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lunedì 30 novembre 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO

 


Produci, consuma, crepa. Il brano invettiva dei CCCP mai come adesso suggella il contesto esistenziale in cui ci stiamo confusamente muovendo. È emblematica, per non dire grottesca, la dialettica politica di questi giorni. Dopo l’estenuante tenzone sul Ferragosto, i cui effetti si stanno pagando a suon di lockdown colorati, ora si palesa il delirio natalizio con annesse declinazioni, primi fra tutti lo shopping compulsivo e la liturgia dei pranzoni e cenoni da fare impallidire perfino Lucio Licinio Lucullo. Ma non illudiamoci: non sarà un liberi tutti, si affrettano a precisare i Soloni. Lo stesso refrain ai tempi delle demenziali giornate ferragostane con le discoteche aperte e assembramenti vari da nord a sud perché l’economia doveva ripartire. Sua Maestà l’Economia. 

Certo, il Natale è sempre Natale e anche se quest’anno dovrà essere rigorosamente sobrio con i parenti stretti (si spera), senza abbracci e baci, distanziati e mascherati, poco importa. La parola d’ordine è moderazione purché la festa si svolga all’insegna dello shopping, possibilmente sfrenato ecompulsivo. Il mantra non è più resistere, resistere, resistere, ma consumare, consumare, consumare. E in tutta questa farneticazione collettiva, qualcuno fra i Soloni (per intenderci i presidenti delle regioni del nord) tenta pure di alzare l’asticella con la proposta di riaprire gli impianti sciistici. Altrimenti i “cumenda” come festeggiano il Santo Stefano senza una puntatina a Courma? Tutto questo fastidioso e avvilente cicaleccio da giorni occupa le testate dei quotidiani e dei telegiornali senza soluzione di continuità. Nel mentre, gli ospedali scoppiano, i contagi e le vittime raggiungono numeri da fare tremare le vene ai polsi. Però, mo’ vene Natale, cantava Renato Carosone. 

Cleopatra, lunedì 30/11/2020



venerdì 27 novembre 2020

THE PRETTY THINGS - BARE AS BONE - BRIGHT AS BLOOD (Madfish, 2020)

 


S.F.Sorrow, anno domini 1968, fu un disco rivoluzionario e seminale, il primo concept album della storia, scrivono i libri, in cui confluirono, con sguardo sul futuro, i suoni del decennio: psichedelia, trame lisergiche, intuizioni progressive, beat e rock. Un’opera geniale, complessa e affascinante, che ai tempi non ebbe alcun riscontro in termini di vendita e la cui grandezza venne compresa solo più tardi, quando ormai i Pretty Things avevano già espresso tutto il loro potenziale.

A volte, però, anche un solo disco può consegnare alla leggenda, esattamente come successe con S.F.Sorrow e quella band di culto, il cui nome era preso in prestito da una canzone di Bo Diddley, e la cui carriera, da quel momento in poi, non ebbe più picchi d’ispirazione degni di nota. Capitanato dal cantante Phil May e dal chitarrista Dick Taylor, il gruppo, infatti, uscì dagli anni ’60 provato da defezioni e fallimenti commerciali, e ha continuato a fare dischi con onestà e passione, senza più brillare, certo, ma mai deludendo completamente.

Oggi, Phil May non c’è più: malato da tempo, è deceduto il 15 maggio di quest’anno a seguito delle complicazioni di un’operazione all’anca, resasi necessaria per una brutta caduta dalla bicicletta. E’ riuscito, però, nell’impresa di lasciarci un ultimo disco, il più bello da tanti anni a questa parte, una sorta di testamento artistico, un saluto a quei fan che, nonostante il passare dei decenni, non hanno mai smesso di amare la musica della band britannica.

Siamo agli antipodi, però, del classico disco dei Prettty Things, perché Bare As Bone, Bright As Blood è interamente acustico, scarno, essenziale, composto esclusivamente di cover. Una sorta di American Recording britannico, un ultimo colpo di coda per sugellare una carriera durata più di cinquant’anni. In scaletta, infatti, troverete solo la chitarra di Taylor, acustica e slide, e la voce sofferente, calda e incredibilmente espressiva di May, che ricorda tantissimo quella del Johnny Cash al limitare della sua vita.  

Bare As Bone, Bright As Blood è un album polveroso, fragile eppure emotivamente potente, composto di canzoni che sanno toccare il cuore, che fanno vibrare l’anima, anche se è fisicamente palpabile il senso di precarietà, anche se la malattia e la morte sono dietro l’angolo, minacciose ed esiziali. Dodici canzoni che sanno di sconfitta e di resa, che sono attraversate dallo sgomento della definitività, che sono tremanti come foglie nel vento e caduche come i colori autunnali quando vengono inghiottiti da brume vaporose.

Non c’è un solo istante sprecato, in questo disco: ogni nota, ogni verso, ogni accordo sono decisivi perché ultimi, non più ripetibili. Resteranno a lungo nella memoria, però, il corpo ossuto ma ancora vitale di reinterpretazioni da brivido (Redemption Day di Sheryl Crow, Love In Vain di Robert Johnson, Ain’t No Grave di Claude Ely, per citarne solo alcune), e quel commiato finale, I’m Ready (Willie Dixon), che consegna la voce di Phil May all’eternità.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, venerdì 27/11/2020

giovedì 26 novembre 2020

SUZANNE VEGA - AN EVENING OF NEW YORK SONGS AND STORIES (Cooking Vynil, 2020)

 


Ebbi la fortuna di vedere Suzanne Vega dal vivo negli anni ’80, quando, giovanissima, venne a suonare all’Arena di Milano per presentare il suo celeberrimo Solitude Standing. Ricordo un concerto ricchissimo e coinvolgente, un piccolo gioiello di equilibrio e calore, di eleganza e sensibilità. Ricordo una musicista interessata all’essenziale, tesa solo a condividere la sua musica con il suo pubblico, a suonare bene, concentrata sulle note e le sfumature, per rendere al meglio quelle piccole grandi canzoni, alcune delle quali, oggi sono patrimonio universale di tutti gli appassionati.

Decenni fa, un’altra era. Anni in cui, questo folk rock, intimista ma dal linguaggio universale, scalava le classifiche di mezzo mondo, conquistava plausi ovunque, e vendeva più di qualsiasi altra musica del momento (l’anno dopo, per dire, esplose il fenomeno Tracy Chapman, quella piccola e fragile ragazzina che, armata solo di chitarra, cantava di reietti e rivoluzioni).

Oggi i tempi sono cambiati, Suzanne Vega è quasi sessantenne e le sue canzoni, pur restando patrimonio di un folto gruppo di appassionati, non scalano più le classifiche. Lei, però, non è cambiata, ha sempre mantenuto fede al suo credo artistico, prendendosi anche il tempo per vivere la sua famiglia, continuando però a rilasciare dischi, forse non sempre ispiratissimi, ma di sicuro confezionati con alti standard di delicato artigianato.

Registrato al Cafè Carlyle di New York, agli inizi del 2019, An Evening Of New York Songs And Stories è una sorta di concept live dedicato alla Grande Mela, alla città in cui la Vega si trasferì da bambina e in cui è cresciuta. Un omaggio, dunque, che ci conduce per mano fra le strade della metropoli dalle mille contraddizioni, in un percorso affettuoso e nostalgico, che la songwriter tratteggia attraverso brevi racconti.

