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venerdì 30 maggio 2025

Jo Nesbo - La Famiglia (Einaudi, 2025)

 


Due fratelli pronti a combattere in difesa di ciò che hanno conquistato. Pronti, se occorre, anche a uccidere. Di nuovo. Senza dubbio, i fratelli Opgard hanno avuto successo nella vita. O, perlomeno, ne hanno avuto quanto è possibile in un paesino come Os: un migliaio di anime aggrappate a una montagna, apparentemente dimenticate da Dio e dagli uomini. Carl dirige un lussuoso hotel con spa, mentre Roy ha in mente un progetto ambizioso: un parco dei divertimenti con un ottovolante tra i più alti e paurosi del mondo. E si potrebbe ottenere ancora di più, per esempio ingrandendo l’hotel. Se non fosse che l’Ente nazionale per le strade ha deciso di far scavare una galleria in quella montagna, spostando la statale e ostacolando così il turismo a Os. Nel frattempo un agente rurale vuole indagare sul baratro noto come curva delle Capre e sulle carcasse delle automobili che ci sono finite dentro, spesso grazie a una spinta dei fratelli… Ancora una volta, dunque, Carl e Roy devono cancellare le proprie tracce e sporcarsi le mani, probabilmente di sangue. Ancora una volta, devono essere disposti a tutto, pur di salvare i loro interessi. Un grandioso, esplosivo romanzo sulla lealtà, i legami familiari, la passione e la lotta contro i poteri forti.

Una premessa è d’obbligo: La Famiglia, nuovo romanzo a firma Jo Nesbo, è il seguito di Il Fratello, pubblicato in Italia nel 2020. I due romanzi sono, pertanto strettamente connessi, ed è preferibile aver letto il primo, prima di iniziare il secondo. Preferibile, ma non necessario. Se la location è la medesima (la comunità rurale di Os), i protagonisti sono gli stessi (i due fratelli Opgard, Carl e Roy) e gli eventi inevitabilmente collegati, lo scrittore norvegese mette il lettore nelle condizioni di conoscere gli antefatti, in modo da non sentirsi spiazzato di fronte alo sviluppo della trama.

Come nel precedente romanzo, il genere thriller è presente ma non preponderante. Non mancano suspense e colpi di scena, ma il ritmo è tutt’altro che adrenalinico, nonostante la lettura resti estremamente appassionante. Nesbo, abile intessitore di intrecci, tiene lontano il brivido e preferisce concentrare la propria arte su una torbida storia di legami famigliari, in cui la fratellanza e il sangue sono il collante che tiene insieme un rapporto, quello fra Carl e Roy, segnato da abusi, vendette e omicidi, e perpetrato con ostinata devozione nonostante un pesante non detto, e una serie di reciproci inganni e tradimenti.

Il susseguirsi degli eventi, però, la pressione portata dalle indagini a loro carico, la difficile realizzazione di un sogno che sembrava a portata di mano e un ultimo, inaccettabile sgarbo, faranno crollare le fondamenta di un amore fraterno che sembrava solido come la pietra.

Come si diceva, non mancano il colpi di scena, tuttavia Nesbo cerca soprattutto di sondare l’animo umano, approfondendo i risvolti di personaggi estremi (oltre a Carl e Roy, ci sono anche la bella e conturbante Natalie e il poliziotto Kurt, stolido ma determinato a fare giustizia), dando vita a una quadriglia emotiva in cui nessuno può dirsi davvero innocente.

Scritto benissimo, ma non è certo una novità per Nesbo, La Famiglia contiene numerose citazioni musicali (in primis, J.J.Cale) che rendono la storia ulteriormente intrigante per tutti gli appassionati di musica rock.

 

Blackswan, venerdì 30/05/2025

mercoledì 28 maggio 2025

Stereophonics - Make ‘em Laugh, Make ‘em Cry, Make ‘em Wait (Emi, 2025)

 


Dopo quasi trent’anni di carriera e tredici dischi pubblicati, ai gallesi Stereophonics bisogna riconoscere il merito di aver sempre mantenuto fede al proprio credo, attraverso una coerenza tanto ostinata quanto genuina. Dischi fatti con mestiere, certo, ma un mestiere che si avvicina molto all’artigianato, con quel cesello sincero con cui si levigano piccole canzoni che, poi, diventano grandissime nel cuore delle persone. Perché il loro è sempre stato un pop rock mainstream, ma declinato senza pose e ostentazione, con il cuore aperto, semmai, di chi vuole rendere felice la gente, con belle melodie e un suono riconoscibilissimo, buono come i piatti della tradizione. Non hanno inventato nulla, gli Stereophonics, hanno sempre giocato con un passatismo consapevole e armonioso, eppure sono sempre arrivati lassù, in cima alle classifiche (britanniche), con dischi non immortali, ma stranamente irresistibili.

