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martedì 31 ottobre 2017

CHEAP WINE - DREAMS (Autoprodotto, 2017)

Vent’anni di carriera sono un traguardo ragguardevole, certo, ma non impossibile da raggiungere. Quel che fa la differenza, però, non è il tempo trascorso, ma è la strada che si è scelto di percorrere. In tal senso, la discografia dei pesaresi Cheap Wine rappresenta quasi un unicum nell’accidentata geografia dell’indie italiano: un percorso di qualità e di coerenza artistica, alla ricerca di un suono che, per quanto suggerisca una parentela stretta con il grande rock statunitense, oggi si è trasformato in un marchio di fabbrica. Tanto che i continui richiami al Paisley Underground o a ingombranti figure come Bruce Springsteen o Neil Young, pur necessari a inquadrare il genere, non rendono merito alla band: i Cheap Wine suonano come i Cheap Wine, il loro pedigree è autorevole, la loro musica, così densa di passione, così potente ed evocativa, è immediatamente riconoscibile. Dreams non solo sigilla splendidamente un ventennale di carriera senza sbavature, ma rappresenta anche l’ultimo capitolo di una trilogia iniziata con Based On Lies (2012) e proseguita con Beggar Town (2014). Tre dischi legati a doppio filo, tre dischi che intrecciano l’arte della canzone con la riflessione sociale e politica, che rinsaldano quel legame, spesso dimenticato, tra la musica e le liriche, intese come strumento per veicolare consapevolezza e ragionamento. Se Based On Lies raccontava con amarezza la deriva etica di un mondo dominato dalla menzogna, e Beggar Town osservava la miseria e lo sfacelo di una società in debito d’ossigeno, spronando però alla ricerca di un riscatto, Dreams sposta ulteriormente la prospettiva, introducendo il tema del sogno, come lasciapassare per immaginare e realizzare un mondo migliore. Il sogno come dimensione notturna delle nostre coscienze, come habitus mentale per approcciarsi alla vita e guardare al di là delle convenzioni, come raccoglimento che ci preserva dalla frenesia dei nostri giorni (“La fretta sperpera il tempo, a volte è meglio rallentare e allontanarsi dalla città” da Cradling My Mind), ma anche come romito ai problemi della vita, immaginario imprevedibile attraverso cui ci scindiamo dalla nostra fisicità. Su questo tema, complesso ma ricco di spunti, sono incentrati i testi di Marco Diamantini, la cui voce intensa, carezzevole e al contempo potente, viene assecondata da una band che interpreta al meglio il mood dell’album: la sezione ritmica di Alan Giannini (batteria) e Andrea Giaro (basso), asciutta, precisa, sostanziale, il tocco alle tastiere di Alessio Raffaelli, che cuce le emozioni in un’onirica visione di chiaroscuri, e la chitarra di Michele Diamantini, essenziale nella costruzione dei riff, tanto fantasiosa nell’uso del pedale wah wah, quanto innervata di tensione e drammaticità nel momento in cui ruba la scena per un assolo. Pochi dischi riescono a possedere una tale compattezza emotiva, a esprimere senza cedimenti un pathos autentico, che si rigenera, di canzone in canzone, in un alternanza fra giorno e notte, fra sogno e realtà, fra illusioni ipnagogiche e la certezza tangibile del risveglio. In scaletta non troviamo un solo filler, e ogni brano è frutto di una sincera ispirazione: dalla zampata rock dell’iniziale Full Of Glow, così possente nella sua classicità, all’andamento caracollante di Naked, emozionante gioco di rimandi fra chitarra e hammond, fino agli echi seventies dell’intensa Reflection e alla cupa malinconia di Pieces Of Disquiet, sprofondo notturno infestato dai fantasmi del mal di vivere. Un disco superbo, dunque, la cui bellezza potrà stupire solo coloro che, fino a oggi, non hanno ancora avuto modo di conoscere la musica dei Cheap Wine. Per tutti gli altri, la conferma che anche in Italia esiste una grande rock band.
A suggellare la celebrazione del ventennale, sul sito del gruppo (www.cheapwine.net) è in vendita un libro che raccoglie, in 274 pagine, tutti i testi delle canzoni. Vent’anni di emozioni da non lasciarsi sfuggire.