E poi c’è la musica, le canzoni, alcune famosissime, altre meno, suonate grazia anche al contributo di una band (il fido Gerry Leonard alla chitarra, Jeff Allen al basso e Jamie Edwards alle tastiere) perfetta per esaltare la trama delicata di canzoni appassionate e intense.

Suzanne dal vivo è esattamente come la ricordavo, dopo averla vista decenni fa: essenziale e coinvolgente. Esattamente come questo disco, per il quale si potrebbero spendere aggettivi altisonanti, visto che, dalla prima all’ultima canzone, è un continuo palpito, una continua emozione. E tra grandi e indimenticati classici (Luka, Marlene Is On The Wall, Tom’s Diner, Thin Man) spunta anche una cover minimale di Walk On The Wild Side di Lou Reed, tanto bella da lasciare senza fiato.

VOTO: 9 




Blackswan, giovedì 26/11/2020

mercoledì 25 novembre 2020

THE DRUGS DON'T WORK - THE VERVE (Hut, 1997)

 


Urban Hymns, terzo album in studio dei britannici Verve, è un capolavoro, lo sanno anche i sassi. Esce a fine settembre del 1997, in un momento in cui, in buona parte del mondo, imperversa quello che i libri di storia definiscono brit-pop. Alfieri del suono sono gli Oasis, i Blur, i Suede, i Pulp, oltre a uno stuolo di altre band meno famose (Strangelove, Travis, Embrace, etc), che contribuiscono, in egual modo, a dare linfa al fenomeno.

Il gruppo capitanato da Richard Ashcroft aveva già dimostrato di che pasta era fatto con il precedente A Norther Soul, una sorta di album preparatorio a Urban Hymns, contenente, comunque, alcune canzoni che non avevano nulla da invidiare al più celebre successore (Hystory, Life’s An Ocean, per citarne due).

Sono anni in cui la penna di Ashcroft, autore di quasi tutto il repertorio della band, sembra intinta in inchiostro divino, capace di levigare melodie destinate all’eternità. Basti pensare all’opener di Hurban Hymns, Bittersweet Symphony, che al netto delle beghe legali con gli Stones (per gli arrangiamenti d’archi che avvolgono sontuosamente il brano), si mangia le classifiche di mezzo mondo, viene inserito in colonne sonore di film, viene usato nella pubblicità e anche come sigla di programmi televisivi.

A prescindere da questa canzone immortale, però, Urban Hymns è tanto altro. Nelle tredici tracce in scaletta (più una fantasma, Deep Freeze) confluiscono, in un disegno armonico senza sbavature, tutti i suoni del decennio: pop, psichedelia, shoegazing, sventagliate rock, dolci arpeggi di chitarra e digressioni ambient. Tredici inni urbani che definisco uno stile e contornano definitivamente un suono, che solo due anni più tardi cesserà di rappresentare il fulcro della scena musicale mondiale, salvo essere, ma solo in parte, rivitalizzato da band “ritardatarie” come Coldplay e Starsailors.

Se Bittersweet Symphony è il brano trainante del disco, The Drugs Don’t Work, il secondo singolo estratto, arriva a rimorchio, rinvigorendo il successo commerciale dell’album. La canzone è una ballata malinconica ai limiti della mestizia, un intreccio morbidissimo di chitarre e tastiere, su cui la voce di Ashcroft canta quello che, probabilmente, è il suo testo più autobiografico e sentito.

Il brano, infatti, venne composto all’inizio del 1995 (e poi, suonato più volte durante il tour di A Northern Soul) in un periodo in cui il cantante era in preda ad angoscia e depressione, e viveva male i rapporti all’interno della band. Per combattere l’inquietudine che lo divorava, Ashcroft faceva, quindi uso di droghe, ecstasy soprattutto, e farmaci antidepressivi come il prozac. Ciò nonostante, la situazione non sembrava migliorare, anzi. Ecco, dunque il perché del titolo, “le droghe non funzionano”.

Non solo. Il leader dei Verve ampliò il significato della canzone, dedicando parte del testo al padre malato, il quale per curarsi assumeva molti farmaci, che, però, non riuscirono a salvargli la vita. In quel verso toccante, “Now the drugs don't work They just make you worse But I know I'll see your face again”, è racchiuso il senso più intimo della canzone: la constatazione che le droghe e le cure non sempre aiutano a migliorare la vita, perchè se il destino è segnato, nulla potrà interromperne il cammino, e poi la speranza, una sorta d’invocazione con gli occhi rivolti al cielo, che si, (papà), un giorno rivedrò la tua faccia.

Originariamente, il verso “They Just Make You Worse” era stato concepito come “They Just Make Me Worse”; poi, Ashcroft, allo scopo di universalizzare il messaggio e consentire a tutti di dare una loro interpretazione alla canzone, sostituì "mi" con "vi", stemperando almeno un po' il significato fortemente autobiografico del testo. Non è un caso, dunque, che, essendo stato il singolo pubblicato il giorno dopo la morte della Principessa Diana, quella canzone, così triste, e quel verso, “I’ll See Your Face Again”, coagularono in note il lutto profondo e lo sgomento, che l’Inghilterra stava vivendo in quei giorni funesti.  




Blackswan, mercoledì 25/11/2020

martedì 24 novembre 2020

AC/DC - POWER UP (Sony Music, 2020

 


Alla fine, quando forse anche il più ottimista dei fan non avrebbe scommesso un centesimo, il nuovo disco degli Ac/Dc è arrivato. Prima rumors, poi, voci sempre più insistenti, infine, il primo singolo, un imponente battage pubblicitario, e quindi, il 13 novembre, la pubblicazione di Power Up, diciassettesimo album in studio.

Data da molti per morta e sepolta, la band australiana, evidentemente immarcescibile e tetragona a ogni avversità, è riuscita nuovamente a stupire il proprio pubblico, nonostante le infinite traversie vissute dalla pubblicazione del penultimo, Rock Or Bust (2014). La morte di Malcom Young (sostituito dal nipote Stevie Young, ma comunque coautore dei brani in scaletta), i problemi con la giustizia di Phil Rudd e quelli con l’udito di Brian Johnson, l’abbandono di Cliff Williams (fortunatamente rientrato all’ovile), niente di tutto ciò ha impedito a una delle più devastanti macchine da guerra del rock’n’roll di tornare a comporre e a registrare.

Per parlare di questo nuovo Power Up, occorre, però, fare una necessaria premessa, che è poi la chiave di lettura per comprendere il senso di una carriera: qualunque cosa facciano gli Ac/Dc, il polverone mediatico è pazzesco, l’entusiasmo dei fan debordante. E la domanda, soprattutto alla luce di una carriera che dura da oltre quarantacinque anni e dell’età anagrafica dei componenti della band (tutti tra i sessantacinque e i settant’anni), è una sola: perché?

Artisticamente, questo nuovo Power Up è, come molti suoi predecessori, irrilevante. Se il sound della band australiana è stato incontestabilmente seminale, ispirando schiere di band che ne hanno raccolto l’eredità, i tempi in cui il loro hard rock suonava come una novità, forgiando album ispirati e votati alla leggenda, è passato da un bel po’.