Il nuovo Make ‘em Laugh, Make ‘em Cry, Make ‘em Wait ribadisce tutti i concetti appena sviluppati, con qualche leggera differenza rispetto al passato. L’idea iniziale (come per il precedente Oochya!) era quella di pubblicare un greatest hits (l’unico e ultimo risale al 2008), inserendo a fianco di materiale già noto anche due inediti. Poi, il cambio di rotta, visto che le canzoni su cui si poteva lavorare erano di più. Non molte di più, dal momento che, a differenza di precedenti lavori, questo nuovo album è composto solo di otto brani e dura circa mezz’ora. Se il suono è un marchio di fabbrica, come d’altra parte lo è la voce del frontman Kelly Jones, Make ‘em Laugh, Make ‘em Cry, Make ‘em Wait spazia, tuttavia, attraverso i generi, pur mantenendo una coerente identità di fondo.

E siccome Kelly Jones (qui in veste anche di unico produttore) le belle canzoni le sa scrivere, anche questa breve scaletta contiene momenti destinati a farsi ricordare, almeno per i fan della band. Il disco si apre con "Make It On Your Own", essenza del suono Stereophonics e autentica gemma dell’album, in cui la voce calda e graffiante di Jones è il collante di una melodia che sta in bilico sul confine sottile che separa dolce malinconia e eccitante allegrezza. Chitarre rombanti, un eccelso arrangiamento d’archi e un ritornello da mandare a memoria in un nano secondo rendono il brano un istant classic del songbook della band gallese.

Non è da meno la successiva "There’s Always Gonna Be Something", un jangle pop capace di resuscitare i morti, una melodia così luminosa che sembra di toccare il sole con un dito. Un uno due da ko, che apre alla grandissima un disco che, pur non raggiungendo queste due vette, resta piacevolissimo fino alla fine.

A partire da "Seems Like You Don’t know Me", che si distingue dalle due precedenti per un tocco di elettronica avvolgente e minimal e che cresce nella seconda parte allungando il passo in una melodia sempre più malinconica. E se "Mary Is A Singer" e la conclusiva "Feeling Of Falling We Crave" giocano piacevolmente con il country rock di matrice californiana, "Colours Of October" è un’ondeggiante ballata dal retrogusto sixties mentre "Backroom Boys" è un brano smaccatamente pop e dallo sviluppo un po’ telefonato.

Resta da segnalare anche la curiosa e riuscita "Eyes To Big For My Belly", un brano che spinge su un graffiante groove funky e palesa bellicose intenzioni hard rock, tanto da citare scherzosamente "War Pigs" dei Black Sabbath.

Make ‘em Laugh, Make ‘em Cry, Make ‘em Wait è un buon disco, l’ennesimo di una band di bravi ragazzi che continua a scrivere canzoni utilizzando una vecchia formula vincente, senza inventare la ruota, ma facendola girare sempre con rinnovato entusiasmo. Un album onesto e piacevolissimo, che consolida ulteriormente l’abilità degli Stereophonics nel fondere la sensibilità rock con quelle uncinanti melodie che mantengono il loro sound vitale e suggestivo come ogni volta. 
 
Voto: 7
Genere: Rock, Pop
 
 

 
 
Blackswan, mercoledì 28/05/2025

martedì 27 maggio 2025

David Gray - Babylon (East West, 1998)

 


Beh, guardando indietro nel tempo

Sai che è chiaro che sono stato cieco

Sono stato uno stupido

Per aprire sempre il mio cuore

A tutta quella gelosia, quell'amarezza, quel ridicolo

 

Seconda traccia da White Ladder, quarto album in studio del cantautore britannico David Gray, Babylon parla di un ragazzo che è stato lasciato dalla propria compagna. Una volta che si rende conto di aver permesso alla paura di bloccare il suo cammino verso l'amore, decide che la rivuole indietro. Forse, però, ormai è tardi.

David Gray, che aveva trent’anni quando fu pubblicato l'album, all'epoca era felicemente sposato e non era certo afflitto da pene d’amore. Il suo intento, semmai, era di riflettere, attraverso il personaggio della canzone, su come spesso i sentimenti vengano trattenuti, su come alcune sovrastrutture mentali tolgano spontaneità all’amore e su come dubbi, paure, gelosie finiscano per compromettere anche la più appassionata delle relazioni. Il tema, dunque, è quello di abbandonarsi, di lasciare andare cuore e mente, di arrendersi di fronte al sentimento, di arrendersi a tutti i costi.

"Babilonia" è una parola ricca di fascino, molto suggestiva da cantare e carica di significato storico. L'antica Babilonia era, infatti, una delle principali città della Mesopotamia situata nell'attuale Iraq: un luogo traboccante di cultura e di bellezza, passato alla storia per i giardini pensili, considerati una delle sette meraviglie del mondo antico.

Questa parola piaceva moltissimo a Gray, la cui intenzione fu quella di utilizzarla per riferirsi a Londra, che in epoca vittoriana era considerata la moderna Babilonia. Negli intenti del songwriter, sia il disco che la canzone, dovevano suonare fortemente “londinesi”, e l’accenno a Babilonia, pescato dalle pagine di storia che aveva studiato in gioventù, aveva esattamente quell’intento. L’accostamento tra le due grandi città era però solo il frutto di un ricordo, di cui il cantautore era convinto, ma fino a un certo punto. Così, quando la canzone fu completata, Gray andò in panico pensando di aver commesso un errore sesquipedale. Iniziò a cercare quel ricordo di gioventù su dizionari, enciclopedie e libri di storia, fin quando trovò conferma dell’intuizione avuta, grazie a suo suocero, uomo di grande cultura, che lo tranquillizzò sul fatto che, un tempo, Londra veniva chiamata proprio Babilonia.