VOTO: 8 





Blackswan, martedì 31/10/2017

lunedì 30 ottobre 2017

IL MEGLIO DEL PEGGIO





Tempi duri anche per i cattolici praticanti. Succede che, senza preavviso (così pare), il segretario del PD sia intervenuto durante l'evento Borsa Mediterranea per il turismo Archeologico. Fin qui nulla di strano, se non fosse che il (mis)fatto si è consumato tra le mura di una chiesa. Capita che, mentre ci si trova immersi in religioso raccoglimento e intenti a recitare le proprie orazioni, appaia dal pulpito non la Vergine Santissima, ma San Matteo da Rignano in persona. Al miracolo, inspiegabile perfino ai porporati della diocesi, hanno assistito, increduli, i devoti frequentatori della Basilica dell'Annunziata di Paestum. Il clamore è stato inevitabile." Non si può, neanche la Democrazia Cristiana lo faceva", afferma uno stupito Monsignor Antonino Raspanti, vicepresidente della Cei per il Sud. Nessuno sapeva dell'ostensione di Matteo e se qualcuno ne fosse stato al corrente, non si sentiva troppo bene. Fatto sta, che Matteone dallo sguardo ieratico è apparso attorniato da una schiera di "santi" e da un enorme crocifisso alle sue spalle. Come un Cristo Pantocratore, ai cui piedi si genuflettono adoratori e governatori (Vincenzo De Luca, in testa), rapito dall'estasi e da un profluvio dialettico senza precedenti, celebra il salmo responsoriale magnificando le opere pie del PD. Impartisce perle di saggezza, ammonisce il gregge adorante a non cadere nella tentazione del demonio grillino e a seguire scrupolosamente i precetti del verbo renziano. Durante il torrenziale sermone c'è spazio pure per i ricordi di gioventù, quando il babbo Tiziano si recava a Paestum a vendere mestoli di legno. Emozionante e commovente. Nemmeno Silvietto arrivò a tanto, ma, come si usa dire, c'è sempre una prima volta. Manca solo di vederlo recitare l'Angelus al posto di Papa Bergoglio. Che Dio ci aiuti. 

Cleopatra, lunedì 30/10/2017       

domenica 29 ottobre 2017

PREVIEW






La songwriter australiana Bex Chilcott, al secolo meglio conosciuta con lo pseudonimo di Ruby Boots, ha suggellato il passaggio (per quanto riguarda il mercato americano e quello europeo) dalla Universal Music Australia all’etichetta di Chicago, la Bloodshot Records, con un nuovo disco. L’album, registrato preso i Modern Electric Sound Records di Dallas e prodotto da Beau Bedford, si intitolerà Don't Talk About It e sarà nei negozi a partire del 9 febbraio del prossimo anno. In rete, circola da qualche giorno il primo singolo singolo estratto, intitolato It’s So Cruel. Se il buongiorno si vede dal mattino, ne ascolteremo delle belle!





Blackswan, domenica 29/10/2017

sabato 28 ottobre 2017

PALE HONEY - DEVOTION (Bolero Recordings, 2017)