Il gruppo capitanato da Angus Young, inutile girarci intorno, è uno dei più conservatori e tradizionalisti di sempre. Insensibili alle mode, alla tecnologia e al tempo che passa, gli Ac/Dc fanno da quasi cinquant’anni sempre lo stesso disco, a volte bene, altre male, altre così così. Power Up non tradisce l’assunto e in scaletta c’è esattamente tutto quello che ci si può aspettare dalla band di Highway To Hell: i soliti riff, gli stessi assolo adrenalinici, i consueti cori di rinforzo, la medesima possente sezione ritmica che martella in 4/4, l’inconfondibile ugola di Brian Johnson (che sembra, peraltro, non aver perso l’antico smalto).

La scaletta del disco, pur nella sua rigorosa coerenza stilistica, tirata a lucido dalla produzione pulita di Brendan O’Brien, procede altalenante, fra qualche colpo a vuoto (la mediocre Realize, la piaciona Through The Mist Of Time) e violente accelerazioni al fulmicotone che arrivano esattamente dove si sono prefissate di arrivare (Demon Fire, Shot In The Dark, Code Red), senza, però, che il tiro complessivo perda la sua forza d’impatto.

Insomma, headbagging e piedino che sbatte inesausto per terra sono garantiti. Niente di nuovo sul fronte occidentale, dunque, niente che non abbiamo già ascoltato tutte le volte che abbiamo messo sul piatto un album della band. E allora, perché noi, giovani e vecchi rocker, continuiamo a eccitarti ogni volta che vediamo quel logo e non possiamo fare a meno di comprare un disco degli Ac/Dc?

Una domanda a cui non esiste risposta, se la si cerca con la ragione. Col cuore, però, in modo confuso, possiamo dirlo. Possiamo dire che in queste canzoni, per quanto prevedibili, esiste ancora la forza primigenia del rock ‘n’roll, che è semplicità e urgenza. Possiamo dire che questo lato selvaggio, questo tirare dritto contro il vento che schiaffeggia la faccia, questo indomita baldanza che picchia, da mezzo secolo, con la stessa febbrile emozione, asseconda l’animo ribelle dei giovani e riporta i vecchi fan ai ricordi di gioventù. Questo rock è un rito che si rinnova, una fede che unisce, un anelito di ribellione, la condivisione di valori musicali autentici in un mondo che tende inesorabilmente all’artificio e alla massificazione delle emozioni.

C’è un vincolo indissolubile che lega gli Ac/Dc ai loro fan, e si chiama fiducia. Se continuate a crederci voi, lo faremo anche noi. Loro ci credono. Fanno sempre lo stesso disco, ma continuano a crederci. Da parte nostra, non resta altro che imbracciare la fiammeggiante air guitar e riffare gagliardi nel salotto di casa, fino a quando la cervicale regge.

It’s only rock ‘n’ roll, cantava qualcuno, ed il bello è proprio questo.

PS: dimenticavo il voto. Il critico dice 6, il fan 8. In medio stat virtus.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, martedì 24/11/2020

lunedì 23 novembre 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO

 


 

Stiamo vivendo un mondo che non va per niente bene. I potenti padroni del pianeta hanno dichiarato guerra a se stessi, non importa cosa è accaduto, non basta, vogliono terrorizzare il mondo ancor di più, mari, Monti, regioni, stati...Il popolo ha paura, teme la fine di un mondo a loro perfetto così come l’hanno conosciuto, non vogliono tapparsi la bocca con mascherine da Pecos Bill...Forse è tempo che ritorni il Salvatore dei mondi, si’ Lui...il supremo, nostro Signore che si manifesti in qualsiasi forma atta a combattere la malasorte...” (Massimo Boldi)

L’intemerata social dal sapore messianico del Cipollino Boldi può indurre perfino un senso di commiserazione. In un momento di pandemenza dove persino Lele Mora (toh, chi si rivede) assolda nella sua scuderia, con tanto di contratto di rappresentanza, una sciura palermitana che ripete a nastro su Instagram  “non ce n’è di coviddi” aggiudicandosi followers e likes a pioggia, il Cipollino nazionale con la sua invettiva dantesca quasi giganteggia. Lo dico con sarcasmo, si intende. 
Ma perché Boldi torna alla ribalta? Non certo per i suoi film di derivazione avanguardista, ma nientemeno in veste di testimonial per la Regione Lombardia. Dopo avere teorizzato complotti e strizzato l’occhio al negazionismo (ora Cipollino si corregge definendosi “scettico”), la regione motore d’Italia guidata dall’ “ottimo” Attilio Fontana si affida all’attore dei cinepanettoni per uno spot sui fondi in favore delle categorie escluse dai ristori sociali al monito di:” Ciao cipollini lombardi, resistiamo. Vi voglio bene”. Se mi chiedessero di esprimere un desiderio, in questo momento chiederei di vivere in un mondo normale. La normalità purtroppo pare sia diventata un’isola che non c’è, la stessa che canta Edoardo Bennato: “e a pensarci, che pazzia.  È una favola, è solo fantasia. E chi è saggio, chi è maturo lo sa. Non può esistere nella realtà”.

Cleopatra, lunedì 23/11/2020



venerdì 20 novembre 2020

PREVIEW

 


Alice Cooper annuncia oggi il nuovo album Detroit Stories in uscita il 26 febbraio su earMUSIC. Il primo assaggio di musica è arrivato venerdì 13 con il primo singolo “Rock ‘n’ Roll” disponibile ovunque.

Chiamato come la città che lanciò la band di Alice CooperDetroit Stories segue l’EP dell’anno scorso Breadcrumbs, ed è un omaggio alla scena Rock n Roll più tosta e pazza di sempre.

Nel 1970 il produttore alle prime armi Bob Ezrin andò in una fattoria nei sobborghi di Detroit per lavorare con la band Alice Cooper. Abbandonata la Los Angeles del flower power ricca di ideali di pace e amore lontani dalla loro identità, Alice portò la sua gang oscura nella sua città natale permeata da una scena rock leggendaria che diede vita all’hard rock, al garage rock, al soul, al funk, al punk...e molto altro.

Ezrin allenò la band per 10 ore al giorno al fine di definirne il sound distintivo. Ogni volta che eseguivano alla perfezione un brano, i detenuti dell’ospedale criminale psichiatrico applaudivano divertiti. Fu così che nacque il classico sound Alice Cooper.

Detroit era il centro della scena Heavy Rock in quel periodo,” spiega Alice, “All’Eastown si esibivano Alice Cooper, Ted Nugent, gli Stooges e gli Who per per 4 dollari! Il weekend successivo al Grande beccavi MC5, Brownsville Station e Fleetwood Mac, o Savoy Brown e Small Faces. Non potevi fare soft-rock altrimenti ti avrebbero preso a calci.”

Los Angeles aveva il suo sound con The Doors, Love e Buffalo Springfield,” continua, “San Francisco aveva Greatful Dead e Jefferson Airplane. A New York c’erano The Rascals e The Velvet Underground. Ma Detroit era la città natale dell’hard rock arrabbiato. Non c’era  posto negli Stati Uniti di cui sentirsi parte (sia musicalmente che dal punto di vista dell’immagine), Detroit era l’unico luogo che riconobbe il tipico sound hard rock e i nostri spettacoli folli dal vivo. Detroit era un porto sicuro per gli emarginati...eravamo a casa.”

50 anni dopo Alice e Ezrin hanno radunato un gruppo di musicisti leggendari di Detroit in uno studio della città per registrare Detroit Stories, il nuovo album di Alice Cooper che celebra quello spirito per una nuova era. Se Breadcrumbs del 2019 iniziava a tracciare il sentiero per la città, Detroit Stories guida come una muscle car per Woodward Ave.

