger e soci.






Blackswan, sabato 25/11/2017

venerdì 24 novembre 2017

THE WHITE BUFFALO - DARKEST DARKS, LIGHTEST LIGHTS (Earache, 2017)

Dietro il progetto musicale White Buffalo si cela l’irsuto Jake Smith, songwriter originario dell’Oregon e uno fra i più interessanti artisti della sua generazione. Il nome del gruppo, che rimanda al bisonte bianco, animale sacro per i nativi americani, esplicita in modo chiaro che la musica di Smith trova radici profonde nel tipico suono americano, rivisitato attraverso una sapiente mescolanza di country, blues e rock. In circolazione dal 2002, tre Ep e cinque album in studio già all’attivo, i White Buffalo hanno acquisito in patria una certa notorietà, non solo per gli innumerevoli concerti che li hanno portati in ogni angolo degli Stati Uniti, ma anche perché alcuni loro brani sono finiti nella colonna sonora della seguitissima serie televisiva, Sons Of Anarchy. Giunto nel pieno della maturità artistica, Smith ha ormai perfezionato un suono e un linguaggio, in cui la ruggine americana che ossida le sue storie di vite ai margini, di amori finiti, di perdizione e riscatto, trova forza espressiva in un mood altalenante fra barbagli di speranza e crepuscolari malinconie, tra sciabolate elettriche ed evocative ballate col cuore in mano. Se Shadows, Greys And Evil Ways (2013) si muoveva attraverso le cupe trame di un concept sul ritorno a casa di un reduce di guerra e il successivo Love And The Death Of Damnation (2015) suonava più vario ed equilibrato nell’alternarsi fra chiaro e scuri, questo nuovo Darkest Dark, Lightest Light trova il punto di fusione fra i due dischi citati, consolidando una scrittura senza cedimenti e ribadendo quella sincerità di fondo che da sempre contraddistingue i dischi del barbuto chitarrista. La cui voce, è questo un altro elemento distintivo dei White Buffalo, possiede un timbro profondo e “vedderiano”, che emerge soprattutto nelle splendide ballate che punteggiano la scaletta. Momenti appassionati, acustici, riflessivi che ricordano le grandi ballads portate al successo dai Pearl Jam: il soliloquio bucolico di The Observatory, l’epica della sconfitta, sussurrata in If I Lost My Eyes, la dolcezza sfumata negli archi e nell’arpeggio di I Am The Moon sono esempi di una scrittura che sa toccare le corde del cuore, mantenendo, però, dritta la barra delle emozioni. A questi episodi, figli di un romanticismo dimesso e arreso, fanno da contraltare canzoni sanguigne e potenti, che navigano fra le limacciose acque del blues (Robbery), che viaggiano su decapottabili nel cuore della notte, citando Tom Petty con retro gusto eighties (The Heart And The Soul Of The Night), che vibrano sul filo dell’alta tensione di un cow punk dal ghigno mefistofelico. Un disco dagli umori altalenanti, convincente sia quanto pompa decibel e alza il livello di drammaticità, sia quando si comprime nella distanza che separa la voce di Smith dal suo cuore. Ispirato e coinvolgente.

VOTO: 7,5 





Blackswan, venerdì 24/11/2017

giovedì 23 novembre 2017

TYLER BRYANT & THE SHAKEDOWN - TYLER BRYANT & THE SHAKEDOWN (Snakefarm Records, 2017)