Dopo due anni dal loro esordio intitolato semplicemente Pale Honey (2015), il duo svedese di stanza a Goteborg torna nei negozi con il sophomore Devotion. Un disco senz’altro più coeso e omogeneo del suo predecessore, e che nasce sull’idea di raccontare il sentimento della devozione, non intesa sotto il profilo religioso e spirituale, ma come predisposizione a prendersi cura di sé stessi e degli altri, in questi tempi difficili per l’umanità. Un’idea di fondo, questa, che permea le dieci canzoni che compongono la scaletta del disco, dando un senso di completezza e di unitarietà (sia dal punto di vista delle liriche che dei suoni) che mancava del tutto al precedente lavoro. Se infatti il primo disco suonava più come una raccolta di canzoni assemblate per l’occasione, anche perché scritte dalle due ragazze ben prima di affacciarsi al mondo della musica professionista, per Devotion, invece, il metodo di lavoro è mutato radicalmente, e alcuni brani, per quanto buoni, sono state esclusi dalla scaletta proprio perché non in linea con il concept sotteso al progetto. E’ indubbio, quindi, che questo nuovo disco risulti ben più maturo del precedente e, soprattutto sui suoni, Nelly Daltrey e Tuva Lodmark hanno fatto un ottimo lavoro, riuscendo a creare atmosfere piene e avvolgenti a dispetto della scarna line up composta da chitarra e batteria. Tuttavia, alle Pale Honey sembra mancare una marcia in più, soprattutto rispetto ad alcuni gruppi al femminile che hanno intrapreso lo stesso percorso: non hanno la potenza di fuoco delle Savages, da cui si distinguono per un approccio alla composizione decisamente più pop, né possiedono la versatilità delle Warpaint, band con la quale il paragone sarebbe forse più immediato. Qualche buona canzone, tuttavia, non manca: le atmosfere lente e viscose di 777(Devotion, Pt.2), gli echi mancuniani alla Joy Division dell’iniziale Replace Me e la progressione per addizioni e sottrazioni (prevedibile, certo, ma efficace) di Someone’s Devotion riescono a centrare il bersaglio. L’impressione finale, però, è quella di un disco troppo legato ai suoi riferimenti stilistici, che vengono reiterati senza quello scarto di originalità tale da far spiccare il volo alla band. Un disco coeso e sincero, ma privo di audacia e freschezza.

VOTO: 6 





Blackswan, sabato 28/10/2017

venerdì 27 ottobre 2017

LUKAS NELSON - PROMISE OF THE REAL (Universal Fantasy, 2017)

Portare un nome importante è spesso l’anticamera per essere indicato come “il figlio di”, locuzione che sottende a sospetti di favoritismo o che ingenera, inevitabilmente, paragoni con il genitore più famoso. Lo sa bene Lukas, che di cognome fa Nelson e che ha come papà Willie, senatore del roots americano e pioniere, nonché massimo esponente, del movimento outlaw country. Un cognome ingombrante, dunque, che Lukas difficilmente potrà far passare in secondo piano, nonostante stia costruendosi con fatica (e passione) una carriera che l’ha portato a incidere fino ad oggi tre dischi solisti (questo è il quarto), che, in verità, non hanno suscitato particolare interesse e, soprattutto, con i suoi Promise Of The Real (oltre a Lukas, anche Anthony Logerfo alla batteria, Corey McCormick al basso, and Tato Melgar alle percussioni, Jesse Siebenberg alla steel guitar e Alberto Bof al piano) si è incaricato dell’arduo compito di sostituire i Crazy Horse nel ruolo di backup band di Neil Young (The Monsanto Years del 2015 e Earth del 2016). Un ruolo, questo, che, in combinato disposto con il pesante cognome, ha spinto questa nuova fatica discografica verso i piani alti delle classifiche americane, di cui ha raggiunto la seconda piazza. Per quanto Lukas si sforzi, e riesca spesso a spostare gli accenti della sua dizione verso il rock, è inevitabile che l’influsso di cotanto genitore si senta, non fosse altro che per quella voce che sembra quasi fotocopiata e per brani come If I Started Love, ad esempio, che sembrano essere usciti dal songbook del padre. Il disco, a parte inevitabili paragoni, suona, tuttavia, piacevole e vario: l’iniziale Sent Me Down On A Cloud è un’intensa ballata rock gospel, la giocosa Fool Me Once fa il verso a In The Summertime dei Mungo Jerry, Forget About Georgia (la risposta a Georgia On My Mind di Ray Charles) è una lunga ballata con una bella coda chitarristica e Runnin’ Shine, la migliore del lotto, azzecca una melodia uncinante che delizia le orecchie. Babbo Willie e la sorella Bobbie danno il proprio contributo alle atmosfere morbide di Just Outside Of Austin, mentre, udite udite, Lady Gaga (conosciuta sul set di A Star Is Born, per la regia di Bradley Cooper) omaggia l’amico Lukas con un contributo vocale (peraltro prescindibile) in Carolina e Find Yourself. A produrre John Alagia (produttore storico di John Mayer) e a completare la line up di musicisti la band indie pop newyorkese dei Lucius. Atmosfere vintage e un buon tasso di divertimento, per il miglior capitolo della discografia del “figlio di”.