Abbiamo registrato l’album in compagnia di Wayne Kramer (chitarrista e cantautore dei MC5), Johnny “Bee” Badanjek (batterista dei leggendari Detroit Wheels), Paul Randolph (leggendario bassista della scan jazz e R&B di Detroit), Motor City Horns e altri musicisti del posto,” spiega Ezrin. “John Varvatos ci ha incoraggiato con idee musicali. Abbiamo registrato al Rustbelt Studios di Royal Oak. L’album è stato fatto a Detroit, per Detroit, dagli abitanti di Detroit!”

Detroit Stories è disponibile su CD, CD+DVD Digipak, CD Box Set (che include CD, Blu-ray, T-shirt, una mascherina, una torcia e 3 sticker), e doppio vinile Gatefold dal 26 febbraio su earMUSIC.

Il DVD e il Blu-ray mostrano l’incredibile live performance “A Paranormal Evening At The Olympia Paris” per la prima volta su video. Con l’intera scena live ferma a causa del covid-19, Alice Cooper ha sentito il bisogno di condividere i suoi ultimi spettacoli con i fan, sperando di poter tornare presto in tour.

 


 

 

Blackswan, venerdì 20/11/2020

giovedì 19 novembre 2020

SONGHOY BLUES - OPTIMISME (Fat Possum Records, 2020)

 


Il vento del deserto ha portato fino alle nostre orecchie occidentali il suggestivo e polveroso blues di realtà straordinarie come quelle di Tinariwen e Tamikrest, band apripista di un movimento che ormai da un lustro annovera fra le sue fila anche i Songhoy Blues.

Anche loro arrivano dal Mali, e per la precisione da Timbuktu, ma in realtà si sono formati a Bamako, perché costretti a scappare dalla loro città a causa della guerra civile e dell’imposizione della sharia. La storia, dunque, è simile a quasi tutte le band provenienti da quei territori flagellati, una storia di fuga e di paura, di resistenza attraverso la forza universale della musica, una sorta di carboneria in note, che ha dato speranza a tanti che si sono visti privare delle libertà più elementari.

Una musica, quella di queste band, che ha il senso di una rinascita, che possiede la forza di un riscatto, e che è intrinsecamente politica perché, a prescindere dalle liriche, veicola verso i paesi occidentali un grido d’aiuto, che chiede con forza non solo apprezzamento artistico ma anche attenzione mediatica verso una cronaca spesso e volentieri dimenticata.

Già due dischi all’attivo, i cui titoli esplicitano molto bene quanto sopra affermato, Music In Exile (2015) e Résistance (2017), la partecipazione a diversi festival in giro per l’Europa e l’America, che ne hanno consolidato la fama, e ora un terzo disco, questo Optimisme, che conferma quanto di buono fatto dal quartetto finora.

I Songhoy Blues, però, pur esibendo con orgoglio le proprie radici ed evocando le sonorità tradizionali della propria terra, forgiano undici canzoni affamate di grinta e di rock: non il blues fascinoso ed elusivo dei Tinariwen, non quelle sonorità che evocano accecanti stellate e fuochi berberi nella notte del deserto, ma un tiro più diretto, gagliardo, trafitto da un impeto chitarristico che sembra nascere da bassofondi metropolitani e non dalla contemplazione di suggestivi spazi aperti.

Ci sono sentori d’Africa, certo, ma c’è anche il rock blues plasmato dagli occidentali, c’è l’urgenza espressiva che spinge verso minutaggi quasi punk, con canzoni che al massimo superano di poco i tre minuti, c’è un fremente impeto che sostituisce l’affabulazione di trame ipnotiche.

Così, quando parte l’opener Badala, una sventagliata di elettricità urticante e nervosa, sembra quasi di immergersi in territori hard garage alla Hellacopters, tanto per fare una citazione volante; e non sono da meno altre dardeggianti derapate come Worry, intersecata dai fendenti letali di una chitarra in acido, o Assadja, sconquassata dalle extrasistole di un drumming ansiogeno.

Solo trentacinque minuti di durata per un filotto di canzoni che arrivano alle orecchie vigorose, fiere e appassionate (solo nella conclusiva Kouma viene tirato il freno a mano), e che forse hanno come limite solo quello di girare intorno alla stessa idea di riff, riuscitissimi e accattivanti, ma reiterati in loop su ritmiche saltellanti. Il pelo nell’uovo di un disco vibrante, che si gode dalla prima all’ultima canzone.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, giovedì 19/11/2020

 

mercoledì 18 novembre 2020

SANDMAN - AMERICA (Warner, 1971)

 


Quello degli America è un nome che viene spesso bistrattato ben oltre i demeriti della band. Che si, è vero, è sempre stata incline a melodie zuccherine e ad ammiccamenti pop, e che si, è vero anche questo, in carriera, già a partire dalla seconda metà degli anni ’70, non è più stata in grado di replicare il livello d’ispirazione di inizio decennio. Spesso, però, ci si dimentica che i primi due album della band composta da Dewey Bunnell, Gerry Beckley e Dan Peek sono autentici gioiellini del suono West Coast, contengono canzoni a dir poco memorabili (A Horse With No Name, per citarne una tratta dall’esordio), splendidi intrecci vocali, melodie di facile presa e sonorità deliziosamente acustiche. Il primo disco, soprattutto, è un fulmine a ciel sereno: trainato dalla citata A Horse With No Name, l’album arriva al primo posto sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.

In una scaletta di brani straordinari (tra i quali spicca un’altra hit da top ten, la romantica I Need You), viene inserita anche una canzone dalle tinte cupe, un brano vibrante, complesso e oscuro, attraversato da un’inaspettata tensione drammatica. Quella canzone s’intitola Sandman, è scritta e cantata da Dewey Bunnell, e non fu mai pubblicata come singolo. Una canzone che, pur allineandosi allo stile inconfondibile della band, non contiene zuccheri né parole d’amore, ma parla di Vietnam, di morte e di paura.

I tre membri degli America, infatti, erano figli di membri del servizio militare americano di stanza in Inghilterra e spesso avevano l’occasione di intrattenersi con soldati di ritorno dalle zone di guerra, che erano stati, quindi, in Vietman e avevano combattuto quella terribile guerra lontano da casa. Bunnell scrisse Sandman proprio ispirandosi ai racconti di alcuni reduci, che nelle lunghe notti in prima linea, erano tutti terrorizzati da una delle cose più piacevoli al mondo, cioè dormire.

Il terrore di attacchi nel cuore della notte, spingeva, infatti, i soldati a fare uso di droghe per restare svegli: avevano paura di dormire, paura del sonno, che chiamavano “sandman”, e che poteva significare morte, nel caso di un improvviso blitz del nemico (I understand you've been running from the man That goes by the name of the Sandman, canta Bunnell nella canzone).

Come spesso succede, però, il brano fu oggetto anche di altre interpretazioni. Gli amanti dei fumetti hanno voluto vedere come protagonista del pezzo degli America il personaggio dei fumetti creato dalla DC Comics, che in realtà uscì nel 1974, anche se ispirato a un fumetto per bambini, che fece la sua prima apparizione nel 1947. Altri, invece, dal momento che gli America erano tutti figli di militari, ritengono che la canzone fosse un omaggio allo squadrone aereo VQ-2 della Marina degli Stati Uniti, che ai tempi aveva la sua base a Rota, in Spagna.

