venerdì 16 febbraio 2018

THOM CHACON - BLOOD IN THE USA (Appaloosa Records, 2018)

Lo sterminato sottobosco rurale americano produce spesso artisti di grande caratura, che restano però appannaggio esclusivo di una ristretta cerchia di appassionati. Questo sarebbe stato probabilmente anche il destino Thom Chacon, se non ci fosse stata Appaloosa Records, traghetto musicale fra gli States e il nostro paese, che ha distribuito sul territorio nazionale Blood In The Usa, opera seconda del songwriter proveniente dal Colorado.
Una scelta azzeccatissima visto che questo disco farà la felicità di quanti amano il suo americano più classico. Chacon, infatti, si allinea alla grande tradizione dei cantautori di frontiera (su tutti mi vengono in mente Ryan Bingham e Joe Ely), così come appare ovvio che fra i suoi riferimenti culturali e stilistici possano annoverarsi Bob Dylan, John Prine, Johnny Cash (soprattutto quello degli American Recordings) e lo Springsteen di Nebraska.
Blood In The Usa è una raccolta di canzoni polverose, crude, dirette, intrecciate con la corda grezza di arrangiamenti minimali ma solidi, a cui la raucedine crooner della bella voce di Chacon attribuisce un’aura di epicità.
Non certo l’epica dei grandi spazi, della natura selvaggia o delle avventure on the road, tanto per citare la più ovvia iconografia tradizionale sugli States; Chacon racconta, invece, un America più attuale, ferita e sofferente, l’America dei diseredati, dei disoccupati e degli immigrati, un paese dove la vita cammina sul confine della disperazione, quando devi sbarcare il lunario zappando campi o sudando davanti a una catena di montaggio.
Testi crudi e tristi, in cui le esistenze dei protagonisti sono divorate da “una ruggine che non dorme mai” e la speranza affiora solo a tratti, come null’ultima ballata Big As The Moon, che evoca un amore capace di lenire le sofferenze della vita (“Hai un cuore grande come la luna, hai una luce che uccide tutta la tristezza”). E’ un solo episodio, però, in un filotto di canzoni dirette e intense, che parlano di immigrazione (I Am An Immigrant guarda al Messico e alle politiche trumpiane), di crisi del lavoro (le fabbriche che chiudono e la disoccupazione in Union Town), di razzismo (la title track, legata a doppio filo con la cronaca violenta che non smette di riempire i notiziari: “si spara alla gente per il colore della sua pelle, abbattuti, ammanettati, lasciati morire”) e delle croste di pan duro che deve mangiare chi è disposto a ogni lavoro pur di sopravvivere (Work At Hand).
Chacon possiede una scrittura sincera e capace di esaltare alcuni momenti melodici di rara suggestione (Something The Heart Can Only Know), anche se musicalmente, pur non demeritando, manca di una certa originalità. Per converso, sotto il profilo testuale, i suoi versi sono lirici e potenti, e si elevano di gran lunga sopra la media di quello che ascoltiamo (e leggiamo) normalmente. Consigliatissimo.

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 16/02/2017

2 commenti:

Euterpe ha detto...

L'ho conosciuto il mese scorso quando ha suonato a Cantù e ho anche cenato con lui. Davvero una bella persona e un buon cantante. i suoi 2 albums mi piacciono.

Manuel Alamo Septiem ha detto...
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