Quando nel 2013 uscì Wild Child, album d’esordio del chitarrista texano, in molti, a proposito di Tyler Bryant, usarono l’appellativo di enfant prodige della scena rock blues americana, e si sperticarono in elogi e paragoni ingombranti con fuoriclasse della sei corde, che avevano già scritto pagine importanti del genere. Il ragazzo, d’altra parte, aveva avuto modo di condividere il palco con pezzi da novanta quali Eric Clapton, B.B. King e Jeff Beck; e poi, c’era quel disco, primo sulla lunga distanza, dopo un Ep pubblicato nel 2011, che deponeva a favore di un radioso futuro. Wild Child, infatti, pur citando l’opera omnia che costituiva il retroterra formativo del ragazzo (Aereosmith, Lynyrd Skynyrd, Guns n’ Roses, Ac/Dc), assemblava un lotto di canzoni impetuoso e brillante, suonato col ringhio sudato dei vent’anni. Tuttavia, a parte l’inevitabile passatismo e qualche concessione al mainstream, in alcune canzoni, oltre a un corposo bagaglio tecnico, si intravvedevano doti compositive molto interessanti. Tanto che, veniva da pensare, il ragazzo si farà, è solo questione di tempo. Oggi, di tempo ne è passato parecchio, e dopo quattro anni, intervallati da un Ep uscito nel 2015 (The Wayside), Bryant si ripresenta nel medesimo punto in cui l’avevamo lasciato. Questo sophomore, che porta il nome del chitarrista e della band che lo accompagna (tra le cui fila milita Graham Whitford, figlio di Brad, chitarrista degli Aerosmith), è, infatti, l’esatta fotocopia del suo predecessore e ne replica pedissequamente i pregi e i difetti. Da un lato, la band pare rodatissima e la chitarra di Tyler fa il suo dovere, evitando di eccedere in virtuosismi; l’entusiasmo della gioventù, poi, lo si coglie nella potenza di un suono diretto, primordiale e senza fronzoli. Tuttavia, a livello compositivo, non c’è proprio nulla che non si sia già sentito centinaia di volte: blues elettrico, vampate hard, ammiccamenti al southern, qualche luccichio sleaze e glam e, talvolta, una strizzatina d’occhio a quel sound radiofonico, che è il combustibile indispensabile per viaggiare verso i piani alti delle charts. Insomma, al disco manca quel briciolo di originalità che consentirebbe a una band, altrimenti grintosa e preparata, di fare il vero salto di qualità. In realtà, non c’è nulla che non vada negli undici brani in scaletta, e alcuni episodi, come la ballata psych rock di Magnetic Field o l’omaggio ai Guns contenuto in Weak And Weepin sono numeri di grande effetto. Bryant, però, non è ancora riuscito a crearsi uno stile, a innescare una visione, ad azzardare quello scarto laterale che gli consentirebbe di smarcarsi dagli stereotipi di genere. Il risultato è, quindi, un disco piacevole, senza infamia e senza lode. Il ragazzo è giovane, però, e, forse, si farà. 

VOTO: 6





Blackswan, giovedì 23/11/2017

mercoledì 22 novembre 2017

PREVIEW




Uscirà il 24 novembre, via Leroy Records, il nuovo album di Southside Johnny. Il disco, registrato in due giorni nel gennaio del 2017 si intitolerà Detour Ahead: The Music Of Billie Holiday, e come si evince dal titolo conterrà il personale tributo del rocker del New Jersey alla grande cantante jazz di Filadelfia. Arrangiato, prodotto e mixato da John Isley, sassofonista degli Asbury Jukes, il disco conterrà dieci canzoni prese dal songbook di Lady Day, alcune famosissime (Lover Man, Don’t Explain), altre, invece, decisamente meno note. 





Blackswan, mercoledì 22/11/2017

martedì 21 novembre 2017

BILLY BRAGG - BRIDGES NOT WALLS (Cooking Vinyl, 2017)

Erano anni difficili quelli governati dall’esecutivo della signora Thatcher, anni in cui l’Inghilterra masticava il frutto amaro di politiche di austerity, che aggredivano i ceti più deboli senza alcuna pietà. Tra gli artisti che si opponevano alla macelleria sociale del primo ministro inglese, c’era Billy Bragg, un Woody Guthrie di terra d’Albione che cantava la propria rabbia contro ogni forma di fascismo e di prevaricazione. Una militanza, la sua, che non si limitava, però, solo a belle canzoni di protesta vestite di folk-punk. Bragg ci metteva anche la faccia, in senso letterale: stava sulle barricate, si faceva arrestare e prendeva manganellate. Impossibile allora non amarlo, soprattutto se, a quei tempi, avevi vent’anni, stavi a sinistra e ti era capitato per le mani un disco favoloso come Talkin’ With The Taxman About Poetry (1986), zeppo di canzoni da far ribollire il sangue nelle vene, canzoni che ti scuotevano con la forza di testi diretti, sinceri, passionari. Oggi, Billy Bragg ha quasi sessant’anni (li compirà il 20 dicembre), si è lasciato alle spalle un’ottima discografia (vado a memoria, ma non mi ricordo un disco che non fosse ispirato) e collaborazioni importanti con i Wilco e Joe Henry, ma non è retrocesso di un passo da quella barricata, sulla quale resta orgogliosamente in piedi. Illuso, forse, ma ancora combattivo e gagliardamente ancorato a quei valori marxisti ai quali ha dedicato una vita intera. Bridges Not Wall, Ep di sei canzoni uscito a inizio novembre via Cooking Vynil, conferma che Billy non ha smesso di crederci e continua a veicolare profonde riflessioni in un mondo dove tutti sembrano più preoccupati di aggiornare la propria pagina facebook invece del proprio bagaglio etico. Dopo il malinconico e introspettivo Tooth & Nail (2013), disco reso amaro dalla sofferta perdita del padre, e il successivo Shine a Lights (2016), in cui, con l’amico Joe Henry, Billy ripercorreva gli snodi ferroviari del roots a stelle e strisce, il songwriter di Barking torna a schierarsi dalla parte dei più deboli, ad attaccare il potere costituito dal capitalismo più sconsiderato, a criticare aspramente il nuovo corso della politica americana e britannica (Trump e la Brexit nel mirino), a riflettere su come rendere il nostro mondo migliore e a spronare la gioventù a cercare una strada diversa, lontano dalla mendace realtà di uno smartphone. Ponti, non muri: tornare a parlarci, quindi, accogliere il diverso, riconsiderare la lista delle nostre priorità. Bragg è uno degli ultimi attivisti, un combattente ideologico che, per quanto la battaglia sia irrimediabilmente persa, continua nella sua chiamata alle “armi” con messaggi di speranza, di impegno, di fratellanza. Solo sei canzoni in scaletta, una distanza breve, certo, ma densa di contenuti, diretta, civile e necessaria come un film di Ken Loach (e il pensiero, durante l’ascolto, torna più volte a quel film straordinario che è I, Daniel Blake). Bragg media fra il suono american oriented delle ballate misurate e dolenti che costellavano Tooth & Nail (King Tide & The Sunny Day Food) e quel folk scartavetrato dal punk di una sei corde distorta e icastica, che rappresenta il marchio di fabbrica dei suoi anni giovanili (Why We Build The Wall). Due le canzoni che ci porteremo a lungo nel cuore: Saffiyah Smiles, morbida ballata dedicata a Saffiyah Khan, la ragazzina di Birmingham immortalata mentre sorride in faccia a un nazista durante una manifestazione dell’EDL, e Not Everything That Counts Can Be Counted (and not everything that can be counted counts) che racchiude in una melodia pressoché perfetta la summa del pensiero che anima Bridges Not Walls. Disco imprescindibile per chi ancora ci crede. Che Dio (e Marx) abbiano in gloria Billy Bragg, il più vero tra tutti quelli che ci hanno messo la faccia.

