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lunedì 25 luglio 2016

IL KILLER VA IN VACANZA






Anche quest’anno è arrivato, finalmente, il tanto agognato periodo feriale: dieci giorni sotto l’ombrellone a recuperare le energie, ad ascoltare tanta nuova musica e a leggere a più non posso, senza l’assillo dell’orologio e dei tanti, sempre troppo incombenti, impegni. Torneremo a pubblicare, a Dio piacendo, dopo il 6 agosto. A tutti i lettori e a tutti gli amici blogger, auguriamo vacanze ricche di divertimento, relax ed emozioni.
Un abbraccio e a presto!





Blackswan, lunedì 25/07/2016

domenica 24 luglio 2016

SEAN WATKINS – WHAT TO FEAR



Abbiamo recensito, non più tardi di due settimane fa il nuovo disco di Sara Watkins. Oggi, invece, tocca suo fratello Sean, cantante e chitarrista che con Sara e Chris Thile fa parte del progetto Nickel Creek, nota band statunitense di progressive bluegrass. Tuttavia, come raccontavamo a proposito del disco della sorella, lontano dalla casa madre, anche Sean viaggia su binari diversi. Niente roots, dunque, né il moderno indie folk, screziato di pop e rock di Sara. Sean, invece, imbocca la strada di un’Americana acustica che, in più di un’occasione, rimanda a certe delicatezze riconducibili alla scrittura di Elliott Smith. In What To Fear, Watkins usa infatti i colori tenui del pastello, crea melodie sospese, modula i brani sull’interplay fra chitarra acustica e pianoforte, apre a soundscapes agrodolci e malinconici. Suona, più o meno, tutta così la scaletta del disco, le cui dieci canzoni, per circa quaranta minuti di durata, raccontano l’America nell’anno delle lezioni (la title track è chiarissima nel prendere posizione) e le paure del nostro incerto futuro, esplorando quella sottile linea di confine che separa il politico dalla riflessione personale. Se il disco suonasse tutto come le prime cinque canzoni, staremmo parlando di uno degli album di americana più belli dell’anno: da What To Fear a Everything ci troviamo di fronte, infatti, a un cantautorato ispiratissimo, le cui brillanti melodie ci catturano a ripetuti ascolti e i cui testi, politicamente impegnati, spingono l’ascoltatore a più di una riflessione.





La seconda parte, invece, sembra perdere un po’ il tocco magico che anima la prima metà, e pur mantenendo, comunque, piacevolissimo l’ascolto, cerca altre forme espressive che minano l’unitarietà della scaletta: il fingerpicking folk di Where You Were Living, il bluegrass di Local Honey,  la cupa marcia per chitarra elettrica di Tribulations, l’arrangiamento d’archi di Too Little Too Late, una ballata bella ma risaputa. La vetta del disco si intitola Everything e racconta di un viaggio immaginario intrapreso a piedi da Watkins attraverso l’America: da Seattle, dove il songwriter ha concluso il suo tour, fino all’amata Los Angeles, città in cui l’artista vive. Una canzone splendida, una delle migliori ascoltate quest’anno, ed esempio di scrittura sopraffina, la cui languida melodia (il rimando a Elliott Smith qui è evidentissimo) nasce dall’intreccio di più chitarre acustiche e da un leggero tappeto d’archi a sostegno. Ad accompagnare Watkins, per tutta la durata del disco, ci sono Matt Chamberlain alla batteria (ha suonato più o meno con tutti, dai Pearl Jam a Brad Mehldau), Mike Elizondo al basso (bassista noto nel circuito hip hop per aver suonato con Eminem e Dr. Dree) e la band acustica californiana di Bee Eaters. 

VOTO: 7,5





Blackswan, domenica 24/07/2016

sabato 23 luglio 2016

AL SCORCH – CIRCLE ROUND THE SIGNS



Al Scorch è un ragazzone dal fisico massiccio, il sorriso aperto e un marcato accento del Midwest. E’ nato e cresciuto a Chicago, compone canzoni dai contenuti, spesso e volentieri, socio-politici, e suona la chitarra e il banjo. Anzi, quest’ultimo strumento lo suona così bene che su di lui, negli States, si stanno spendendo fiumi di parole d’elogio. L’Huffington Post, ad esempio, lo definisce “…the finest country-punk-folk-bluegrass banjo player in the country”. Parole grosse, insomma, ma non spese a casaccio. Scorch, infatti, è un fenomeno di banjoista, forse non ancora ai livelli del leggendario Earl Scruggs, tanto per citare uno dei virtuosi dello strumento, ma vista la giovane età, ha davanti a sè ancora notevoli margini di miglioramento. Circle Round The Signs è il suo secondo album ed esce per la Bloodshot Records, la prestigiosa casa discografica, che ha sotto contratto il meglio della gioventù a stelle e strisce (tra cui The Yawpers, Banditos e Andrew Bird). Dicevamo prima delle notevoli doti tecniche di Scorch, che in questo disco sono immediatamente rilevabili, fin dal primo brano: una velocità d’esecuzione, in molti casi, adrenalinica e ciò nonostante un tocco pulitissimo (provare l’ascolto in cuffia). Ma non sono solo i virtuosismi a rendere appetibile l’ascolto. Il nostro, infatti, imbastisce una scaletta varia e divertente, nella quale riesce a fondere, con inusuale equilibrio, diversi elementi all’apparenza lontanissimi fra loro: il bluegrass (Lost At Sea), il jazz (Everybody Out), l’americana più tradizionale (Lonesome Low) e il punk. Si, avete letto bene: punk. 




