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venerdì 31 marzo 2017

JESUS AND MARY CHAIN – DAMAGE AND JOY (Artificial Plastic, 2017)



Il Rock inglese nella metà degli anni ‘80 si contraddistingue per una massiccia opera di rinnovamento tesa al superamento della lunghissima stagione del Punk e della New Wave. L’implosione dei Clash, con il pessimo atto finale Cut The Crap, ha un suo immediato contraltare qualitativo con l’affermazione degli Smiths, di Lloyd Cole and The Commotions e degli Housemartins a cui si aggiungono le frizzanti sonorità Folk/Rock dei cugini irlandesi Pogues e Waterboys. Tra le vecchie glorie tengono botta gli XTC, i Cure, Costello e i Fall, intanto gli U2 fanno le prove generali per assumere di lì a breve il ruolo di band più popolare del terraqueo. E’ in questo contesto che arriva la rivoluzione del cosiddetto Shoegaze che vedrà tra i suoi esponenti più popolari, nonché massimi ispiratori, la band scozzese Jesus and Mary Chain.
Tutto nasce in un sobborgo di Glasgow sotto l’impulso di due giovanissimi chitarristi, i fratelli Jim e William Reid e dell’amico d’infanzia Douglas Hart al basso. Dopo l’incisione di una demo che contiene la registrazione domestica di Upside Down raggiunge la band anche un nuovo batterista, quel Bobby Gillespie che in seguito diventerà una gloria d’Inghilterra con i suoi Primal Scream. Grazie a quest’ultimo conoscono Alan McGee della Creation che intravedendo il grande potenziale dei quattro finanzia il singolo d’esordio: una versione riveduta e corretta di Upside Down sul lato A e sul retro la cover Vegetable Man di Syd Barrett. Il disco sortisce i suoi effetti, le migliaia di copie vendute in poche settimane scatenano una vera e propria asta tra le maggiori etichette discografiche per mettere sotto contratto i Jesus. Sarà il potente manager della Rough Trade Geoff Travis, che gestisce anche la Blanco Y Negro per conto della WEA, ad assicurarsi le future performance della band. Arrivano quindi altri singoli memorabili Never Understand, You Trip Me Up e la hit Just Like Honey, che accrescono febbrilmente l’interesse per il quartetto scozzese in vista dell’uscita di Psychocandy, il debutto a 33 giri che segnerà indelebilmente le vicende del Rock nel decennio successivo influenzando decine di nuove band con il suo portato di originalità e forza impattiva. Velvet Underground, Suicide, Ramones, Stooges, gli esperimenti Noise dei Sonic Youth ma anche il Garage e il Pop dei sixties, tutto dentro ad un frullatore impazzito che i J&MC alimentano con l’elettricità sporca ed abrasiva delle chitarre di Jim e William e l’annoiata sussistenza di una sezione ritmica tra le più basiche e strascicate di sempre.





