mercoledì 2 gennaio 2019

I DIECI MIGLIORI DISCHI DEL KILLER DEL 2018



Di consueto, con l’inizio del nuovo anno, arrivano le classifiche delle cose migliori ascoltate nel precedente. Nessuna pretesa di esaustività, ovviamente, ma solo il meglio dei dischi raccontati sul Killer. Come sempre, so che non tutti saranno d’accordo con queste scelte; ma, come sempre, sono convinto di aver costruito la classifica con il massimo della obbiettività conciliata, ovviamente, alla parzialità dei miei gusti personali. Gli album vanno dalla decima piazza alla prima e l’indicazione è seguita da un breve stralcio della recensione che ne feci.


10 MYLES KENNEDY – YEAR OF THE TIGER
“Difficile dire se un album del genere potrà far breccia nel cuore dei tanti appassionati rocker che da tempo seguono le gesta del cantante; di sicuro, Year Of The Tiger, a prescindere dai suoi intenti catartici, apre a Kennedy le porte di una carriera parallela che, visto il risultato di questo inaspettato e tardivo esordio, potrà essere una carta vincete da giocare, quando l’ugola, oggi più scintillante che mai, comincerà a perdere colpi.










9 KACEY MUSGRAVES – GOLDEN HOUR
“Sono tante, infatti, le canzoni che, nella loro schiettezza pop, risultano godibilissime: Space Cowboy, autentico tormentone da quasi un milione di visualizzazioni su Youtube, la riuscita commistione fra elettronica e strumenti tradizionali di Oh, What A World, la primaverile freschezza di Lonely Weekend, gli accenti malinconici del folk pop dell’iniziale Slow Burn, la diafana filigrana soul della title track, le delicatezze pianistiche di Mother e Rainbow e la dance retrò di High Horse, fulminante riempipista pubblicato come terzo singolo. Un disco assolutamente riuscito, tanto che gli autorevoli Guardian e The Indipendent hanno entrambi premiato la Musgraves con cinque scintillanti stellette. Un plauso forse eccessivo, ma un giudizio che comunque testimonia l’ottimo lavoro fatto dalla texana anche lontano dai consueti registri. Leggerezza pop a tutto tondo da ascoltare senza preconcetti.”


8 LARKIN POE – VENOM & FAITH
“Le due sorelle Lovell, infatti, camminano in bilico fra tradizione e innovazione, plasmando le classiche dodici battute con grande modernità e azzardi stilistici che suonano decisamente anomali rispetto alla consueta visione del genere. Insomma, da un lato l’attenzione filologica alle radici è rispettata, dall’altro, però, c’è il tentativo di plasmare la materia per renderla più attuale, facendo ricorso ad un pizzico di elettronica e a ritmiche, talvolta, anche molto vicine a quelle dell’hip hop.
Le Larkin Poe, mi permetto di azzardare il paragone, fanno esattamente ciò che anni fa fecero i White Stripes di Jack White: modernizzano un suono antico, avvicinando la grande tradizione blues alle orecchie dei più giovani. Ciò non significa stravolgere tutto, e ci mancherebbe, ma aggiungere nuove spezie per ravvivare un sapore già noto”

7 LORI MCKENNA – THE TREE

“Riflette sulla vita, la McKenna, sulle quelle esperienze affettive che potrebbe devastarti, ma che alla fine ti rendono più forte e coraggiosa (You Can’t Break A Woman), sugli impeti della gioventù, su quell’urgenza e quell’impazienza che spinge i giovani a volere tutto e subito (Young And Angry Again, con un suono di chitarra che rievoca Emmylou Harris e la sua Hot Band) e sulla perdita dell’innocenza e la consapevolezza dell’età adulta (in The Lot Behind St Mary’s, Lori canta di: the love we made before our teenage dreams were buried). Non c’è un solo riempitivo in The Tree, né un momento di stanca, a dimostrazione dello stato di forma di un’artista che continua a sfornare dischi indispensabili. Tanto che, a voler usare l’iperbole, basterebbero i due minuti di struggente perfezione di You Won’t Even Know I’m Gone a farci gridare al miracolo e a renderci felici di aver comprato questo disco.”