Il ragazzo protagonista della canzone viene raccontato mentre trascorre un fine settimana, in cui ogni giorno - venerdì, sabato e domenica - introduce una nuova strofa.

 

Venerdì sera non andrò da nessuna parte

Tutte le luci stanno cambiando dal verde al rosso

Girare le stazioni televisive

Situazioni che mi attraversano la testa…

 

Sabato sto impazzendo

E tutte le luci stanno cambiando dal rosso al verde

Muovendomi tra la folla sto spingendo

Tutte le sostanze chimiche scorrevano nel mio flusso sanguigno… 

 

Domenica tutte le luci di Londra

Splendente, il cielo sta svanendo dal rosso al blu

Sto calciando tra le foglie autunnali

E ti chiedi dove potresti andare… 

 

Questo escamotage venne definito da Gray “approccio matematico” alla scrittura ed era stato ispirato da You May Be Right di Billy Joel, che utilizzava lo stesso artificio. La bellezza del brano risiede nel perfetto interplay fra liriche e melodia, il testo sembra danzare sulle note e suggerisce questa meravigliosa sensazione di due cose che si intrecciano in modo molto, molto naturale, come i viticci di una vite che si arrampica su un recinto.

La canzone è costruita su una linea di chitarra acustica, ma c'è molto altro intorno a essa. Il produttore di Gray, Lestyn Polson, ha utilizzato un campionatore per elaborare il ritmo scattante che risuona durante la canzone e ha fatto passare il piano attraverso un vocoder per dargli un suono elettronico. Campioni di tastiere, basso e batteria sono stati aggiunti per completare la traccia, e tutto è stato realizzato nello studio di casa di Gray su un registratore digitale a otto tracce.

Quando registrò l'album White Ladder, nel 1998, Gray aveva alle spalle tre album di scarso successo, che gli avevano fatto perdere il contratto che aveva stipulato con la Emi. Quindi, registrò il disco a sue spese, come ultimo, disperato tentativo di emergere dall’anonimato.

Gray, nel novembre del 1998, stampò seimila copie e le distribuì in Irlanda, il paese dove precedentemente aveva ottenuto maggiori consensi, ricevendo immediatamente un’accoglienza entusiastica, tanto che, a tutt’oggi, White Ladder è l'album più venduto nella storia irlandese. Successivamente, ha distribuito un singolo, Please Forgive Me, nel Regno Unito, guadagnando la piazza numero 72 nell'aprile 1999, e riuscendo così a firmare un contratto con l'etichetta britannica East West per pubblicare White Ladder in Inghilterra. "Babylon", pubblicato come secondo singolo, arrivò al quinto posto nel luglio 2000.

 


 

 

Blackswan, martedì 27/05/2025

lunedì 26 maggio 2025

Samantha Fish - Paper Doll (Rounder Records, 2025)

 


Vera e propria forza della natura (date un’occhiata a qualche sue performance dal vivo) disco dopo disco, Samantha Fish si è ritagliata un posto di rilievo tra le chitarriste più rilevanti della sua generazione. Con un repertorio che spazia tra blues e rock, roots e pop, e una reputazione, come accennato, da animale da palcoscenico, la trentaseienne musicista originaria di Kansas City ha costantemente spinto un pochino più in là i limiti del genere. Dopo una nomination ai Grammy nel 2023 per la sua collaborazione con Jesse Dayton (Death Wish Blues) e la condivisione del palco con i Rolling Stones nel 2024, arriva Paper Doll, il suo ultimo e tredicesimo album in studio, composto da nove tracce ricche di un fascino elettrico e grezzo.

Registrato con la sua band in tour tra un concerto e l'altro, incluso un periodo con il festival S.E.R.P.E.N.T. di Slash, Paper Doll dà vita a nove brani infuocati ed emotivamente carichi, con un mix di energia da arena rock, corposità blues e soul melodico. Prodotto da Bobby Harlow (che ha anche messo mano a Chills & Fever del 2017), l'album sembra il culmine di tutto ciò che la Fish ha perfezionato nel corso degli anni: un suono di chitarra possente, voce abrasiva e un talento compositivo in continua evoluzione.

L'album si apre con "I'm Done Runnin’", una grintosa dichiarazione d'intenti blues rock trainata da una slide tagliente e da una sezione ritmica incisiva che spinge il brano a rotta di collo. La voce di Fish ha un tocco di grintosa spavalderia, e c'è un elemento di grandiosità hard rock che eleva il tutto e lo rende un'apertura eccezionale.

La successiva "Can Ya Handle The Heat?" alza ulteriormente la temperatura con un groove sinuoso e riff graffianti, per esplodere in un assolo che sfrigola come pancetta in padella. È giocosa ma tagliente, e si presta come contrappunto al territorio più oscuro esplorato da "Fortune Teller", in cui un riff meditabondo, un retrogusto hendrixiano e una voce sommessa preparano la scena prima che tutto esploda in un ritornello oscuro e travolgente, e scatti rapidissimo in un bridge frenetico e urticante. 

