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domenica 30 aprile 2017

SUNDAY MORNING MUSIC







Tindersticks - Nectar

I Tindersticks guidati dal cantante Stuart A. Staples esordiscono nel 1993 dando alle stampe un album con 22 brani della durata complessiva di ben 80 minuti, un’opera coraggiosa del tutto in controtendenza con le abitudini dell’epoca dominata dall’immediatezza del Grunge e del Britpop. La band, quasi la risposta inglese ai Morphine di Mark Sandman (Cure For Pain esce quello stesso anno), intercetta subito l’attenzione generale facendo spendere paragoni altisonanti con Leonard Cohen, Tom Waits e Nick Cave. Alcuni dei brani in scaletta, Whiskey & Water, City Sickness, Patchwork, Marbles, riascoltati oggi seducono quanto e più di allora rimanendo insuperati nella successiva produzione del combo di Nottingham così come la soffusa, ammaliante, indimenticabile Nectar.




Richard Thompson – Sneaky Boy

Sneaky Boy è un brano insolito nella lunghissima discografia dell’ex Fairport Convention Richard Thompson. Tratta da Sweet Warrior del 2007 è quanto di più lontano dal Brit/Folk che ci si aspetterebbe dal menestrello di Notting Hill. Decisamente più in linea con le storture ritmiche di gente come Fall o Pere Ubu la canzoncina già dopo un paio di ascolti crea autentica dipendenza: Sneaky Boy, Sneaky Boy / Your teeth and your t-shirt / Were always too clean / Sneaky Boy, Sneaky Boy / They're writing your name / Down in the latrine, boy / Sneaky Boy, Sneaky Boy ...




Motorpsycho – Neverland

L’anno scorso, preso dall’entusiasmo per il terzo episodio dell’avventura Spidergawd, l’imperdibile progetto parallelo dei Motorpsycho, azzardai paragoni tra questi ultimi e Kubrick. Una esagerazione! Tuttavia è innegabile che la band norvegese abbia attraversato i generi del Rock (Hard, Alternative, Fusion, Psichedelia, Prog, etc) così come il geniale regista americano ha fatto in campo cinematografico. Nel 2002 fu la volta del Garage/Psych con It’s A Love Cult, riuscitissimo tributo ai grandi dei sixties, Beatles, Kinks, 13th Floor Elevator. Esercizio di stile tra i più riusciti di Bent Sæther e compagni, il disco si eleva sulle produzioni di altre band superspecializzate sul tema che, anche dopo carriere decennali, non riusciranno mai a scrivere gioiellini come questa Neverland





Porter Stout, domenica 30/04/2017

sabato 29 aprile 2017

CAT MOTHER & THE ALL NIGHT NEWSBOYS - THE STREET GIVETH AND THE STREET TAKETH AWAY (Polydor, 1969)



Non sono in molti quelli che si ricordano dei Cat Mother & The All Night Newsboys, classico esempio di band a cui il tempo non ha restituito un briciolo di quella gloria che avrebbero meritato ben oltre il periodo in cui furono attivi. Formatesi a New York sul finire del 1967 e successivamente attivi a Mendocino, in California, i Cat Mother furono un progetto nato dall’incontro fra Roy Michaels (voce e basso), appena uscito dall’esperienza degli Au Go Go Singers (con lui c’erano Stephen Stills e Richie Furay), e Bob Smith (voce e tastiere). Ai due si aggiunsero quasi subito William David "Charlie" Chin (voce e chitarra), Larry Packer (chitarra e violino) e Michael Equine (batteria e chitarra). La band inizia a suonare in vari locali di New York, tra cui il mitico Cafè Wha?, e diventa ben presto la house band dell’altrettanto mitico Electric Circus, night club da cui partì la carriera dei Velvet Underground. Il successo vero arriva però solo nel 1969, quando la band inizia a suonare dal vivo un medley di vecchi classici del rock ‘n’ roll dal titolo Good Old Rock’n’Roll. Il brano, in cui i Cat Mother coverizzano, fondendoli fra loro in modo travolgente, Sweet Little Sixteen di Chuck Berry, Long Tall Sally di Little Richards, Chantily Lace di Big Bopper, Whole Lotta Shakin’ Goin’ On di jerry Lee Lewis, Blue Suede Shoes di Carl Perkins e Party Doll di Buddy Knox, diventa un tormentone radiofonico e scala le classifiche di Billboard, piazzandosi al ventunesimo posto. E da qui che inizia la breve carriera dei Cat Mother, che sarà circoscritta a quattro full lenght, il primo dei quali, The Street Giveth and the Street Taketh Away (1969), viene prodotto da un ragazzo di colore che sta facendo la storia della chitarra elettrica: Jimi Hendrix. La collaborazione con Hendrix nasce per volontà del manager della band, Michael Jeffery, che aveva collaborato con Chas Chandler al lancio degli Experience (due anni dopo, Jeffery fu anche accusato della morte di Hendrix da James Tappy Wright, ma questa è un’altra storia). In virtù degli stretti rapporti di collaborazione tra l’uomo d’affari e il chitarrista (rapporti mai idilliaci, peraltro), Jeffery fece aprire i concerti degli Experience dai Cat Mother e la cosa funzionò molto bene, tanto che Hendrix si convinse a mettere mano all’esordio della band newyorkese. Nel disco, tuttavia, la mano del musicista di colore si sente pochissimo, anche perché la proposta musicale della band si muove in territori diversi, più contigui ad un art-rock a volte un po' pretenzioso, in altre decisamente più efficace, come sottolineato anche dalle parole di Lester Bangs: “this is one of those rare albums which knocks you out the very first time you hear it, but sustains itself as well, by virtue of its honest exuberance, lucid musical sensibility and propulsive drive”. Il disco inizia con l’energia travolgente di Old Good Rock’n’Roll, tre minuti basici e dal mood festaiolo, che sembrano aver mandato a memoria la lezione Revival dei Creedence. Favor è un up-tempo psichedelico, con chitarre in acido (i Doors sono dietro l’angolo), un ritornello giocato sull’interplay fra le voci e un lungo assolo in coda. How I Spent My Summer trova asilo in un punto a caso della costa californiana, fra la Los Angeles dei CS&N e la San Francisco dei Jefferson Airplane, Marie è un irresistibile pop song che deraglia nel divertimento puro di un pianoforte da saloon, gli effluvi psichedelici di Can You Dance To It? suonano come la versione americana della coeva Come Togheter (Beatles), mentre la conclusiva e ambiziosa Track In A (Nebraska Night) imbocca la strada obliqua della sperimentazione, fondendo umori psichedelici, groove doorsiani (con Bob Smith a citare Manzarek) e intuizioni art rock. The Street Giveth and the Street Taketh Away è, in definitiva, un disco che, nonostante alcuni difetti (certe leziosità strumentali, poca coerenza nell’amalgama complessiva), merita di essere riscoperto e non solo per il gancio della produzione di Hendrix. Indubbiamente figli del loro tempo, abili a interpretare con gusto personale i fermenti psichedelici dell’epoca e poi, nei dischi successivi a questo, a imbastire un country rock più convenzionale ma egualmente efficace, i Cat Mother all’esordio si fanno notare per il linguaggio ricercato con cui cercano di affermarsi in un panorama musicale dominato da mostri sacri. Ci sono riusciti solo in parte, con qualche intuizione coraggiosa e con una canzone, Old Good Rock’n’Roll, che li porterà in cima alle classifiche ma che non rappresenta, nemmeno alla lontana, il suono che avevano in testa. Una band ambiziosa, che però non riuscì mai a emergere e che, a poco a poco, spense le proprie velleità sperimentali in un anonimato che dura tutt’oggi. Il disco è stato ristampato e rimasterizzato nel 2013 dalla Universal Record.