6 CLUTCH – BOOK OF BAD DECISIONS

“Questa miscela esplosiva di fango, cemento armato, sudore, metanfetamine, hard rock, blues, stoner e grunge non ha perso negli anni un briciolo del suo fascino virile e del suo impeto guerrigliero, giungendo di nuovo alle orecchie degli ascoltatori con la sua implacabile ferocia. Quindici canzoni che soffiano rabbia e adrenalina come benzina su fuoco, per una scaletta che tracima cattiveria e non risparmia colpi bassi: un assalto elettrico corroborato dalla sezione ritmica martellante, da riff urticanti e solfurei, da assoli brevi e letali come una raffica di mitra, e dal ghigno malefico della voce assassina di Neil Fallon.







5 ALICE IN CHAINS – RAINIER FOG

“Il suono è sempre più cupo, ossianico e claustrofobico, le canzoni sono mediamente più lunghe che in passato, e se il marchio di fabbrica rappresentato dagli intrecci vocali e dai riff icastici e dagli assoli vischiosi della chitarra di Cantrell continua a segnare uno stile inimitabile, i richiami ai fasti del grunge trovano una declinazione ancora più heavy.
Non un disco facile, anzi: le dieci canzoni che compongono la scaletta dell’album (per cinquantaquattro minuti di durata) possiedono un tasso di indigeribilità altissimo e impongono un’attenzione e una predisposizione all’ascolto da veterani per riuscire a superare la prima impressione di trovarsi di fronte a un’opera monolitica.”

4 JASON ISBELL & THE 400 UNIT – LIVE FROM THE RYMAN

“Grazie a una band che si mette al servizio delle canzoni, con una performance low profile ma efficacissima, e al violino e la voce di Amanda Shires, la cui dolcezza fa da contrappunto alla ruvida schiettezza del marito, Isbell inanella un filotto di canzoni che lasciano senza fiato, sia quando abbraccia la chitarra elettrica graffiando con il suo rock aspro e quadrato (il ringhio di Cumberland Gap, la tirata grezza e basilare di Super 8), sia quando sfodera gioiellini di melodia da cantare a squarciagola come The Life You Chose o Last Of My Kind, o si raccoglie nell’intimità asciutta di If We Were Vanpires.
Se esistesse un vademecum per la pubblicazione del perfetto disco live, dovrebbe essere improntato a questo Live From The Ryman: un’ora di musica col cuore in mano, in cui la vita supera l’arte, per intensità ed emozioni. Imperdibile.”

3 DANIEL BLUMBERG – MINUS

“In Minus c’è, come si diceva, una predisposizione all’improvvisazione, che viene sublimata nei dodici minuti e mezzo di Madder, capolavoro deviato e sperimentale in cui Blumberg trita e rimastica i Talk Talk di Laughing Stock, Vic Chesnutt, Robert Wyatt e Tim Buckley, spingendo la visione verso una chiosa rumorosa, schizofrenica e free.
Un album che rapisce nell’andamento apparentemente ovvio di Stacked, ballata alla Neil Young, in cui al falsetto di Blumberg fa da contrappunto lo sfarfallio di un violino nevrotico e disturbante, o che intrappola nel caracollante loop rotatorio e nei ritmi spezzati dell’allucinata Permanent, canzone che vira, poi, nell’intuizione di un ritornello di bellezza improvvisa e struggente.
Se è vero che Minus non è un disco per tutti i gusti, è altrettanto vero che questo straordinario impianto di melodia, allucinazioni, fremente tensione e fragilità emotiva potrà diventare per molti una sorta di istant classic, da consumare senza soluzione di continuità per molto, molto tempo. Come una bella donna il cui fascino complicato e respingente vi fa perdere letteralmente la testa, così Minus sa ammaliare con trame complesse, tortuose deviazioni, particolari apparentemente astrusi e ombrosi ristagni. Tanto che ci sentiamo di suggerirvelo come uno dei dischi più emozionanti di questo 2018.”