VOTO: 6,5





Blackswan, venerdì 27/10/2017

giovedì 26 ottobre 2017

PREVIEW




A cinque anni di distanza da All We Love We Leave Behind, l’ultimo dei quali passato in tour con i Neurosis, è pronto il nuovo album dei Converge intitolato The Dust In Us. Il disco, disponibile il prossimo 3 novembre via Epitaph/Deathwish, è stato prodotto dalla band e mixato dal chitarrista Kurt Ballou. 13 le canzoni in scaletta tra le quali questa, violentissima, Under Duress che il cantante Jacob Bannon ha descritto come “una reazione emotiva al mondo complesso in cui viviamo”.





Porter Stout, giovedì 26/10/2017

mercoledì 25 ottobre 2017

PREVIEW




Ted Horowitz, il corpulento chitarrista meglio conosciuto al grande pubblico col nome di Popa Chubby, si appresta a pubblicare un nuovo disco. L’album, initolato Two Dogs, uscirà in cd e in vinile, via earMUSIC, il 27 ottobre. La versione cd prevede anche delle bonus track live, tra cui una rilettura infuocata di Sympaty For The Devil dei Rolling Stones.





Blackswan, mercoledì 25/10/2017

martedì 24 ottobre 2017

MIRACULOUS MULE - TWO TONNE TESTIMONY (Bronzerat Records, 2017)

Poco conosciuti e apprezzati dalle nostre parti, ma con un discreto seguito di aficionados nel resto d’Europa (Francia Belgio, Olanda e Germania), i londinesi Miraculous Mule sono in circolazione dal 2011 e hanno all’attivo già quattro dischi in studio, compreso quello di cui stiamo scrivendo ora. Power trio, come quelli che andavano tanto in voga sul finire degli anni ’60, il combo britannico è stato fondato dal chitarrista e songwriter Michael J. Sheehy, già membro dei Dream City Film Club, band di culto degli anni ’90, dal batterista Ian Burns e dal cantante e bassista Patrick McCarthy. Quattro dischi, dicevamo, di cui gli ultimi due usciti via Bronzerat Records, la mitica etichetta dei Jon Spencer Blues Explotion, e una proposta musicale possente, priva di fronzoli, lontana anni luce dalle mode dello star system. I Miraculous Mule guidano una macchina da guerra dall’alto potenziale hard rock, accessoriata, però, con optionals blues, soul, gospel e con un tettuccio apribile vista space rock in chiave psichedelica. Potrebbero ricordare in qualche modo gli americani Radio Moscow o i Rival Sons, se non fosse che la loro proposta è meno monolitica, più varia, con linee melodiche più definite e minor attenzione passatista al classic rock. Ascoltate, ad esempio, Sound Of The Summer, il primo singolo tratto dal disco, un r’n’b scorticato da un basso e da una chitarra distortissimi, ma con un ritornello uncinante dall’alto appeal radiofonico. Il mood del disco, pur mantenendo una solida coerenza di intenti, varia, quindi, di canzone in canzone: l’incipit Holy Fever, con quel basso pompato e distorto, è un cazzotto sullo zigomo tirato con ferocia quasi punk, lo sferragliante interplay fra basso e chitarra fanno di Shave ‘Em Dry un hard funky dagli echi hendrixiani, il passo monolitico di Where Monsters Lead è una chiamata alle armi contro le politiche di destra americane e inglesi (Trump e Farage nel mirino), The Fear è un gospel maciullato da tenaglie psych rock, We Now About Cha, con le sue ruvide accelerazioni, riporta in vita i Motorhead del compianto Lemmy, mentre la chiosa di Blues Uzi (Reprisal) sigilla sontuosamente la scaletta con quasi sette minuti che frullano cantato rap, gospel, psichedelia e sanguigno rock blues. Two Tonne Testimony è un disco viscerale, a tratti abrasivo, suonato con la manopola dei volumi e delle distorsioni posizionata sul massimo, ma in grado anche di soddisfare i palati che apprezzano qualche deviazione rispetto alle coordinate di genere. Un vero sollucchero per gli amanti del rock più duro.

VOTO: 7





Blackswan, martedì 24/10/2017