La title track è un altro grande momento, un mid-tempo inquieto con un ritmo martellante e una delle migliori performance vocali di Fish sull'album. La bomba esplode con "Rusty Razor" (suonata in duetto con Mick Collins, corsaro garage punk della scena di Detroit), una rasoiata garage blues con ammiccamenti pop, spinta da un’energia contagiosa impossibile da ignorare.

Sul versante più riflessivo, la magnifica "Sweet Southern Sounds" si apre con caldi toni d'organo e si sviluppa lentamente, innalzandosi gradualmente verso un climax frenetico. A tratti spinge più verso sonorità soul pop che verso il blues, ma l'incalzante lavoro solista la mantiene ancorata alle radici blues-rock della Fish.

A prescindere dalle canzoni, ciò che esalta la musica contenuta in Paper Doll è la produzione equilibrata (il citato Bobby Harlow): c'è una nitidezza e una pulizia nel mix che lasciano respirare ogni elemento, i suoni di chitarra di Fish sono ricchi e organici, mentre batteria e tastiere penetrano con incisività e chiarezza. È raffinato senza suonare sterile, e fa risaltare l'alchimia di una band superlativa. Basta ascoltare il conclusivo omaggio a Neil Young, riletto attraverso la sua "Don’t let It Bring You Down", per comprendere come la pulizia dei suoni riesca a trasmettere la passione e la tracimante espressività con cui la Fish affronta un super classico (mamma mia, che assolo!).

Fish è sempre stata una chitarrista formidabile, ma qui suona più sicura di sé e creativamente più aperta che mai. I brani proposti non sono solo trampolini di lancio per il suo impressionante stile chitarristico, ma servono, soprattutto per emozionare l’ascoltatore. Perché, nel suo complesso, Paper Doll è un disco audace, divertente, dinamico e guidato da una personalità artistica in stato di grazia. Si ha la sensazione che la Fish e la sua band si siano divertiti un mondo a realizzarlo, e questa sensazione è contagiosa. I brani sono orecchiabili, incisivi e pieni di energia, rendendo Paper Doll il tipo di disco che vorrete continuare ad ascoltare senza sosta.

Voto: 8

Genere: Rock, Blues 




Blackswan, lunedì 26/05/2025

giovedì 22 maggio 2025

Vulvarine - Fast Lane (Napalm Records, 2025)


 

Le Vulvarine sono quattro ragazze austriache con un approccio musicale ben definito, a partire dal nome che si sono date, che esplicita, senza mezzi termini, una declinazione tutta al femminile di un rock aggressivo e arrembante. L’intento è, ovviamente, quello di sbandierare orgogliosamente una sorellanza musicale da opporre a quel sottogenere chiamato cock rock, un termine che, nel corso dei decenni ha indicato una musica che enfatizza, spesso in modo triviale, una forma aggressiva di sessualità maschile.

Egualmente sfacciata, la proposta del quartetto, qui alla seconda prova in studio e alla prima sotto l’egida Napalm Records, offre un’infuocata combinazione di rock and roll, metal, punk e blues, che si allinea con quello di band coeve quali Thundermother e The Gems, e che trova ispirazione in iconici gruppi del passato tutti al femminile quali Runaways, The Donnas e Girlschool.

Per rimarcare ulteriormente il taglio adrenalinico delle undici canzoni in scaletta, le Vulvarine hanno deciso di intitolare il disco Fast Lane, e la corsia di soprasso è un’immagine perfetta per raccontare una musica suonata con il piede sull’acceleratore e che non fa fermate, se si eccettua la conclusiva "She’ll Come Around", una breve e scarna ballata impolverata di reminiscenze nirvaniane, con cui la decapottabile guidata dalle quattro ragazze si ferma qualche istante a riempire nuovamente il serbatoio.

La traccia di apertura, "The Drugs, The Love, And The Pain", prepara il terreno senza perdere tempo, con le Vulvarine che partono a razzo con un tiro punk’n’roll letale come un serramanico, tanto nostalgico quanto moderno. Una canzone che sembra senza tempo, che è stata pubblicata quest’anno, ma che avrebbe potuto essere pubblicata anche negli anni '80, e che trova il suo punto di forza nei fantastici riff di chitarra e nell’irresistibile ritornello innodico.

Non vanno per il sottile, le rocker austriache, suonano senza artifici, grezze e muscolari, utilizzano un’unica formula (spingere al massimo la velocità per schiantarsi contro hook melodici avvincenti) ma centrata, e badano solo al sodo.

Che si tratti, poi, di aggredire con il morso punk di "Heads Held High", di giocare con il rock blues stridente di "Alright Tonight", di lambire territori metal avvolti nell’oscurità (Demons) o di rinverdire i fasti del più classico rock settantiano ("Ancient Soul"), l’arma più affilata della band è l’istrionica presenza della frontwoman Suzy Q (ogni riferimento all'icona Suzi Quatro non è casuale) il cui graffiante timbro vocale innerva di vivacità ed esuberante potenza ogni singola canzone.