2 CLOUD NOTHINGS – LAST BUILDING BURNING

“Se Dissolution rappresenta una possibile nuova traiettoria per il futuro dei Cloud Nothings, il resto del disco eleva al massimo possibile gli standard già alti a cui il combo americano ci ha abituati. Lo fa fin da subito, con l’opener On An Edge, sconquasso post hard core, che colpisce nel segno come un uppercut sullo zigomo, aumentando notevolmente una potenza di tiro già considerevole.
Sanno fare malissimo, i Cloud Nothings, ma non dimenticano mai di giocarsi anche la carta vincente di un paio di brani (Leave Him Now e Another Way Of Life), in cui chiamano all’appello quelle accattivanti melodie lo-fi, che da sempre sono il piatto forte della casa. Due ottime canzoni, che da sole, però, non sposterebbero il giudizio su un disco che possiede, invece, le stigmate dell’alternative instant classic.
In Shame, infatti, riaccende l’epos della bellissima I’m Not A Part Of Me (da Here And Nowhere Else), gonfiando di lirismo sturm und drang tre minuti di canzone che sfidano con lo sguardo di fuoco il cupo livore del cielo in tempesta. Stupisce, poi, la ruggine nostalgica che ossida il riff post punk di Offer An End, e straziano il cuore le unghiate malinconiche sul muro elettrico di So Right So Clean, ballata che destruttura con ruvide distorsioni una melodia intrisa di rassegnata disperazione.
Se ancora c’è qualcuno che pensa ai Cloud Nothings come a una band di cazzoni alle prese con del pop punk tardo adolescenziale, dopo aver ascoltato Last Building Burning, avrà modo di ricredersi definitivamente: il trio di Cleveland esibisce una qualità compositiva da fuoriclasse e firma quello che può essere senz’altro definito il proprio capolavoro. Un disco che ferisce i padiglioni auricolari con scariche elettriche di rinnovata ferocia e guarda a un possibile nuovo futuro con baldanzosa consapevolezza. Indispensabile.”




 

1 FANTASTIC NEGRITO – PLEASE DON’T BE DEAD

“Le undici canzoni in scaletta, infatti, sono uno zibaldone di citazioni, un patchwork arditissimo di deja vù; eppure, nonostante non ci sia nulla di veramente nuovo, la miscela è talmente originale, colorata e fantasiosa da apparire, anche ad orecchie allenate, qualcosa di realmente inaudito.
Xavier, infatti, nasconde i punti di riferimento, crea alchimie fra suoni lontani, trae in inganno con il trompe l’oil di brani che partono con una struttura e finiscono proprio là, ove era impensato finissero, suggerisce coordinate e poi, prendendo alla sprovvista l’ascoltatore, cambia improvvisamente rotta. Mischia le carte, perché le canzoni suonino al contempo famigliari e spiazzanti, in un unicum che è tutto fuorché prevedibile o lineare.
La deflagrazione di Plastic Hamburgers, con cui si apre il disco, è innescata dalla miscela incendiaria fra un riff zeppeliniano, funky e moderno spiritual (qualcuno ha detto Algiers?): è un diretto sullo zigomo, un brano che fa godere rockettari incalliti e saltare in piedi gli amanti della black music per un compendio di tre minuti e mezzo che si mangia in un boccone l’intera discografia di Lenny Kravitz.
Siamo solo all’inizio, però, di un disco in cui ogni canzone regala un’intuizione che definire felice è essere riduttivi. Bad Guy Necessity è un funky eviscerato dai bisturi di un ritornello stonesiano al midollo, A Letter To Fear ricicla la progressione discendente di Dazed And Confused degli Zep mettendola al servizio di quella che in realtà si rivela un’intensa ballata gospel.
Non c’è tempo per stupirsi, né un attimo di pausa, perché tutto fluisce strano e inatteso: la danza sciamanica di A Boy Named Andrew che viene accerchiata da una chitarra acida di morsura, il nu soul stiloso di Trasgender Biscuits, che sembra una bonus track da Fly Or Die dei Nerd, il lamento spirituals di The Suit That Won’t Come Off, attraversato da una chitarra affilatissima e che si scioglie in un’accorata melodia soul, o l’inaspettato tributo alla disco music anni ’70 contenuto nella strabiliante The Duffler, forse il miglior episodio del lotto.
E si potrebbe andare avanti così a raccontare ogni singolo brano di un lavoro che non presenta la benché minima ombra di filler. Se, infatti, solo un decimo dei dischi ascoltati quest’anno contenesse la metà delle idee e delle intuizioni che animano Please Don’t Be Dead, sarebbe, per noi appassionati, come vivere nel paese dei balocchi. Indispensabile e bellissimo.”




Blackswan, mercoledì 02/01/2019

1 commento:

giuseppe ha detto...

tutti e dieci questi dischi mi danno profondo fastidio