Non ci vuole molto, infatti, per capire che la conclusiva Love After Death, ad esempio, paga un debito altissimo agli irlandesi Pogues, così come certe accelerazioni, presenti in tutto il disco (il sali e scendi di Insomnia, l’iniziale Pennsylvania Turnpike, la fulminante Want One, un minuto e mezzo di divertimento puro) sono, per indole, più vicine ai Black Flag che a sonorità roots. Ma che Scorch abbia inclinazioni punk lo si comprende anche dalla durata della canzoni, mediamente sui due minuti, per una scaletta che fulmina l’ascoltatore con una mezz’ora di ottima musica. Merito anche della The Country Soul Ensemble, band che fa da spalla al musicista chicagoano, bravissima ad assecondare i repentini cambi di tempo e di umore, e ad adattarsi allo spirito ondivago delle diverse canzoni (la militanza politica declamata nella struggente Poverty Draft, e resa toccante dallo splendido assolo di corno francese di Justin Almosch, e il divertissement bluegrass di Slipknot, in cui la band incornicia fra armonica e violini il rapidissimo fingerpicking di Scorch). Un disco interamente acustico, suonato con gli strumenti della tradizione, ma il cui risultato finale ci suggerisce l’energia, la forza e la passione di una rock’n’roll band. Così possiamo dire, senza timore di essere smentiti, che la variegata e interessante scena musicale di Chicago ha trovato un altro eroe.

VOTO: 8





Blackswan, sabato 23/07/2016

venerdì 22 luglio 2016

CAR SEAT HEADREST - TEENS OF DENIAL (Matador, 2016)



Car Seat Headrest è la sigla (a dir poco stramba: poggiatesta del seggiolino dell’auto) dietro la quale si cela Will Toledo, One Man Band originario di Williamsburg in Virginia, oggi ventitreenne, diventato popolare negli ambienti Indie per l’enorme mole di materiale autoprodotto diffuso in rete dalla piattaforma Bandcamp. La sua fama cresce ulteriormente nel 2015 quando in seguito all’interessamento della Matador esordisce in forme più tradizionali con l’album della svolta, Teens Of Style: ottima l’accoglienza di critica e pubblico che contribuisce a fare del nome di Toledo uno dei più caldi tra le nuove proposte del Rock americano. Ora, per Teen Of Denial, Car Seat Headrest assume una nuova fisionomia e, con l’ingresso in pianta stabile del polistrumentista Ethan Ives, di Seth Dalby al basso e di Andrew Katz alla batteria, assistiamo alla nascita di una band vera e propria. Determinante in sala regia l’apporto dell’esperto Steve Fisk produttore storico nella Seattle del Grunge (Beat Happening e Screaming Trees, collaborazioni con Nirvana e Soundgarden).
E’ un album torrenziale Teen Of Denial (doppio nella versione in vinile), 70 minuti in cui si dà seguito alle esperienze surreali e ai pensieri bislacchi di Jack (alter-ego di Toledo), adolescente problematico, a suo modo geniale. Un flusso emotivo attraversa i 12 brani come fossero i capitoli del romanzo di formazione di un giovane slacker, perennemente sotto l'effetto disostanze alcoliche e psicotrope, nel quale i ritratti di Van Gogh sono utili nelle terapie antidepressive, la morte suona uno xilofono fatto di costole umane e gli ubriachi guidano sulle interstatali in cerca di orche assassine! Un “delirio” poetico/letterario che correda un album dal grande impatto sonoro a testimonianza dell’avvenuta maturità, un salto di qualità che fa di questo lavoro il migliore della discografia di Toledo e tra i più interessanti dell’annata in corso. In Teen Of Denial si cita, si ruba e si mescola: fonte primaria il Rock alternativo degli ultimi decenni. Anche troppo se è vero che a Rick Ocasek il giochino non è piaciuto affatto e ha negato il permesso per l’utilizzo del riff e del testo di Just What I Needed impedendo l’uscita imminente del disco e costringendo Toledo a riscrive il pezzo senza nessun riferimento alla hit dei Cars. Altissimo quindi il rischio di implodere sul proprio citazionismo, che Toledo supera agevolmente, con la personalità del veterano e un’intelligenza compositiva fuori dal comune. 




