sabato 30 giugno 2018

BEN GLOVER - SHOREBOUND (Appaloosa Records, 2018)


Per Ben Glover, la svolta è avvenuta grazie alla militanza negli Orphane Brigade e a un disco, in particolare, The Soundtrack Of A Ghost Story, uscito nel 2015, che ha fatto molto parlare della band e di quell’interessante progetto multimediale (l’uscita del disco fu accompagnata anche da un documentario) che gettava uno sguardo profondo, evocativo e inquietante su uno dei capitoli più dolorosi della storia americana, la Guerra di Secessione.
Songwriter nord irlandese, trasferitosi da tempo a Nashville, dopo un buon esordio solista datato 2014 (Atlantic), Glover si è fatto apprezzare soprattutto con il sophomore The Emigrant (2016), album che raccontava una storia personale di emigrazione, dall’Irlanda agli States, e che assumeva, inevitabilmente, anche caratteri storici e filologici, recuperando la tradizione irlandese (con l’utilizzo delle Uillean Pipes, ad esempio), guardando alle fonti di ispirazione della propria giovinezza (Christy Moore e i Pogues) e rileggendo il tutto con gli occhi e la sensibilità di chi ha messo nuove radici e ha conosciuto nuovi riferimenti musicali (Pete Seeger, Hank Williams, Bruce  Springsteen).
Figlio artistico prediletto di Mary Gauthier, pur non rinnegando le proprie radici, Ben Glover si è inserito facilmente nel nuovo tessuto musicale, di cui questo ultimo Shorebound risulta perfetta espressione. Se, infatti, le dieci ballate che costituivano The Emigrant percorrevano il sottile confine che separa il folk irlandese dall’americana, e possedevano  il  tratto delle riflessione intimista, per raccontare l’uomo che si trova ad affrontare la perdita delle proprie radici, il cambiamento, la sofferenza per adattarsi e la speranza di una nuova vita, Shorebound è, invece, un disco dai suoni decisamente americani, meno nostalgico e sofferto del precedente (in Northern Stars, Glover canta l’accettazione del cambiamento: ”basta lottare, ho smesso di vagare, resto”), percorso sempre da un sottile filo di malinconia (l’artista immortalato in copertina mentre guarda il mare e l’orizzonte, alcune delle tematiche trattate nelle liriche) ma in qualche modo musicalmente più luminoso e virato verso il pop d’autore (l’iniziale, bellissima, What You Love Will Break Your Heart).
Dodici canzoni, due in solitaria (la struggente Kindness e la title track) e dieci invece con il contributo di diversi artisti tra cui Mary Gauthier, Gretchen Peters, Kim Richey e Neilson Hubbard (qui anche in veste di co-produttore), in cui risalta la voce di Ben Glover, calda, carezzevole e graffiante, e un gusto per la melodia capace di cesellare intensi momenti poetici come in Northern Stars, Keeper Of My Heart e Dancing With The Beast. Come per i precedenti, Shorebound esce sotto l’egida dell’italianissima Appaloosa Records, che ha curato l’edizione italiana del disco, inserendo nel booklet la traduzione (nello specifico, indispensabile) dei testi.

VOTO: 8





Blackswan, sabato 30/06/2018

venerdì 29 giugno 2018

PREVIEW





Loudon Wainwright III ha annunciato l’uscita di Years In The Making, un album doppio composto da quarantadue canzoni tra cui tracce live, apparizioni radiofoniche, demos casalinghi e alcuni outtakes presi dalla sua corposa discografia. Il materiale di cui sarà composta la raccolta è relativo a tutti i quarantacinque anni abbondanti di carriera di Loudon che, giova ricordarlo, ha all’attivo ventitre dischi in studio, quattro live e cinque best of. I due dischi di questa audio-biografy saranno accompagnati da un booklet di sessanta pagine curato da Ed Steed, cartoonist del New Yorker. L’uscita della raccolta è prevista, via Story Sound Records, per il 14 settembre.





