venerdì 1 dicembre 2017

THE CORRS - JUPITER CALLING (East West Records, 2017)

Talvolta, a mia insaputa, vengo colto da lancinanti fiammate di retro-mania. Succede, ad esempio, quando incrocio qualche band il cui nome richiama un tempo lontano in cui la mia vita era tutta rose e fiori. Anni spensierati, in cui vivevo nella logica dettata dall’incontro tra due massimi sistemi: quello del calcio e quello della figa. A quei tempi, la musica era inevitabilmente lo specchio delle mie giornate, colonna sonora di leggerezza e speranza; così, a riascoltarli, quei vecchi dischi, anche quelli appartenenti ai tanto vituperati anni ’80, mi procurano sempre un’iniziale dose di euforia (salvo, poi, accorgermi, dopo qualche minuto d’ascolto, che la profondità artistica di certe canzoni è tale perchè amplificata da un mio senescente senso di nostalgia). In questi giorni, ho provato un piccolo brivido passatista anche con i Corrs, band della quale, a dire il vero, non sono mai stato fans, ma i cui vecchi singoli ricollego con istinto pavloviano ad alcuni dei miei giorni più felici. Canzoni come Forgiven, Not Forgotten e Runaway, per citarne un paio, risuonano ancora nelle mie orecchie come bucolica colonna sonora di lontane storie d‘amore o giornate dedicate al cazzeggio amicale. Composta da quattro fratelli, tre belle gnocche e un reggi moccolo, la band dei The Corrs proponeva un soft pop acustico, leggermente profumato di fragranze d’Irlanda, la loro terra d’origine. Amati da tutti coloro che avevano a cuore la cultura e il fascino dello smeraldo verde (trend geografico che in quegli anni andava per la maggiore), ma che, per converso, non avevano le orecchie adatte a tollerare l’asprezza alcolica dei Pogues o l’approccio ortodosso dei Chieftains, i Corrs si presentavano al pubblico come la versione light dei Cranberries oppure come quella metalcore di Enya (questo dipende essenzialmente da quello che pensate della narcolettica new age dell’autrice di Orinoco Flow). L’Irlanda dei Coors, alla resa dei conti, era sostanzialmente un’Irlanda da cartolina e, non bastando certo un violino e un piffero a evocare la grande tradizione folk celtica, quelle canzoni avevano il gusto di un cicchetto di Paddy allungato con mezzo litro d’acqua naturale. La formula, nonostante siano trascorsi una quindicina d’anni dal periodo d’oro della band (la cui carriera, peraltro, ha avuto un lungo iato, dal 2005 al 2015, in cui i quattro fratelli si sono, qualcuno direbbe fortunatamente, dedicati ad altro), resta invariata anche in questo nuovo Jupiter Calling, settimo album in studio, prodotto, inopinatamente, da T Bone Burnett, sulle cui qualità di compositore e produttore è impossibile dir male. E infatti, il meglio arriva proprio da Burnett, la cui manina santa aggiusta il suono, rendendolo più maturo, omogeno e intimista ed epurandolo da quasi tutti i riferimenti celtici. Difficile, però, fare miracoli, se mancano brani di spessore e il tasso di zucchero è a livello da diabete fulminante. Le canzoncine che trainano il disco e puntano alle parti alte della classifica ci sono (Son Of Solomon, S.O.S.) e, ci mancherebbe pure altro, possiedono un appeal radiofonico perfetto. A parte questo, però, il disco, pur nella sua omogeneità (o forse a causa di questa, dipende dai punti di vista), si dipana stancamente e senza sussulti per ben cinquantasei minuti, nei quali si ha la sensazione di deambulare, strafatti di camomilla, attraverso strade lastricate di zucchero filato e melassa. Tutto a modino, tutto perfettino, tutto carino, tutto patinato come una copertina di Vogue. Quando, poi, inizia The Sun And The Moon, brano di quasi otto minuti che chiude il disco, l’abbiocco è ormai in fase zenitale, la palpebra trema indifesa di fronte alle lusinghe di Morfeo e lo stato ipnagogico si trasforma, con sollievo, in un sonno profondo e ristoratore. Più facile, insomma, avere un infarto a Disneyland (Bebbe Viola, cit.), che provare un sussulto d’emozione durante la scaletta di Jupiter Calling. Così, a fine ascolto, maledico la mia retro mania e, per compensare l’apoteosi dolciaria, passo a tutto volume God Hates Us All degli Slayer. Ma nemmeno la voce assassina di Tom Araya riesce a salvarmi da un esiziale stato di zuccherino torpore.

VOTO: 5





Blackswan, venerdì 01/12/2017

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