In una scaletta super aggressiva e davvero divertente, due brani, soprattutto, rendono onore alla bravura della band: "Equal, Not The Same" fila rapida su un riff di chitarra che divampa di pathos, potenza rock e urgenza punk, piazzando un ritornello da mandare a memoria per i prossimi concerti, e la cover di "Cheri Cheri Lady", signature song dei Modern Talking, anacronismo anni ’80 spappolato dal ringhio punk rock della band, a cui si unisce la chitarra di Filippa Nassil, madre e padrona delle Thundermother.

In Fast Lane non troverete nulla che non sia già stato suonato, sia in epoche passate che in quelle più recenti, eppure questa band ha trovato nella coesione e nella spregiudicatezza quel plus che rende la seconda prova in studio un disco imperdibile per chi ama un rock aggressivo, diretto e senza fronzoli.

Per una miglior resa, ascoltare in macchina, volume a livello tamarro e finestrini, ovviamente, abbassati.

 


 

 

Blackswan, giovedì 22/05/2025

martedì 20 maggio 2025

Bon Jovi - Livin' On a Prayer (Mercury, 1986)

 


I numeri di Slippery When Wet (1986), terzo album in studio a firma Bon Jovi, sono davvero impressionanti: otto settimane di seguito in testa a Billboard 200, trentatre milioni di copie vendute in tutto il mondo, di cui solo dodici negli Stati Uniti, un disco d’oro e dodici di platino. Quattordicesimo album più venduto di tutti i tempi, Slippery… conquistò la top ten americana con ben tre singoli, diventati autentici tormentoni, che ancora oggi passano con regolarità nelle trasmissioni radio che programmano classic rock: You Give Love A Bad Name, Wanted Dead Or Alive e Livin’ On A Prayer.

Non tutti lo sanno, ma quest'ultima canzone, nota soprattutto per la sua tensione innodica, è in realtà un brano dal profondo significato sociale, e racconta la storia di Tommy e Gina, due ragazzi che lavorano duramente per farcela con le proprie forze, nonostante le costanti difficoltà che devono affrontare ogni giorno. Si amano, vogliono costruire una famiglia, ma l’esistenza impone una lotta impari.

 

Tommy lavorava al porto, il sindacato è in sciopero

È sfortunato, è dura, così dura

Gina lavora alla tavola calda tutto il giorno, lavorando per il suo uomo

Porta a casa la sua paga, per amore…

 

Le liriche del brano colpirono molto la sensibilità dei giovani americani, in particolare quelli del New Jersey, lo stato di cui Bon Jovi era originario. I personaggi della canzone, infatti, appartengono a quella classe lavoratrice da cui anche il cantante proveniva (la madre era cameriera, il padre, barbiere), e di cui faceva parte lo zoccolo duro della fanbase della band.

Bon Jovi incarnava l'archetipo degli eroi della classe operaia e di quel sogno americano che risuonò più che mai negli anni '80 e contribuì a imprimere questa canzone nella cultura popolare. Il messaggio era chiarissimo: lavori duro, costruisci la tua vita e realizzi il sogno americano. 

 

Non fa differenza se ce la facciamo o no

Ci siamo vicini e questo è molto per amore

Ci proveremo 

 

Non ci arrenderemo. Anche di fronte al fallimento, continueremo a provarci. E’ questo quella che viene definito american way, era questa la visione diffusa negli anni ’80, quelli della presidenza Reagan, e Livin’ On A Prayer insufflava speranza nei sogni dei giovani, era un incitamento a non mollare, a stringere i denti, perché, prima o poi, la vita avrebbe sorriso. 

 

dobbiamo resistere, pronti o no

Vivi per la lotta quando questo è tutto ciò che hai

Ehi, siamo a metà strada… vivo di preghiera

Prendi la mia mano e ce la faremo, lo giuro  

 

Jon Bon Jovi e Richie Sambora, i principali cantautori del gruppo, scrissero il brano insieme a Desmond Child, un prolifico cantautore che era stato chiamato dalla casa discografica per dare alla band un suono più commerciale, come aveva già fatto per i Kiss per I Was Made For Lovin’ You.

I personaggi Tommy e Gina erano basati su esperienze di vita reale che Desmond aveva vissuto alla fine degli anni '70 con la sua allora fidanzata, Maria Vidal, con la quale viveva: Desmond era un tassista di New York e Maria era una cameriera cantante in una tavola calda. Vidal usava il nome "Gina Velvet", dal momento che era soprannominata Gina dai suoi colleghi, che vedevano in lei una somiglianza straordinaria con l’attrice Gina Lollobrigida.

Come detto, Desmond si era fatto strada nel songwriting grazie soprattutto alla collaborazione con i Kiss, da cui aveva appreso i trucchi per scrivere veri e propri inni da stadio, in cui la musica tende a gonfiarsi e a sollevarsi verso l’alto, spingendo al massimo sulle corde emotive dell’ascoltatore (impossibile ascoltare Livin’ On A Prayer senza farvi trascinare dall’irresistibile ritornello e cantare a squarciagola).

La canzone ebbe un incredibile successo, ma all’inizio, Jon Bon Jovi voleva escluderla dall'album Slippery When Wet, convinto che il brano non fosse abbastanza buono. Il cantante, poi, tornò sui suoi passi, cosa che avvenne dopo aver incontrato un gruppo di ragazzi che vivevano la stessa esperienza di vita dei protagonisti raccontati nelle liriche.