Blackswan, sabato 29/04/2017

venerdì 28 aprile 2017

HEATH GREEN & THE MAKESHIFTERS – S.T. (Alive Naturalsound, 2017)



L’Alive Naturalsound è la prestigiosa etichetta discografica di Los Angeles che dal 1993 in poi promuove e distribuisce il meglio del Rock/Blues internazionale declinato volta per volta in modalità Garage, Punk, Psych e Soul. Un piccolo paradiso in terra, quindi, per tutti gli appassionati delle sonorità più viscerali e genuine come si evince facilmente scorrendo i nomi delle band del loro catalogo: Black Keys, Left Lane Cruiser, Datura4, Radio Moscow, giusto per citarne qualcuna. Tra i tanti meriti anche quello di credere in nuovi progetti e in nuovi artisti che altrimenti faticherebbero, e non poco, a farsi conoscere ed apprezzare. Solo nel 2016 l’Alive ha rilanciato la carriera degli irlandesi Bonnevilles e curato gli esordi dei King Mud e dei Sulfur City della inarrivabile lead singer Lori Paradis, tre dischi da urlo che ancora non ci stanchiamo di ascoltare. Adesso è la volta degli Heath Green and The Makeshifters e del loro primo ed omonimo album per il quale sono già stati spesi solo commenti entusiastici. Il quartetto, capitanato dal cantante/chitarrista Heath Green, veterano della scena musicale di Birmingham (Alabama), si completa con l’amico di lunga data Jason Lucia alla batteria, Jody Nelson (seconda chitarra e armonica), Greg Slamen (basso e piano), per questi ultimi due una manciata di album all’attivo nel gruppo Throght The Sparks. 




Inoltrandoci tra i solchi del disco tornano in mente 50 anni di grande Rock, Leon Russell e gli Humble Pie sono, per loro stessa ammissione, le influenze più marcate se aggiungiamo i Black Crowes di Amorica e band di più recente formazione come i Rival Sons e i Moreland & Arbuckle il quadro si completa: un mix fatto di polverose scorribande elettriche, spigolosità Garage e melodie Bluesy dove i quattro mettono a frutto l’esperienza accumulata durante la lunga gavetta. E’ comunque la voce di Heath Green, somigliantissima a quella di Joe Cocker, fulcro ed arma vincente della band, sia che aggredisca i brani più tirati, sia che si cimenti nelle splendide ballate presenti nel disco. Le dieci canzoni scorrono via con gusto e misura, senza inutili fronzoli stilistici, affrancandosi del tutto dal dovere di ingentilire i toni in nome di un presunto imprinting commerciale, colpendo nel segno più e più volte. L’incalzante opening track Out To The City, con un assolo d’armonica in coda da far saltare sulla sedia, Secret Sisters, quasi una rilettura in chiave Garage/Soul di un classico di Howlin’ Wolf, l’emozionante ballata Ain’t It A Shame, l’intensa e rigorosa Living On The Good Side. Tra i continui cambi di registro il divertimento è assicurato con gli stop and go di Hold On Me, il Punk/Blues scarnificato alla maniera di Tom Waits di Took Of My Head e il frenetico Boogie Ain’t Ever Be My Baby. In sintesi, grande band e straordinario debutto, uno dei dischi più eccitanti incrociati di recente che, in mondo perfetto, stazionerebbe per mesi in cima alle classifiche. 

VOTO: 8





Porter Stout, venerdì 28/04/2017