VOTO: 7,5





Blackswan, martedì 21/11/2017

lunedì 20 novembre 2017

MALCOM YOUNG




Amici,
è morto Malcom Young degli AC/DC.
A mio modo di vedere il vero artefice del loro suono, molto più del più popolare fratello Angus.
I canguri elettrici non stanno molto bene.
Malcom morto, Brian Johnson sordo e costretto a smettere di cantare almeno dal vivo, il batterista Phil Rudd indagato per omicidio circa un anno fa.
Insomma, una terza età un po' travagliata.
Però l'energia che ci hanno regalato in tanti anni ormai fa parte di noi, aquisita per sempre.
So long, Malcom.





Ezzelino Da Romano, lunedì 20/11/2017

IL MEGLIO DEL PEGGIO





Pierre de Coubertin si sarà rivoltato nella tomba, e non tanto perchè l'italia non abbia vinto contro i marcantoni nordici, quanto piuttosto per non avere partecipato. La nostra Nazionale non c'è più: siamo esclusi pure dai Mondiali di calcio. Non accadeva da 60 anni e qualcuno potrebbe obiettare che sono cose della vita. Del resto, c'è sempre una prima volta, ma è una prima volta che fa male per noi, non più teen-ager, cresciuti nel ricordo di quel grido a squarciagola di Nando Martellini: "Campioni del mondo, campioni del mondo" in un Santiago Bernabeu luccicante come le nostre lacrime di gioia. Era la magica estate del 1982 e sembra passato un secolo. Di quella Italia sana, umile e fiera ci restano solo dei ricordi sfocati. Non ci sono più i Bearzot (il mitico "Vecio"), i Rossi, i Cabrini, i Tardelli, i Gentile, i Causio, gli Zoff e tutti gli altri idoli di uno sport che era, e rimane ancora, il più bello del mondo. Oggi, pare di ritrovarsi a leggere i titoli di coda di un melodramma. La Nazionale non è che una rappresentazione sbiadita di un'Italia svogliata e disamorata della propria maglia. Ma c'è di più ed è legato non solo al modo di interpretare lo sport ma di quanto siano in crisi i valori della società stessa. Lo sport dovrebbe essere una fucina di emozioni da vivere sia come dimensione personale che collettiva e invece assistiamo sempre più spesso all'imbecillità di chi osa fischiare l'inno degli avversari o di chi scivola in odiosi razzismi. Oggi, ci ritroviamo con un calcio dominato dalle cordate finanziarie, perlopiù straniere, e da politiche low cost in cui la realizzazione del profitto e della plusvalenza prevalgono sui vivai e sui giovani talenti. Che il futuro presidente si chiami ancora Tavecchio, conta fino a un certo punto. Potrà arrivare chiunque, ma se il gattopardismo la farà ancora da padrone, non ci resta che vivere di ricordi.

Cleopatra, lunedì 20/11/2017