Blackswan, venerdì 29/06/2018

giovedì 28 giugno 2018

BUDDY GUY - THE BLUES IS ALIVE AND WELL (RCA, 2018)

Mentre mi accingevo a poggiare le dita sulla tastiera del pc, riflettevo sul fatto che scrivere una recensione su un disco di Buddy Guy è forse la cosa più facile al mondo, un po' come rapinare un pensionato fuori le Poste o prendere a schiaffi un bimbetto per sottrargli un pacchetto di caramelle.
E questo non certo perché il sottoscritto possieda straordinarie competenze tecniche, ma semplicemente per il fatto che basterebbe la Storia, quella con la S maiuscola, a fare il grosso del lavoro e a scrivere in mia vece. Basterebbe, infatti, raccontare, ma solo un po’, senza nemmeno dilungarsi troppo, chi è questo signore che ha letteralmente inventato la chitarra rock nel blues, che è stato il nume tutelare e la guida stilistica di artisti del calibro di Eric Clapton, Jeff Beck, Keith Richards, per portare a termine l’articolo e guadagnare la pagnotta.
D'altra parte, tutti i fans di Guy, o anche solo chi ama il blues e una chitarra suonata come Dio comanda, non perderebbero mai tempo a leggere una recensione così ovvia. Il disco di uno che ha fatto il chitarrista per Muddy Waters (qui ricordato in una incandescente Cognac) e Howlin' Wolf, che ha vinto sei Grammy Awards, che ha pubblicato capolavori come Hoodoo Man Blues (1965) con Junior Wells e Stone Crazy! (1981), infatti, non si legge, si compra a scatola chiusa.
Quindi, questa prolusione, queste parole e tutte quelle che seguiranno sono assolutamente inutili. E lo sono ancora di più se avete avuto modo di ascoltare gli ultimi lavori in studio del nostro guitar hero (Rhythm & Blues del 2013 e Born To Play Guitar del 2015), perché saprete esattamente cosa aspettarvi da questo nuovo The Blues Is Alive And Well.
E’ vero che sono passati tre anni dalla sua ultima fatica, e che alla soglia degli ottantadue (Buddy li compirà il prossimo 30 luglio), un triennio è un lasso di tempo così lungo che sarebbe potuto accadere qualsiasi cosa. Eppure Guy è vivo e in salute come il blues che celebra in queste quindici bellissime canzoni, pervase da una vitalità così esuberante da apparire assolutamente inconciliabile con le derive esiziali della vecchiaia.
Oggi, coloro che avevano nutrito dei dubbi sulla tenuta artistica di Guy, non possono far altro che ricredersi, mentre chi aveva, invece, coltivato la propria inesauribile fede nel potere taumaturgico del blues è stato premiato con l’ennesimo, bellissimo disco.  The Blues Is Alive And Well esibisce, infatti, lo stesso sfavillio tecnico e creativo dei predecessori, riconsegnandoci per l’ennesima volta un arzillo vecchietto che mette in riga tutti i suoi giovani scudieri, e che non si limita a farci sentire che come la suona lui nessun altro è in grado, ma all’occasione sa pure mostrare i muscoli, mulinando la Stratocaster come una durlindana (il boogie travolgente di Ooh Daddy).
Accompagnato da un pugno di musicisti con i contro cazzi (Rob McNelley alla chitarra, Kevin McKendree alle tastiere e Willie Weeks al basso) e omaggiato da ospiti di lusso (Keith Richards, Mick Jagger, James Bay e Jeff Beck), Guy sciorina tutto il suo repertorio, che guarda all’essenza di un suono (la scarna e conclusiva Milking Muther For Ya), che accarezza le porte della notte (Blue No More), e che sa divertire, in una miscela esplosiva di tecnica e ardore, come nello swing sfrenato di Guilty As Charged.
Nient’altro da aggiungere, se non, visto il titolo del disco, la più scontata delle ovvietà, e cioè che il blues e Buddy Guy godono entrambi di ottima salute. Conclusione banale per una recensione inutile su un disco suntuoso.