Coltri di feedback proteggono la natura delicata delle loro canzoni essenzialmente Pop, un’aggressione sonica atta ad erigere un moderno “muro del suono” dietro al quale nascondere anche timidezze ed insicurezze mai completamente risolte. Per tutta la carriera preferiranno infatti il lavoro in studio alla dimensione live dove, il reiterato sforzo di scomparire sotto le foltissime capigliature, finirà per connotare l’estetica di tutto il movimento Shoegaze. Fissare le Dr. Martens quindi, anziché aizzare le folle sotto al palco, più per un malcelato senso d’inadeguatezza che non per una predefinita opzione scenografica. Così My Bloody Valentine, Spacemen 3, Loop (sul versante inglese), Pixies, Dinosaur Jr, Galaxie 500 (oltreoceano), le band che meglio sapranno introiettare la lezione di Psychocandy.
Tra alti e bassi e leggendarie risse tra fratelli i Jesus and Mary Chain produrranno dall’87 al 98 altri cinque album, tutti di grande successo mediatico e di pubblico, fino all’auto consunzione e allo scioglimento intervenuto dopo l’uscita di Munki con Jim e William incapaci di rapportarsi l’un con l’altro. Da allora soltanto rumors di fantomatiche riappacificazioni e qualche sporadico progetto collaterale, vedi i Lazycame di William, i Freeheat di Jim con alcuni membri dei Gun Club e i Sister Vanilla (ancora Jim con la sorella Linda). Dopo l’estemporaneo ritorno nel 2007 per la partecipazione al Coachella Festival insieme a Scarlett Johansson (Just Like Honey, Lost in Translation, conoscete la storia) che non porterà a nessuna nuova registrazione, la svolta nel 2015 con la realizzazione del doppio album Barrowlands Live che ripercorre le fasi salienti della loro carriera e ora l’agognatissimo settimo album: Damage and Joy. Prodotto da Youth (l’ex Killing Joke Martin Glover) il disco assembla 14 pezzi tra inediti e cose già sentite (Amputation proviene dal repertorio dei Freeheat, Can't Stop The Rock da quello dei Sister Vanilla) e si avvale delle ospitate, tutte al femminile, di Isobel Campbell, Bernardette Denning, Sky Ferreira e Linda Reid accreditata “Fox”. Il disco suona benissimo in brani come All Thing Pass e Always Sad che non avrebbero sfigurato in Darklands, la ritmata Facing Up To The Facts e l’emozionante interplay vocale di Black and Blues con la Ferreira sugli scudi. Non allo stesso modo quando ci si imbatte nella debolissima ballad narcolettica War On Peace, oppure nel Brit Pop mellifluo di Mood River e Presidici (Et Chapaquiditch), poco più che dei riempitivi senza i quali si sarebbe potuto parlare di un piccolo miracolo da aggiungere ai lavori più accessibili dei J&MC. Damage and Joy si erge comunque sulle sciatterie dell’Indie attuale e potrebbe, per chi troppo giovane o non ancora nato all’epoca, suscitare la giusta curiosità per recuperare i lavori più belli di una delle band fondamentali degli anni ‘80.

VOTO: 7


  


Porter Stout, venerdì 31/03/2017

giovedì 30 marzo 2017

KINGSWOOD – AFTER HOURS, CLOSE TO DAWN (Dew Process, 2017)



La storia dei Kingswood ricalca, più o meno, quella di tante giovani band che cercano di farsi largo nel periglioso mondo dello star system. Australiani di Melbourne, Fergus Linacre (lead vocals), Alex Laska (lead guitar & vocals), e Justin Debrincat (drums & backing vocals), si mettono insieme nel 2005, compongono nel garage di casa, iniziano a suonare in vari locali della città. Vengono notati e invitati a vari festival nazionali (Splendour In The Grass, Queenscliff Music Festival, etc.), dove impressionano per la potente linea di fuoco dei loro live act e per un repertorio rock blues muscolare e di grande effetto. Nel frattempo, è il 2012, si autoproducono tre singoli (Yeah Go Die, Medusa and She's My Baby), pubblicano un Ep (Change Of Heart), entrano in classifica con un’altra canzone (Ohio) e vengono presi ad aprire il tour australiano degli Aerosmith. E’ l’abbrivio per il definitivo successo, che arriverà nel 2014, quando esce il loro primo full lenght (Microscopic Wars), che viene prodotto dal tre volte vincitore di Grammy Award, Vance Powell, e scala le classifiche nazionali fino alla sesta piazza, guadagnandosi una nomination agli Aria Music Award (i Grammy australiani). A questo punto, il più è fatto: il nome dei Kingswood rappresenta non più una speranza ma una realtà, il pubblico c’è, la critica apprezza. Basterebbe cavalcare l’onda lunga del successo e aggredire il mercato internazionale, visto che la formula è vincente, le canzoni sono valide e la band è rodatissima da dieci anni di gavetta. E invece? Invece, i Kingswood stanno fermi tre anni per comporre After Hours, Close To Dawn, che invece di sfruttare il lavoro svolto finora, inverte la rotta e sfodera tutt’altro appeal. Dal rock blues in grana grossa degli esordi (guardatevi il video di Ohio per farvi un’idea), i tre irsuti rocker mettono in piedi una variegata scaletta basata sulla tripartizione rock-soul-pop (ma è il soul a farla da padrone), impreziosita da arrangiamenti suntuosi e da un gusto per la melodia davvero inaspettato per una band adusa a randellare senza posa. Apre il pianoforte di Looking For Love, la cui declinazione soul trova l’esatto punto di fusione fra John Legend e gli Steely Dan. E a proposito di Donald Fagen e Walter Becker, ascoltatevi la sensualissima Belle, un pezzo che non avrebbe sfigurato nella scaletta di Pretzel Logic (e quel suono, modernizzato, compare anche nell’ottima Rebel Babe). L’unica concessione al passato è Like Your Mother, basso e chitarre distorte e un pianoforte che spinge il rock blues degli esordi verso una dimensione vagamente honky tonk. Il resto della scaletta, invece, spiazzerà i fans della prima ora, conquistando però le orecchie di chi preferisce il lavoro di cesello al taglio netto. Creepin, ad esempio, è un brano che fonde magnificamente una inusitata vena soul con il retroterra rock della band, e quel basso distorto e la chitarra sull’orlo di una crisi di nervi giocano di contrappunto su un’accativante melodia dal mood malinconico. Golden è un singolo bomba, una morbidezza soul pop attraversata da un assolo di chitarra minimal ma superbo, Atmosphere spinge la bella melodia pop in un groviglio di suoni arrangiati con modernità, mentre il folk di Big City, un’anomalia posta a metà disco, evoca magnificamente atmosfere bucoliche alla Midlake. After Hours, Close To Dawn è il disco inaspettato di un gruppo che ha deciso di modificare il proprio suono prima che questo fosse diventato un marchio di fabbrica identificativo. Una scelta azzardata per un band che si affaccia da poco sui palcoscenici che contano, ma che, a dispetto del rischio preso, coglie il centro del bersaglio, testimoniando una grande versatilità di scrittura e un patrimonio di idee che solo una grande band possiede. Sorprendente.