Quale che sia la verità, Sandman resta una canzone bellissima e niente affatto accomodante, ben lontana, quindi, dall’immagine negativa che spesso, aprioristicamente, si vuole dare alla musica del terzetto.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 18/11/2020

martedì 17 novembre 2020

SHEMEKIA COPELAND - UNCIVIL WAR (Alligator,2020)

 


Avevamo lasciato Shemekia Copeland due anni fa, all’uscita del bellissimo e militante America’s Child, album che successivamente le è valso la nomina a Living Blues Female Artist Of The Year. Dal 2018 a oggi, le cose non sono migliorate, anzi: non solo la pandemia, ma la cronaca quotidiana di un’America flagellata da scontri razziali e violenze gratuite della polizia nei confronti di gente di colore. La Copeland, che non ha mai fatto mistero delle proprie posizioni anti Trump, rimette in piedi la struttura che ci aveva fatto amare alla follia l’album precedente: testi diretti e inequivocabili, appassionata militanza, e uno straordinario bagaglio blues, riletto con impeto rock, con quella voce straordinaria capace di stenderti al primo colpo, e con la consapevolezza filologica di chi ama e conosce a fondo le proprie radici.

Uncivil War, dunque, riprende il filo del discorso esattamente dove si era interrotto con America’s Child del 2018, anche a livello di ospitate, visto che questo nuovo lavoro vede la presenza in scaletta di artisti del calibro Jason Isbell, Steve Cropper, Christone “Kingfish” Ingram, Webb Wilder, Duane Eddy, il mandolinista Sam Bush, il dobro di Jerry Douglas e i cori degli Orphan Brigade. La Copeland, come dicevamo poco sopra, continua a esprimere uno stile unico e un suono distintivo, che guarda alle radici (lei è la figlia del grande blues del Texas Johnny Copeland), e che trae ispirazione da molte influenze blues, provenienti dal sud degli States, anche se poi, l’impianto politico e sociologico delle liriche è clamorosamente nordista.

Questa dicotomia suono/testi si avverte molte volte nel corso dell'album, e l'esempio lampante arriva dalla splendida cover di Under My Thumb dei Rolling Stones. L'originale degli Stones è un brano machista che invita a tenere a freno una donna. È grande musica, ma veicola un messaggio frusto e sessista, che appartiene a un’altra epoca. La Copeland, invece, capovolge tutto, compresi i pronomi, in modo che la canzone parli di una donna di colore che supera l'oppressione, ribaltando la situazione in un modo che, oggi, risulta non solo politicamente corretto, ma anche più appropriato rispetto alla nostra visione della società.

Il blues è il perno prevalente su cui ruotano tutte le canzoni del disco (anche se poi ogni brano acquisisce sfumature diverse): Clotilda’s On Fire, canzone che racconta un fatto storico vero e ed è chiara presa di posizione contro il razzismo, vede la presenza alla chitarra di Jason Isbell, che concede una serie di assoli arroventati e dal sapore antico, Apple Pie and a .45 sfodera un’incredibile energia che frulla rock, blues e alt country, mentre il chitarrista blues di Wunderkind Christone "Kingfish" Ingram strapazza la sua sei corde, soffiando drammaticità e tensione nel graffiante rock blues di Money Makes You Ugly.

La Copeland, però, sa muoversi con straordinaria armonia anche nelle spirituali acque del gospel, attraverso l’appassionata Walk Until I Ride e la morbida title track, con Jerry Douglas ospite alla resofonica.

Produce il disco il cantante, compositore e chitarrista Will Kimbrough, e credo ci si debba levare tanto di cappello di fronte allo straordinario lavoro fatto dietro la consolle: qui ci sono brani tirati e ballate, c’è impeto e melodia, ci sono diversi generi che convivono, eppure la coerenza nei suoni è eccezionale. Merito anche della Copeland, la cui voce straordinaria si mette al servizio delle canzoni, cogliendone alla perfezione l’anima, il significato e l’essenza. Se avete amato America’s Child, troverete in questo nuovo Uncivil War ulteriori motivi per godere, dato che il disco, oltre a essere splendido, suona già come un instant classic di genere.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, martedì 17/11/2020

lunedì 16 novembre 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO

 


Cialtroni si nasce. E Cotticelli modestamente lo nacque.
Saverio Cotticelli, commissario alla Sanità della Calabria, nel corso di una surreale intervista, di fronte all’incalzare delle domande del giornalista della trasmissione “Titolo V” su chi sia competente in tema di Covid in regione, scopre in quel momento di essere stato investito dal governo anche del programma operativo per la gestione dell’emergenza sanitaria. 

Lo stralunato commissario, colto con il sorcio in bocca, legge l’atto ritrovato nell’archivio come se fosse caduto dal pero. “Sono io”, ammette stupefatto. Avendo realizzato di trovarsi nella palta, cerca maldestramente di correggere il tiro: “La prossima settimana è pronto”. Ma il circo non è finito. Due giorni dopo, il coupe de theatre: il cottarello Cotticelli con gli occhi sbarrati dichiara in un’altra intervista: “Non ero io. Non so in quel momento cosa mi sia successo. Sembrava la mia controfigura...Ero in uno stato confusionale su cui sto indagando...Poi ho vomitato e passato una notte terribile...Non lo so se mi hanno drogato, non ero lucido”. Il povero Cottarelli viene rimosso con effetto immediato dal Premier ma subentra un altro gigante della farsa, tal Giuseppe Zuccatelli. Pare di assistere a una staffetta tra cialtroni. 

Ebbene, il neo eletto addirittura già a maggio, quindi in piena pandemia, dispensava perle di saggezza alla faccia dei Crisanti e dei Galli:”Ve lo dico in inglese stretto: le mascherine non servono a un cazzo!”. Verrebbe da ridere se non fosse che stiamo vivendo una tragedia epocale. Personaggi macchiettistici come questi dovrebbero essere destinati al varietà di bassa lega, ai b movie per capirci. Senza dubbio non meritano neppure di zappare, arte peraltro nobilissima per gente di tal fatta. Individui come lor signori, inadeguati persino a fare un cerchio con un bicchiere, oltraggiano il merito, la competenza di chi è realmente capace. Il Covid come ho già scritto finirà prima o poi, ma fino a quando la meritocrazia sarà svilita, mortificata e vilipesa, per il virus della cialtroneria non saranno sufficienti neppure gli anticorpi.

Cleopatra, lunedì 16/11/2020

venerdì 13 novembre 2020

ACE OF CUPS - SING YOUR DREAMS (High Moon Records, 2020)

 


In queste righe, troverete una recensione, ma troverete anche una storia, di quelle che vi faranno esclamare: “ma pensa te!”. E’ la storia di Mary Gannon (basso), Marla Hunt (organo, pianoforte), Denise Kaufman (chitarra, armonica), Mary Ellen Simpson (chitarra solista) e Diane Vitalich (batteria), ovvero le Ace Of Cups, probabilmente la prima rock band tutta al femminile della storia. Siamo nel 1967, in piena Summer Of Love era, e siamo a San Francisco, che in quegli anni è l’ombelico del mondo musicale, crogiolo di fricchetoni e visionari, terra dell’amore libero e di passioni antimilitariste, avamposto di nuove droghe e della novelle vauge del rock, che vede in band come Jefferson Airplane e Grateful Dead i suoi alfieri.