VOTO: 8





Blackswan, giovedì 28/06/2018 

mercoledì 27 giugno 2018

PREVIEW




Con le radici salde nel southern e nel country, i Cordovas ricreano la propria versione del roots rock americano con That Santa Fe Channel, in uscita il 10 agosto, prodotto da Kenneth Pattengale dei Milk Cartoon Kids a East Nashville, non lontano dalla casa che funge da sala prove, quartier generale e casa per la band.
Come anticipazione è on line il nuovo singolo “Frozen Rose”, che, secondo il leader Joe Firstman, è nato da una prova collettiva del gruppo.





Blackswan, mercoledì 27/06/2018

martedì 26 giugno 2018

FANTASTIC NEGRITO - PLEASE DON'T BE DEAD (Blackball Universe, 2018)

Se è vero che tre indizi costituiscono una prova, allora è definitivamente chiaro alle orecchie di tutti che Xavier Amin Dphrepaulezz, al secolo meglio conosciuto come Fantastic Negrito, possiede le stigmate dell’autentico fuoriclasse. Il suo, infatti, è stato un crescendo rossiniano portentoso, iniziato nel 1993 sotto il moniker di Xavier, interrotto da un gravissimo incidente d’auto (la copertina del disco richiama esplicitamente quella drammatica esperienza) e da uno iato quasi decennale, e ripreso nel 2014 con un album, Fantastic Negrito, il primo pubblicato sotto la nuova ragione sociale.
Da quel momento in poi, il nome di Xavier Amin Dphrepaulezz, è cominciato a circolare con molta insistenza fra gli addetti ai lavori e gli appassionati, fino a diventare una sorta di mantra di qualità, quando il songwriter originario del Massachusetts, nel 2017, si portò a casa un Grammy Award per il miglior album di blues contemporaneo con lo splendido The Last Days Of Oackland (2016).
Oggi, Fantastic Negrito ha appena pubblicato il suo terzo album, Please Don’t Be Dead, dimostrando con prova provata che il suo non era affatto un fuoco di paglia, e che quelle idee prossime al colpo di genio che avevano animato i suoi due lavori precedenti, non solo hanno trovato ulteriore conferma, ma hanno prodotto un risultato addirittura superiore.
Please Don’t Be Dead (interamente autoprodotto) è un disco che lascia stupefatti per la visione d’insieme, come se, giunto a cinquant’anni suonati, Xavier Amin Dphrepaulezz avesse fatto un bilancio delle proprie esperienze e incamerato, compreso e rielaborato pagine fondamentali di storia della black music e del rock, per poi riplasmarle con un suono e uno stile unici e di modernità assoluta.
Le undici canzoni in scaletta, infatti, sono uno zibaldone di citazioni, un patchwork arditissimo di deja vù; eppure, nonostante non ci sia nulla di veramente nuovo, la miscela è talmente originale, colorata e fantasiosa da apparire, anche ad orecchie allenate, qualcosa di realmente inaudito.
Xavier, infatti, nasconde i punti di riferimento, crea alchimie fra suoni lontani, trae in inganno con il trompe l’oil di brani che partono con una struttura e finiscono proprio là, ove era impensato finissero, suggerisce coordinate e poi, prendendo alla sprovvista l’ascoltatore, cambia improvvisamente rotta. Mischia le carte, perché le canzoni suonino al contempo famigliari e spiazzanti, in un unicum che è tutto fuorché prevedibile o lineare.
La deflagrazione di Plastic Hamburgers, con cui si apre il disco, è innescata dalla miscela incendiaria fra un riff zeppeliniano, funky e moderno spiritual (qualcuno ha detto Algiers?): è un diretto sullo zigomo, un brano che fa godere rockettari incalliti e saltare in piedi gli amanti della black music per un compendio di tre minuti e mezzo che si mangia in un boccone l’intera discografia di Lenny Kravitz.
Siamo solo all’inizio, però, di un disco in cui ogni canzone regala un’intuizione che definire felice è essere riduttivi. Bad Guy Necessity è un funky eviscerato dai bisturi di un ritornello stonesiano al midollo, A Letter To Fear ricicla la progressione discendente di Dazed And Confused degli Zep mettendola al servizio di quella che in realtà si rivela un’intensa ballata gospel.
Non c’è tempo per stupirsi, né un attimo di pausa, perché tutto fluisce strano e inatteso: la danza sciamanica di A Boy Named Andrew che viene accerchiata da una chitarra acida di morsura, il nu soul stiloso di Trasgender Biscuits, che sembra una bonus track da Fly Or Die dei Nerd, il lamento spirituals di The Suit That Won’t Come Off, attraversato da una chitarra affilatissima e che si scioglie in un’accorata melodia soul, o l’inaspettato tributo alla disco music anni ’70 contenuto nella strabiliante The Duffler, forse il miglior episodio del lotto.
E si potrebbe andare avanti così a raccontare ogni singolo brano di un lavoro che non presenta la benché minima ombra di filler. Se, infatti, solo un decimo dei dischi ascoltati quest’anno contenesse la metà delle idee e delle intuizioni che animano Please Don’t Be Dead, sarebbe, per noi appassionati, come vivere nel paese dei balocchi. Indispensabile e bellissimo.