Il brano è caratterizzato dall’uso di un talk box da parte del chitarrista Richie Sambora. Il talkbox è un dispositivo elettronico che consente al chitarrista di produrre suoni distorti con la bocca. Fu inventato nel 1969, ma ebbe successo solo più tardi, quando fu utilizzato da Peter Frampton nel suo album del 1976 Frampton Comes Alive.

Una curiosità. L'album si sarebbe dovuto intitolare Wanted Dead Or Alive (che è un'altra canzone dell'album) e avrebbe dovuto immortalare la band in copertina vestita da cowboy. Dopo aver fatto il servizio fotografico con il fotografo Mark Weiss, Jon Bon Jovi non era affatto convinto del risultato, perché riteneva che la cover fosse troppo seriosa. 

Durante le registrazioni del disco, la band frequentava assiduamente un club di spogliarelliste, dove delle ragazze incredibilmente belle si versavano addosso acqua e sapone. Diventavano così scivolose che era impossibile stringerle: Slippery when wet!

Questa frase, urlata da uno dei membri della band, divenne il titolo del disco. Si pensò così di mettere in copertina la foto di una ragazza con la maglietta bagnata e il grosso seno in evidenza, ma la casa discografica, la Mercury Records, si rifiutò categoricamente di dar seguito alla cosa, per timore di una denuncia da parte del Parents Music Resource Center, un’associazione moralista presieduta da Tipper Gore, la moglie di Al. Il disco, a questo punto, aveva bisogno urgentemente di una copertina. Così, Jon Bon Jovi andò in studio, bagnò un sacco della spazzatura e ci scrisse sopra con le dita Slippery When Wet. Un solo scatto, e il risultato fu centrato. La copertina con la ragazza dalle grandi tette venne, invece, utilizzata per la versione giapponese dell'album.

 


 

 

Blackswan, martedì 20/05/2025

lunedì 19 maggio 2025

Simple Minds - Live In The City Of Diamonds (BMG, 2025)

 


In un mondo come quello attuale, in cui l’ascolto di musica è relegato prevalentemente all’indigesto fast food di Spotify, l’uscita di un disco live presenta fin da subito le stigmate dell’anacronismo. Eppure, per quella nicchia di boomer che i dischi, siano vinili o cd, ancora li acquista, poter ascoltare i propri eroi che si cimentano sul palco suonando il meglio della loro discografia, riserva ancora un grande fascino. Il fascino dell’epifania, della celebrazione, della festa condivisa portata direttamente nel salotto di casa.

Un’emozione che non ha prezzo, anche quando la band in questione è quella dei Simple Minds, iconica istituzione di un certo sound anni ’80 (ma ancora all’attivo con ottimi album in studio) che, nello specifico, pubblica il suo tredicesimo disco dal vivo, il terzo della serie In The City Of…, dopo In The City Of Light (1987) e In The City Of Angels (2019).

La domanda sorge allora spontanea: ha senso spendere soldi per questa nuova pubblicazione, di cui, qualcuno direbbe, francamente non se ne sentiva la necessità? La risposta è ovviamente si, nel caso in cui siate completisti o, come il sottoscritto, fan della prima ora. In The City Of Diamonds (Amsterdam) è, tuttavia, anche un ottimo vademecum per chi si approcciasse per la prima volta alla band di Jim Keer (il viaggio attraverso la loro lunga carriera è totale) o per chi, ascoltatore un po’ più distratto, avesse voglia di fare un salto indietro nel tempo a quei gloriosi anni ’80, in cui il gruppo scozzese rilasciò i suoi dischi più belli oltre che famosi.

Registrato prevalentemente allo Ziggo Dome di Amsterdam (gli ultimi sei brani sono stati estrapolati da altre performance), dove i Simple Minds hanno suonato davanti a un pubblico di 17.000 persone, il disco comprende ben diciotto canzoni, per una durata di circa 101 minuti.

L’elemento che rende interessante questa ennesima prova dal vivo, è che Jim Kerr (voce) e Charlie Burchill (chitarra solista), unici superstiti della formazione originale (sono accompagnati da un’affiatata backing band composta da Gordy Goudie alla chitarra ritmica, Ged Grimes al basso, Cherisse Osei alla batteria, Erik Ljungggren alle tastiere e Sarah Brown alla voce), hanno scelto di presentare molti brani estratti dai loro primissimi dischi ed eseguire canzoni che hanno trovato poco posto nei precedenti live pubblicati.

Da quel passato remoto, ecco allora emergere gioielli come "Sons And Fascination", "The American" (tra le mie preferite del loro ragguardevole songbook), "Sweat In Bullet", "This Fear of Gods" e, soprattutto, una "Premonition" da brividi.

La parte del leone la fa l’evergreen New Gold Dream, qui rappresentato dalle immancabili "Glittering Prize", "Promised You A Miracle", "Someone, "Somewhere In Summertime", oltre che dalla title track e, inaspettatamente anche dalle magnifiche "Hunter And The Hunted" e "Colours Fly And Catherine Wheel". Non mancano, poi, da Sparkle In The Rain (considerato il disco “rock” della band), "Book Of Brilliant Things" e la consueta opener "Waterfront" (non ci sono, aihmè, "East At Easter", "Speed Your Love To Me" e "Upon The Catwalk"), da Once Upon a Time (il disco della svolta americana) "Alive And Kicking" e "Sanctify Yourself", canzoni più recenti ("Solstice Kiss" e "Vision Things"), il leggendario riempi pista "Don’t You Forget About Me", e una lunghissima versione di "Belfast Child".