A Frisco, arrivano, quasi tutte dalla California, cinque ragazze che hanno già fatto un po' di gavetta (la Simpson, addirittura, aveva suonato una volta con Bill Haley And The Comets) e hanno in testa il sogno di creare una band che faccia rima con donna. Esordiscono nella primavera del 1967 e, già a fine giugno, Jimi Hendrix le vuole sul palco ad aprire un suo concerto, perché stravede per la furia debordante con cui la Simpson suona la chitarra ed è ammaliato dal groove che le ragazze esprimono dal vivo.

Nella Bay Area, in poco tempo, le Ace Of Cups diventano vere e proprie icone, suonano ovunque, diventano le band di casa del Matrix e aprono concerti a molti colleghi che in quegli anni fanno sfracelli. Hanno lo stesso manager dei Quicksilver Messenger Service, Ron Polte, il quale rifiuta vari contrati discografici, perché ritenuti non all’altezza della bravura delle ragazze; le quali, peraltro, alla sola idea di partire per un tour che le allontani da casa, fanno retromarcia davanti a qualsiasi proposta (all'Altamont Speedway Free Festival la Kaufman, divenuta moglie del sassofonista Noel Jewkes, di cui era incinta, fu colpita alla testa da una lattina di birra piena lanciata dagli Hell's Angels e fu operata d'urgenza per rimuovere un pezzo di osso che le aveva lesionato l'occhio).

L’ostinazione a non voler sottoscrivere contratti, però, non paga e porta, quindi, a inizio degli anni ’70 allo scioglimento della band, le cui componenti spariscono dalla circolazione per quarant’anni, salvo poi tornare a fare musica dopo il 2010 e a pubblicare finalmente il primo omonimo album in studio, che vede la luce il 9 novembre del 2018.

Evidentemente, le ragazze, che oggi sono delle arzille vecchiette che hanno superato la settantina, ci hanno preso gusto, e questo Sing Your Dreams è il nuovo capitolo di un’avventura musicale a scoppio ritardato. Ora, immagino che qualcuno di voi sia perplesso e tema di trovarsi di fronte un album buono come sottofondo per l’area ricreativa di un ospizio di provincia. Un cazzo. Le cinque anzianette stanno sul pezzo con un vigore che farebbe invidia a un ventenne.

Certo, questa musica è clamorosamente vintage, si porta dietro il suono e le atmosfere dei giorni gloriosi della band; chi, però, si aspettasse una replica frusta di cose morte e sepolte, sarebbe completamente fuori strada. Sing Your Dreams è un lavoro vario, e quando dico vario intendo che abbraccia generi diversi, e divertentissimo, tanto che si ascolta più volte con rinnovata piacevolezza. Perché, lo si coglie da subito, è palpabile la voglia di recuperare il tempo perduto e di fare grande musica.

Dressed in Black apre il disco con piglio funky blues e si capisce cosa provasse Hendrix ascoltando il groove e il tiro delle Ace of Cups. Jai Ma gioca con ritmi caraibici e schiera come ospiti Sheila E., Steve Kimock (Grateful Dead) e la Escovedo Family, Put A Woman In Charge è un rockettone cazzuto alla Joan Jett, Sister Ruth una splendida ballata americana con Jack Casady (Jefferson Airplaine) al basso, Basic Human Needs è morbida psichedelia dagli accenti africani, Boy, What ‘ll You Do Then possiede un tiro garage inaspettato, Little White Lies è uno sculettante r’n’b, mentre la suntuosa ballata Slowest River/Made For Love sigilla la scaletta tra profumi west coast e con le voci di Jackson Browne, Bob Weir (Grateful Dead) e David Freiberg (Quicksilver Messenger Service), presenti come ospiti. Una corale nostalgica in ricordo dei bei tempi andati, che chiosa un album dal sapore antico e al contempo fresco di indomita passione.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, venerdì 13/11/2020

mercoledì 11 novembre 2020

CREED - HUMAN CLAY (Wind-Up Records, 1999)

 


Che il nome dei Creed abbia preso un po' di polvere negli ultimi dieci anni è un’evidenza incontrovertibile; eppure, nel momento di massimo fulgore, a cui si riferisce questo Human Clay, secondo album datato 1999, la band originaria di Tallahassee (Florida) aveva numeri di vendita da capogiro. Un po’ per la capacità di inserirsi e sfruttare al meglio quel filone, definito post-grunge, che nella seconda metà dei ‘90 spopolava, e un po', a Cesare quel che è di Cesare, perché nel mare magnum di quella proposta derivativa e spesso ammorbata da clamorose aperture radiofoniche, la band capitanata da Mark Tremonti ha sempre tenuto dritta, per il breve periodo in cui è stata in vita, la barra della qualità e una fragorosa potenza di tiro.

D’altra parte, e non è una circostanza da poco, i Creed erano il frutto dell’unione di quattro musicisti di straordinaria caratura tecnica: il citato Mark Tremonti, uno dei migliori chitarristi al mondo (che poi darà vita agli Alter Bridge), forgiatore di tonitruanti riff dall’ anima corrazzata di nobile metallo, il cantante Scott Alan Stapp, voce ruvida e timbro luciferino, una vita in bilico fra estasi (patron della With Arms Wide Open Foundation, fondazione per la cura e la salvaguardia dei bambini) e tormento (i problemi legali, l’alcolismo, la sindrome bipolare, un tentativo  di suicidio), il bassista Brian Marshall, vera e propria macchina da guerra, che confluirà a sua volta negli Alter Bridge, e il batterista Scott Phillips (anche lui, successivamente, al seguito di Mark Tremonti negli AB) pirotecnico architetto di controtempi vertiginosi.

Human Clay, secondo disco della band americana, fu un clamoroso successo commerciale (bissato, peraltro, anche dal successivo Wheatered del 2001) ottenendo undici dischi di platino solo in America, facendone poi incetta anche in altri paesi, vendendo fino al 2010 più di dodici milioni di copie (è al cinquantaquattresimo posto dei dischi più venduti di sempre) e portando a casa un Grammy Award per la miglior canzone rock dell’anno per il secondo singolo, With Arms Wide Open.

Numeri impressionanti, per un disco che, come si diceva, surfa alla grande sull’onda lunga del post-grunge, ma lo fa con una qualità di scrittura e una perizia tecnica difficili da trovare fra band, che abitavano lo stesso condominio. Perché, è vero, i riferimenti stilistici al sound di Seattle sono palesi e immediatamente ravvisabili, ma la corazza metal che riveste la musica dei Creed alza l’asticella dell’imprevedibilità e anticipa un suono che avrà, poi, il suo definitivo completamento quando inizierà l’avventura Alter Bridge.

L’opener di Are You Ready? esplicita dichiarazione d’intenti, apre il disco mettendo proprio in chiaro che la rilettura del genere grunge non passa solo dalle radio, ma anche da un magma ribollente di tuoni e fulmini, distorsioni e riff di compattezza siderurgica. Che i Creed guardino a Seattle nessuno lo nega, anzi: Stapp possiede una voce assassina, ma quando l’ammorbidisce sembra il cugino di primo grado di Eddie Vedder, il singolone With Arms Wide Open potrebbe tranquillamente far parte del repertorio dei Pearl Jam (se non fosse per la melodia del ritornello accerchiata da invalicabili muri elettrici), e lo stesso si può dire della successiva Higher, mentre la cupa Never Die ruba, modificandola un po', l’apertura di Feel On Black Days dei Soundgarden.