VOTO: 8





Blackswan, giovedì 30/03/2017

mercoledì 29 marzo 2017

DEPECHE MODE – SPIRIT (Columbia, 2017)


Dopo trentasei anni di carriera e quattordici album in studio, occorre domandarsi cosa sia legittimo attendersi da un nuovo full lenght dei Depeche Mode. La band di Dave Gahan può considerarsi, e a ragione, una sorta di istituzione, che ha saputo mantenere la barra del timone, senza perdersi nei meandri di una lunghissima carriera, nonostante svariate traversie e l’alternarsi di mode musicali sempre più distanti da quel synth pop (talvolta tinteggiato di nero) che diede loro il successo a metà degli anni ’80. Una band, insomma, che anche nei momenti meno ispirati non ha mai sbracato, ma che, credo sia di tutta evidenza, a dispetto di un immutato successo commerciale, non è più stata in grado di azzeccare un disco clamorosamente bello dai tempi di Songs Of Faith And Devotion, uscito nel lontano 1993. Eppure, come appena affermato, non ricordo un album dei Depeche tanto brutto da essere cestinato senza appello nel sacco dell’immondizia. Perché la band britannica è come un’elegante berlina che circola con il pilota automatico, ed è indubbio che i tre ragazzi di Basildon il loro mestiere lo sappiano fare con professionalità e maestria. Che è quello, poi, che si riscontra anche in quest’ultima prova in studio: un album confezionato benissimo da un gruppo che ha saputo creare un suono immediatamente riconoscibile e resistente all’usura del tempo. Spirit, insomma, è un disco dei Depeche Mode fatto e finito, pur essendo pervaso da quel mood elettronico spinto e crepuscolare che aveva già animato il precedente Delta Machine. Gli arrangiamenti sono curatissimi, qui e là emerge anche qualche tentativo di rendere l’assunto meno scontato (Scum) e Gahan canta talmente bene, che anche le dignitose prove vocali di Martin Lee Gore in Eternal e Fail finiscono per sbiadire velocemente. Eppure, nonostante non ci sia una virgola fuori posto, manca un vero e proprio sussulto, un guizzo, una canzone che fra qualche anno ci farà ricordare di Spirit. Certo, Where’s A Revolution è un singolo che, alla lunga, funziona benino (ma francamente siamo al minimo sindacale per una band come i Depeche) e So Much Love e No More (This Is The Last Time) si avvicinano a quelli che sono i migliori standard della casa. Nel complesso, però, Spirit, anche dopo ripetuti ascolti, si fa ascoltare ma non riesce mai a decollare, lasciando la sensazione di una prova sostanzialmente incolore. Insomma, non c’è nulla che non vada, ma nulla che vada tanto bene da farci superare l’asticella della sufficienza.

VOTO: 6





Blackswan, mercoledì 29/03/2017