Live in the City of Diamonds è, in definitiva, un incredibile viaggio attraverso la storia musicale di una band che la storia l’ha fatta veramente, e che oggi, nonostante siano passati quasi cinquant’anni dal 1977, anno di nascita dei Simple Minds, sembra aver ritrovato una seconda giovinezza. Ascoltare questo disco, quindi, non è solo guardare indietro in un tempo lontanissimo, ma rendersi conto di uno stato di forma, quello di Keer e Burchill, che sembra aver ritrovato lo smalto dei giorni migliori. Ne vale la pena.

Voto: 7,5

Genere: Rock

 


 


Blackswan, lunedì 19/05/2025

giovedì 15 maggio 2025

Annie & The Caldwells - Can't Lose My (Soul) (Luaka Bop, 2025)

 


Ci sono storie di musica belle da raccontare, in cui è un colpo di fortuna o, se volete, il caso, a far emergere un talento che diversamente sarebbe rimasto semi nascosto, godimento di una nicchia di pochi fortunati.

A West Point, Mississippi, i Caldwell sono rimasti un segreto gelosamente custodito per oltre venticinque anni, avendo registrato solo due cd a distribuzione limitata per l'etichetta Ecko di Memphis (Answer Me nel 2013, We Made It cinque anni dopo), promossi in piccoli locali del sud-est americano. Mezzo secolo fa (era il 1974), tuttavia, Miss Annie faceva parte di un altro gruppo familiare, gli Staples Jr Singers, insieme ai suoi fratelli, ed è stato dopo che una copia del loro album di debutto, When Do We Get Paid, è arrivata, dopo un giro tortuoso, all'attenzione di David Byrne, che la storia ha iniziato a farsi interessante. Già, perché quando quel disco, grazie agli offici dell’ex Talking Heads, è stato ripubblicato da Luaka Bop nel 2022, la straordinaria cantante ha pensato bene di battere il ferro finchè caldo e di tornare a pubblicare qualcosa con in membri della sua seconda famiglia.

Ecco, allora, questo nuovo Can’t Lose My (Soul), che vede la titolare del progetto, con la sua voce impossibile, in prima linea, affiancata dalle figlie Deborah e Anjessica e dalla figlioccia Toni Rivers, tutte e tre ai cori, dal figlio maggiore Willie Jr al basso, vera spina dorsale dei brani con le sue linee elastiche, il fratello Abel, ritmica solida come la roccia alla batteria, e William Sr., marito di Annie, chitarrista dal tocco psichedelico, intriso di acidi e zolfo.

I sei brani presenti in scaletta arrivano dai due dischi pubblicati precedentemente fascinosi vademecum del genere gospel. Anche in Can’t Lose My (Soul) il gospel è preponderante, ma è evidente la volontà di ibridare il suono attingendo anche dal rock, dal funky e dal soul, dando vita a sei canzoni che nella loro fluida essenzialità citano Eddie Hazel, i Family Stone, Sam Cooke, Aretha Franklyn, Mavis Staples, solo per citarne alcuni.

L'etichetta ha allestito il proprio studio al Message Center, la chiesa di West Point dove Willie Sr suona la chitarra la domenica, e ha chiamato il produttore Ahmed Abdullahi Gallab, alias Sinkane, il quale ha adottato un approccio non invasivo. Gli arrangiamenti, infatti, sono ridotti all'essenziale, lasciando che l'essenza grezza affiori in superficie ed evocando la forza dei sentimenti che traspare dalle performance dal vivo della band. Che non punta alla perfezione, non prova alla nausea i brani, ma che si abbandona all’istinto, all’intuito famigliare (sulla logica ”basta uno sguardo”) e, ovviamente, alla strada indicata dal Signore.

Sei canzoni che sono autentiche perle, ancorate prevalentemente alla tradizione call and response, che ha le sue radici in Africa, ma aperte a incorporare, con semplice fluidità, elementi provenienti da altri rami della black music. Non stupisce, dunque, che l’apertura della scaletta sia affidata ai due minuti e mezzo di "Wrong", pura essenza funky disco, in cui un’indiavolata Annie trova un più morbido contrappunto nei cori delle figlie. Il gioco delle voci, il botta e risposta è l’anima della stupefacente title track, in cui una sinuosa linea di basso accompagna Annie in quella che è un’evidente improvvisazione gospel di dieci minuti, in cui la musica si gonfia di spiritualità ogni volta che il call e response si fa più intenso.

"I Made It" e "Dear Lord" viaggiano nuovamente su sonorità funky, la prima più spedita e pronta a scatenare il dancefloor, la seconda, più cadenzata e torbida, vede, invece, Annie cantare le lodi al Signore in un intreccio che sa di sacro e profano.

In scaletta altre due meraviglie: il groove turgido di "Don’t Hear Me Calling", che fonde mirabilmente gospel, blues e soul in un crescendo ipnotico corroborato nel finale da un assolo in acido di William Sr., e "I’m Going To Rise", un ballatone strappamutande che sembra riportare in vita il grande Isaac Hayes.