Non c’è un calo di tensione, non un filler. Il disco spacca, come dicono oggi i giovani, dalla prima all’ultima nota: What If, aperta da un arpeggio di settantiana memoria, è una fucilata in faccia, Stapp che scartavetra ogni possibile accenno di melodia, Tremonti che furoreggia, sparando ad alzo zero riff pesi e distorti. Say I è un saliscendi ansiogeno tra potenza metal e inquietanti intermezzi dal sapore vagamente psichedelico, Wrong Way procede cupa e maligna dondolando sul drumming in controtempo di Phillips, mentre Beatiful, a dispetto del titolo, ringhia con ferocia attraverso il ritornello irruvidito dalla voce luciferina di Stapp.

Il momento migliore della band, però, finisce qui. Il successivo Wheatered fa il botto di vendite, ma la crisi è nell’aria e puzza di redde rationem: Stapp, che beve come una spugna, tanto da non reggersi in piedi, è un problema ingestibile, anche perché a seguito di un incidente, comincia a strafarsi antidolorifici, rendendo ardua la gestione dell’attività live. Così, nel 2004, dopo un anno sabbatico, la band si scioglie, salvo poi riunirsi per un nuovo album (Full Circle del 2009), dalla caratura artistica, purtroppo, assai modesta.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 11/11/2020

PREVIEW


 

Mogwai annunciano oggi il decimo album in studio As The Love Continues in uscita il 19 febbraio su Rock Action Records. L’album è disponibile per il pre-ordine in diversi formati: CD, doppio vinile, box set speciale che include il CD, il doppio vinile colorato, il vinile singolo speciale con cinque demo dell’album e un libro fotografico – di questo box set sarà disponibile anche la versione con solo il CD. L’album è stato registrato all’inizio dell’anno con il produttore Dave Fridmann e vede la collaborazione di Atticus Ross (nel brano “Midnight Flit”) e Colin Stetson (nel brano “Pat Stains”). As The Love Continues arriva a 25 anni dalla pubblicazione del singolo di debutto ‘Tuner’/’Lower’.

In origine As The Love Continues doveva essere registrato in America, ma la pandemia li obbligò a stabilirsi nel Worcestershire con il produttore Dave Fridmann dall’altra parte dell’oceano, apparendo come un oppressore orwelliano. Queste necessità legate alla pandemia divennero presto routine, e permisero loro di guadagnare tempo.

Impossibilitati ad esibirsi con il nuovo album, Stuart Braithwaite dei Mogwai spera che la musica riesca a portare l’ascoltatore in un luogo differente da quello in cui ci si trova “a meno che tu non sia in un posto bellissimo e allora perché stai ascoltando della musica così strana?”

Dry Fantasy” è il primo singolo tratto dall'album, un brano celestiale basato su un synth riverberante in loop, che raggiunge uno splendore surreale mentre chitarre e basso compaiono e scompaiono dal brano. “Dry Fantasy” è accompagnato da un video cosparso di immagini di fiori che sbocciano, il tutto immerso nell'atmosfera contorta di un pianeta lontano.

Mogwai sono andati avanti senza un piano sin dall'adolescenza, non ci sono mai stati degli incontri segreti per lavorare ad un progetto. È’ raro sentire di una band che va avanti da così tanto e con così tanti album all'attivo – dieci album e ancora nessuna delusione o svolte creative sbagliate.

Potresti sapere cosa aspettarti ma non avrai mai lo stesso risultato. Sia trascendente che inaspettato, As The Love Continues mostra una band che offre ancora conforto, fornendo la colonna sonora a qualsiasi film tu ti stia facendo in testa.

As The Love Continues è il seguito di Every Country’s Sun del 2017, il secondo album di fila dei Mogwai ad entrare nella Top 10, dopo Rave Tapes del 2014. Nel mentre la band ha pubblicato una retrospettiva sulla carriera intitolata Central Belters e ha collaborato con il regista Mark Cousins per la colonna sonora del documentario Atomic. Quest’anno hanno pubblicato la colonna sonora per la serie originale SkyZeroZeroZero, disponibile per la prima settimana esclusivamente su Bandcamp pagando quel che si può (PWYC), con la metà del ricavato destinato a Help Musicians e a NHS Charities.

 


 

 

Blackswan, giovedì 12/11/2020

martedì 10 novembre 2020

NOTHING BUT THIEVES - MORAL PANIC (Sony Music, 2020)

 


Moral Panic, a voler usare una formula un po' abusata, è quello che potremmo definire il disco della maturità dei Nothing But Thieves. Non che i precedenti fossero dischi prescindibili, per carità. L’omonimo esordio, datato 2015, tutto impeto e baldanza, presentava una band già consapevole dei propri mezzi che giocava con suoni noti (Muse, Radiohead, Arctic Monkeys), rinnovandoli con freschezza. E il sophomore, Brooken Machine (2017), a cui forse mancava l’effetto sorpresa del predecessore, ribadiva il concetto di un gruppo abile a plasmare con intelligenza una materia ben radicata nel panorama indie rock britannico. Moral Panic, in tal senso, compatta e, permettetemi l’alliterazione, definisce definitivamente uno stile, ponendo il marchio di fabbrica su undici canzoni che oggi possono dirsi solo ed esclusivamente dei Nothing But Thieves. Che continuano a citare, ovviamente, ammiccando a Killers e Muse, evocando a tratti atmosfere anni ’80, ma fondendo con personalità, in un frullato gustosissimo, pop, dance e rock, indie e mainstream, tastiere e chitarroni, melodia ed esondante energia.

Un disco, poi, che anche nelle parole del cantante e frontman, Conor Mason, ha avuto una genesi più consapevole e riflessiva: “Per la prima volta nella nostra carriera abbiamo avuto il tempo di sederci e scrivere un album, senza doverlo fare on the road. Il disco è stato quasi interamente composto prima che la pandemia arrivasse, ma ci rendevamo conto che stava per succedere qualcosa di grave e il disco in parte lo riflette, anche senza esserne stato direttamente ispirato”. Una tensione che si riflette sulle liriche dell’album, che pongono l’accento sulla difficoltà di vivere in questi giorni incasinati, non solo dal virus, ma dai cambiamenti climatici, dalle guerre e dal terrorismo, dall’invadenza e dall’ingerenza dei media e dei social.

Moral Panic, però, a dispetto di temi così alti e riflessioni il più delle volte amare, trasuda energia ed entusiasmo, e pompa dalle casse dello stereo con vertiginosa audacia. Qualche brano suona forse un po' prevedibile (il primo singolo Is Everybody Going Crazy? ad esempio, è abbastanza risaputo), ma la scaletta tiene alla grande e trasuda ispirazione e, quel che conta maggiormente, voglia di divertire e divertirsi.

L’opener Unperson deflagra come una bomba, up tempo da capogiro, chitarra aggressiva, melodia acchiappona e suono millesimato 2020, Real Love Song racconta d’amore e sentimenti in una cornice new wave molto anni ’80, Phobia, il brano dall’architettura più complessa, strizza l’occhio a Billie Eilish, ma vira improvvisamente in un fulminante crescendo hard rock, Impossible è una ballata da tenere con affetto tra le cose più emozionanti del 2020, There Was Sun è irresistibile gancio per il dancefloor, e Can You Afford To Be An Individual, a parere di chi scrive il miglior brano del lotto, possiede un tiro incredibile, è pervaso da tensione drammatica e mostra il lato più muscolare della band.