VOTO: 9





Blackswan, martedì 26/06/2018

lunedì 25 giugno 2018

IL MEGLIO DEL PEGGIO



Quando Matteo Salvini fa ricorso all'espressione paternalistica e apparentemente rassicurante "ve lo dico da papà" , significa che ha appena sganciato un razzo katiuscia, il cui effetto dirompente si propaga ormai oltre il confine nazionale. Se prima da leader di partito si limitava a boutade propagandistiche capaci di rinvigorire gli ardori dei seguaci del dio Po, Salvini ora in veste di Ministro dell'Interno e di vice Premier, con la tecnica della "sparata al giorno", sta indiscutibilmente mettendo in serio pericolo l'intera ossatura dell'Unione Europea. Finalmente, pensa la stragrande maggioranza degli italiani almeno stando agli ultimi sondaggi.
Chissà, forse non tutti i Salvini vengono per nuocere: se riflettiamo agli anni di assoluta sottomissione italiana ai diktat europei, specie in tema di immigrazione e di gestione solitaria del fenomeno, l'avvento del pugnace Matteo ha quantomeno il senso di rimettere in discussione alcuni temi scottanti. Ma un conto è porre il focus sull'emergenza umanitaria senza perdere di vista i valori della solidarietà e inclusione, un altro è intervenire a gamba tesa con idee balzane e pericolosissime come quella del censimento dei rom per "vedere chi, come, quanti".
Il pirotecnico ministro in preda a manifesta bulimia di visibilità mediatica, si aggiudica le prime pagine dei quotidiani un giorno con una sortita sui rom, e in quello successivo con la tesi sull'inutilità dei dieci vaccini obbligatori per poi approdare alla madre di tutte le farneticazioni: togliere la scorta a Roberto Saviano. Nulla di nuovo sul fronte occidentale. Già in passato Salvini aveva sputato veleno sullo scrittore. "Se andiamo al governo, gli leviamo l'inutile scorta. Che dite?" scrisse in un post nell'agosto del 2017.
E se la sedicente sinistra apostrofa tali episodi come atti di bullismo politico, ricordo che anche l'ex pm antimafia Antonio Ingroia è stato privato della scorta dopo 27 anni. E nel silenzio generale. Ma è ormai fin troppo chiaro che le critiche che oggi muove il Pd, o quello che rimane, non sono altro che un modo per distrarre la mente dall'irreversibile crisi ideologica e identitaria.

Cleopatra, lunedì 25/06/2018

P.S. Il Meglio del Peggio va in vacanza e vi dà appuntamento a settembre.