Il disco si apre con il Punk grezzo e sferragliante di Fill The Blank, chitarre a pieno volume e ritornello che ti si ficca immediatamente nel cervello. Pulsazioni elettriche introducono l’assordante Space-Rock di Vincent con tanto di fiati e synth a rimarcarne il carattere ludico. Il trittico iniziale si chiude con la fantastica Destroyed by Hippie Powers, attacco fulminante subito stemperato in favore di un liquido fraseggio chitarristico di scuola Television e Sonic Youth. (Joe Gets Kicked Out Of School For Using) Drugs With Friends (But Says This Isn't A Problem) è incredibile fin dal titolo: ballata sconnessa ed in egual modo schizzata nella quale si racconta del cazziatone che Gesù impartisce a Jack/Toledo dopo una colossale sbronza! Toni rallentati e post-alcolici anche in Drunk Drivers/Killer Whales, nessun dubbio sulla resa dal vivo del coretto che caratterizza il brano: It doesn't have to be like this / Killer whales, killer whales / It doesn't have to be like this. 1937 State Park è il pezzo in cui si sente di più il tocco di Steve Fisk intriso com’è di Grunge granitico e malumori cobainiani: Sto alla larga dai cimiteri / sono cliché della mia generazione ossessionata dalla morte. La seconda parte del disco graffia forse meno ma piazza ugualmente un paio di colpi formidabili. The Ballad of the Costa Concordia (in cui si irride alle gesta del Comandante Schettino: mi è stata data una nave che non può governare se stessa) e la distorta Connect the Dots (The Saga of Frank Sinatra). Teen Of Denial, disco dai tanti rimandi, piacerà ai fan di Pavement, Guided By Voices e Pixies ma anche ai ventenni di oggi che troveranno in Will Toledo un credibile quanto beffardo cantore in cui rispecchiarsi.

VOTO: 8





Porter Stout, venerdì 22/07/2016



giovedì 21 luglio 2016

MOTORHEAD - CLEAN YOUR CLOCK



La dipartita di Lemmy, avvenuta il 28 dicembre dello scorso anno, è uno di quei rospi difficili, molto difficili, da ingoiare. Con lui, infatti, se ne sono andati i ricordi e le passioni di più una generazione di appassionati e si è attenuato, in modo pressoché irreversibile, il ringhio più selvaggio del rock 'n' roll. Già, perchè Lemmy era selvaggio in tutto: nelle canzoni che cantava, in quelle corde vocali attraversate da fiumi di catrame, negli atteggiamenti di una vita vissuta sempre fuori dagli schemi della logica. Clean Your Clock, tredicesimo disco dal vivo nella carriera della band, non toglie e non aggiunge nulla a una storia che già conosciamo bene; eppure, in qualche modo, la perpetua, lenendo un pò il dolore della grande perdita e rinfocolando le nostre speranze di trovarci per le mani, in futuro, qualche ghiotta uscita postuma, che mantenga intatto il cordone ombelicale con la band (di dischi nuovi, come appare ovvio, non ne usciranno più). Registrata durante il tour europeo per i quarant’anni di carriera dei Motorhead, la scaletta di Clean Your Clock contiene brani di due performance tenutesi le notti del 20 e del 21 novembre 2015 al centro culturale Zenith, situato nei pressi di Monaco di Baviera. Si tratta dell'ultima registrazione live ufficiale della band (Lemmy morirà un mese circa più tardi) e il disco è stato distribuito in diversi formati: cd singolo, cd + dvd, Blue - Ray + cd, e in due ricchissimi (e costosissimi) box-set, contenenti svariato materiale per esclusiva gioia dei fans (più abbienti). Le canzoni suonate spaziano per tutto l'arco della carriera, e i compilatori della raccolta hanno pescato sia dai dischi più recenti (When The Sky Comes Looking For You presa, ad esempio, da Bad Magic) sia dai classici dei classici (presenti le immancabili Bomber, Overkill, Ace Of Spades, etc). Il concerto è senz'altro buono, anche se Lemmy, ormai in limine vitae, a tratti, sembra non farcela più. Ma non è questo il punto e poco importa se non tutto suona alla perfezione. Il senso di questo ascolto è solo quello di onorare una leggenda che ha reso più belli i nostri giorni con la sua musica senza compromessi. Un'ultima furiosa cavalcata insieme. E se le lacrime inumidiscono ancora un po’ gli occhi, è solo questione di un attimo: un paio di canzoni e tutto torna a essere sudore e headbanging. Rock on forever, Mr. Kilmister !

VOTO: 6,5





Blackswan, giovedì 21/07/2016