Moral Panic è dunque la prima tappa veramente importante di una carriera in crescendo, un disco coraggioso e graffiante, capace al contempo di far ballare, divertire e sedurre, con un piglio giovanilista che si rivela però, ascolto dopo ascolto, incredibilmente adulto e vincente. Bravi, bravi, bravi.

VOTO: 7,5 




Blackswan, martedì 10/11/2020

lunedì 9 novembre 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO

 


“Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid 19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate”. (Giovanni Toti)

Diceva Carlo Levi che le parole sono pietre. Per Toti si è trattato del solito discorso estrapolato da un concetto più ampio. Tradotto: un abominio estrapolato da un’altra scelleratezza più ampia.
Giovanni Toti è il governatore della Liguria, seconda regione più anziana d’Europa in base a recenti statistiche pubblicate da Eurostat. Ergo, seguendo l’ “illuminata argomentazione” di costui, la stragrande maggioranza dei cittadini liguri dovrebbe essere confinata nel proprio domicilio per poi buttare via la chiave. Come è ovvio, è divampata una polemica, spesso velatamente ipocrita, a cui è seguita una toppa peggiore del buco. Pare infatti che l’infelice affermazione twittate sia frutto di un errore marchiano del social media manager. Tutto risolto per Toti, dunque. Scaricare a un altro il peso di una nefandezza è la pratica sportiva prediletta da chi non ha il coraggio delle proprie azioni. Preferisco non soffermarmi sulla inconsapevolezza di Toti, ma piuttosto sul principio secondo il quale il valore sociale di una persona si misura in rapporto alla produttività. Vali se produci, se fai soldi, se fai guadagnare il tuo datore di lavoro: se non fai parte di questo processo diventi un vuoto a perdere, un inutile rifiuto da smaltire. Personaggi come Toti ne è pieno il mondo: chi più chi meno sotto mentite spoglie la pensa allo stesso modo, perfino chi si è proclamato alfiere nella difesa dei più deboli. La verità è che viviamo in un mondo pervaso da logiche neoliberiste in cui il culto del profitto e della ricchezza ostentata considera le persone fragili come palle al piede. E di questa deriva morale Toti è l’interprete più emblematico.

Cleopatra, lunedì 09/11/2020

venerdì 6 novembre 2020

INCUBUS - LIGHT GRENADES (Epic, 2006)

 


La storia dei californiani Incubus, come per molte altre band, è quella di un percorso non lineare, di una carriera che potrebbe essere tranquillamente divisa in due parti, di un cambio di rotta e di suono, che ha portato la band da un sottobosco alternative per pochi intimi alle luci della ribalta mainstrean.

Nati e cresciuti a Calabassas, centro rurale del Sud della California, i compagni di classe Brandon Boyd (voce) e Josè Pasillas (batteria) incontrano Mike Eizinger (chitarra), fanno amicizia e sognano sogni di gloria insieme. L’idea è fondare una band, suonare alle feste degli amici e nei localini della zona. Si danno un nome inquietante, Incubus, come quel demone che nella mitologia medioevale sorprende le donne nel sonno e le violenta. Arruolato un bassista (Alex Katunich), i ragazzi vengono notati da Dj Lyfe, che leviga e completa il sound della band (diventando membro stabile), e dal manager Paul Pontius, che li porta alla Epic, come già aveva fatto con i Korn.

Inzia così la prima parte di carriera, aperto da un disco acerbo, ma interessante, dal titolo stranissimo: Fungus Amongus (1995). Un esordio ingenuo, forse, ma ricco di idee che girano intorno a un rock impastato con del funky sghembo, eccitato e adrenalinico, che paga pegno a Primus, Faith No More e Red Hot Chili Peppers. Un Ep (Enjoy Incubus, 1996) per schiarirsi ulteriormente le idee, e poi, finalmente, S.C.I.E.N.C.E. (1997), gioiello di anarchia crossover, in cui confluiscono funk, hip hop, metal ed elettronica, in un magma multiforme gestito con consapevolezza e maturità. Da questo momento, però, la band cambia pelle, la parabola creativa si arresta e la proposta si fa meno originale. Make Yourself (1999), chiude il millennio con un suono più contiguo al post grunge e con un approccio meno sperimentale e pirotecnico, che cede il passo a un suono più definito, morbido e sciolto.

E’ il primo passo verso il cambiamento definitivo, quello che segnerà la seconda parte della storia degli Incubus. Esce Morning View (2001) ed è chiaro fin da subito i ragazzi californiani sono diventati altro rispetto a ciò che erano il decennio precedente. La band non osa più, si guarda alle spalle e recupera il classic rock settantiano, mettendo in piedi una scaletta che alterna brani hard e ballate, un pizzico di psichedelia e qualche strizzata d’occhio a suoni radio friendly.

E’ la definitiva stabilizzazione, che prosegue con A Crow Left Out The Murder (2004), disco piacevolissimo, che attenua la volenza degli esordi per assestarsi su clichè pop rock poco innovativi, ma con vista sulle charts (Megalomaniac e Talk Shows On Mute sono due vere e proprie hit), e con questo Light Grenades (2006), che ribadisce la formula del predecessore, ma con una marcia in più.  

Perché se è vero che l’irrequietezza e la sfrontatezza degli anni ’90 si sono ormai spente, è altrettanto vero che la band sa scrivere belle canzoni (e non c’è un disco degli Incubus in cui non ne troviate almeno un paio). Il lavoro alla consolle di Brendan O’Brien (produttore che ha messo mano ad alcuni dei dischi più significativi degli ultimi quindici anni: Pearl Jam, Soundgarden, Rage Against The Machine, Red Hot Cilli Peppers, etc) garantisce, poi, una solida impalcatura rock, e anche se la melodia prevale sull’impeto, non mancano, comunque, momenti capaci di graffiare con feroce irruenza.

L’iniziale, psichedelica e onirica, Quicksand prepara il terreno di caccia per la furia leonina di A Kiss To Send Us Off, aggressione di decibel e chitarre appena stemperata da strofe di grande tensione levigate dalla bella voce di Brendon Boyd, che forse non avrà una funambolica estensione, ma sa cantare bene e con grande duttilità, tanto da riuscire talvolta a vestire anche i panni del crooner.

Il disco si basa soprattutto sulle ballate e su melodie accattivanti, eseguite, però, con quel piglio rock che tiene alto il livello qualitativo della proposta: Dig è costruita su un arpeggio di chitarra semplice e luccicante, possiede un ottimo crescendo d’intensità e ricorda alcune cose incise dei Pearl Jam con uno stile quasi identico, Oil And Water è ispida e malinconica, mentre Love Hurts è la hit che scala le classifiche e fa battere il cuore alle anime più romantiche.

Non tutto è centrato e alcuni episodi sono deboli e insipidi (Earth To Bella, part. 1 e 2), ma quando la band ingrana la quinta, sa ancora forgiare bordate di altissima intensità (il riff clamoroso di Anna Molly, primo singolo estratto dall’album, l’aggressione noise dell’ansiogena title track).  

Light Grenades non è certo un disco epocale, però rappresenta il vertice della seconda parte di carriera degli Incubus. Una band che aveva davanti a se un luminoso futuro di nicchia, e che invece ha scelto di imboccare la strada più semplice e meno tortuosa, che porta in cima alle classifiche. Niente di male, ovviamente, anche perché Brendon Boyd e soci sono comunque riusciti nel tempo a definire uno stile e, a dispetto di un’originalità ormai claudicante, a continuare a scrivere belle canzoni.

 


 

 

Blackswan, venerdì 06/11/2020