domenica 24 febbraio 2019

SUNJEEV SAHOTA - L'ANNO DEI FUGGIASCHI (Chiarelettere, 2018)

Un anno in Inghilterra, quattro stagioni travolgenti vissute attraverso gli occhi di tre ragazzi indiani in cerca di un futuro diverso: l’Inghilterra è una promessa, il passato un peso da cui liberarsi. Dietro di loro lasciano un Paese in radicale cambiamento, sconvolto dai conflitti civili e troppo spesso governato da un codice morale pieno di pregiudizi. Costretti dalle circostanze a condividere la stessa casa di lavoratori irregolari nella città di Sheffield, sospinti dalle loro aspirazioni, dall’amore ma soprattutto dalla necessità di sopravvivere, i tre giovani affrontano una vita quotidiana spietata in cui la fuga, lo sfruttamento, il lavoro massacrante minacciano ogni giorno di privarli anche dell’ultimo briciolo di umanità. Sarà l’incontro con una giovane e misteriosa donna sikh, cresciuta a Londra e animata da un’incrollabile volontà di aiutare il prossimo, a cambiare nuovamente il corso dei loro destini. Decisa a riscattarsi da una tragedia del passato, entrerà a contatto con il mondo brutale della clandestinità, che le lascerà dentro tracce indelebili.

Sono molti i motivi per cui L’Anno dei Fuggiaschi è un romanzo consigliatissimo, a partire da una scrittura asciutta, senza fronzoli, all’apparenza distaccata, eppure sempre efficace e dolorosamente urticante. Tuttavia, la cifra estetica del libro passa in secondo piano rispetto ai contenuti e alla forza di un racconto che non è solo di estrema attualità, ma è capace di scavare a fondo su un tema sociale (quello dell’immigrazione) su cui spesso, da destra e da sinistra, si parla a sproposito e senza cognizione di causa.
Sunjeev Sahota, scrittore inglese di origine indiana, non ancora quarantenne, ha il grande merito di mantenere un’adeguata distanza dalla materia trattata, e di evitare banalizzazioni retoriche o buonismi pret a porter tanto cari a certi intellettuali da salotto.
L’Anno Dei Fuggiaschi racconta una storia di immigrazione, non molto differente da quelle che ascoltiamo in tv, tutti i giorni, all’ora del telegiornale: la fuga da un paese, l’India nello specifico, in cui le condizioni economiche sono precarie, i giovani non trovano lavoro, le disuguaglianze sociali sono abissi incolmabili, e la speranza di trovare in Occidente l’abbrivio per un futuro migliore.
La realtà, ovviamente, infrange subito tutte le speranze di questi quattro ragazzi, ognuno con una storia dolorosa alle spalle, che si ritrovano a vivere in un mondo, nel migliore dei casi, indifferente e, spesso, invece, ostile, prestandosi a ogni tipo di abiezione in nome di un unico, impellente, bisogno: sopravvivere.
Sahota, però, non si limita solo a puntare il dito contro il sistema e il mondo occidentale, ma ha il coraggio di superare facili stereotipi narrativi, concentrando lo sguardo anche sulla cultura indiana, arretrata e ferocemente razzista, incapace di superare la divisione in caste (veri e propri gruppi sociali endogamicamente chiusi, impossibilitati a comunicare fra loro), in cui la donna non ha voce in capitolo ed è solo merce di scambio per matrimoni di convenienza.
Insomma, se è vero che l’Inghilterra è terreno fertile per lo sfruttamento, se il sistema capitalistico produce sperequazioni e sofferenza, è altrettanto vero che tutti gli effetti negativi vengono amplificati dalla chiusura mentale e dall’arretratezza sociale di una cultura con cui è quasi impossibile integrarsi, se non attraverso gli elementi più marcatamente visibili e ambiti del modello occidentale: il denaro, la casa, la macchina, il lavoro sicuro.
In questo contesto di dolore, di privazioni, di lotta quotidiana per la sopravvivenza, ove tutto è lecito se serve a mettere insieme il pranzo con la cena, i veri aguzzini, la mano “armata” del sistema sono gli stessi oppressi, quegli immigrati che sono riusciti a conquistarsi una piccola agiatezza economica e non hanno scrupoli a sfruttare e angariare i propri simili, esattamente come facevano in India.
Romanzo potente, duro come un pugno allo stomaco, e pervaso, soprattutto, da un’epica della disperazione che scuote le coscienze e spinge verso un surplus di riflessione e indignazione, che il finale, vagamente consolatorio, non può e non riesce ad attenuare.

Blackswan, domenica 24/02/2019

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