Miss Annie predica dal profondo della sua anima e ti chiede di seguirla sulla strada tracciata dal Signore, in un percorso spirituale che è salvezza e redenzione, lenimento ai mali del mondo, ascensore per il Paradiso. Non importa che tu ci creda o meno, basta ballare e inebriarsi di una musica bellissima, perché nulla al mondo avvicina a Dio più di questa sublime forma d’arte.

Voto: 8

Genere: Gospel, Funky, Soul, Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 15/05/2025

martedì 13 maggio 2025

I Love You, I'm Sorry - Gracie Adams (Interscope, 2024)

 


I Love You, I’m Sorry è un titolo che veicola due concetti apparentemente inconciliabili, l’amore e il dispiacersi, la cui conflittualità è stata cristallizzata nel tempo da quella iconica frase tratta da Love Story, pellicola di Arthur Hiller, datata 1970: “Amare significa non dover mai dire mi dispiace”.

Chi ama non ha bisogno di scuse, perché seguendo il proprio cuore non sbaglia mai. Questo, almeno, nel mondo zuccheroso di una relazione perfetta tra due anime nobili capaci di ogni sacrificio pur di consegnare la felicità nelle mani dell’amato.

Ovviamente, tutto ciò difficilmente avviene nel mondo reale, in cui le storie d’amore, anche le più intense e stabili, vivono di alti e bassi, di tormenti, di recriminazioni, di conflitti, e di dolore. Semplicemente, è la vita, il quotidiano, che intercetta l’amore anche quando lievita a mezz’aria, riportandolo coi piedi per terra.

E’ questo il tema dell’appassionata ballata scritta dalla cantautrice statunitense Gracie Abrams, insieme all’amica di lunga data Audrey Hobert e al produttore Aaron Dessner, membro fondatore della band The National e già al servizio di Taylor Swift (Folklore e Evermore).

Con I Love You, I’m Sorry, terza traccia del suo secondo album in studio, The Secret Of Us (2024), la Abrams affronta senza filtri il tracollo di una relazione amorosa al collasso.

 

Credimi, so che è sempre stato un problema mio

Ti amo, mi dispiace…

Mi affaccio malinconicamente fuori dalla finestra e guardo il sole tramontare sul lago

Potrebbe non sembrare reale, ma va bene,

Perché è proprio così che va la vita

 

Questa ballata sulla fine di un amore mostra chiaramente il cuore spezzato della Abrams, esplorando temi come il rimorso, le opportunità mancate e la disperata speranza di riconciliazione. Abrams dipinge il ritratto agrodolce di un amore sbiadito, e il desiderio palpabile per ciò che avrebbe potuto essere si tinge della dura realtà del presente. La sentiamo alle prese con la logica del “se”, quella voce fastidiosa che chiede di continuo se i due amanti avrebbero potuto risolvere i loro problemi in qualche modo. Le liriche, quindi, traboccano di cruda onestà, riconoscendo sia gli aspetti positivi che quelli negativi della relazione ("Sei il migliore ma sei il peggiore").

Il titolo stesso racchiude il nucleo emotivo della canzone: scuse sincere intrecciate con un amore che si rifiuta di morire. È un sentimento con cui la maggior parte di noi può identificarsi, è il desiderio di riavvolgere il tempo e correggere i propri errori, il tutto riconoscendo la dolorosa verità dei fatti.

I Love You, I'm Sorry" prosegue la narrazione iniziata da Abrams con il suo singolo del 2020, "I Miss You, I'm Sorry”, facendo abilmente riferimento al suo predecessore sia nel titolo che nella struttura, grazie a quel ritornello finale che rispecchia l’outro della canzone pubblicata quattro anni prima, come se la cantautrice volesse sottolineare la connessione emotiva fra i due brani, come se stesse rivisitando lo stesso dolore, ma attraverso una nuova prospettiva.

Sfido la fortuna, si vede

Per fortuna non hai mandato qualcuno ad uccidermi

Ti amo, mi dispiace

Eri il migliore ma eri il peggiore

Per quanto possa sembrare malato, ti ho amato per prima

Ero uno stronza, ecco quello che è

Un'abitudine da calciare, la maledizione secolare

 


 

 

Blackswan, martedì 13/05/2025

lunedì 12 maggio 2025

Palmyra - Restless (Ohboy Records, 2025)

 


Si chiamano Teddy Chipouras, Manoa Bell e Sasha Landon, arrivano dalla Shenandoah Valley (Virginia) e prendono il nome da Palmira, in tempi antichi una delle città più importanti della Siria e, oggi, sito archeologico devastato dalla furia della guerra civile siriana e dai sistematici saccheggi e distruzioni perpetrati dall’Isis. Un luogo, patrimonio dell’umanità, la cui suggestiva bellezza, nonostante le ingiurie del tempo e la folle mano degli uomini, continua a emanare un fascino immortale.

Quelle rovine, quel luogo devastato, eppure ancora vitale, attrattivo e ammaliante, rispecchia le difficile esperienze di vita dei tre ex compagni di scuola, gli sprofondi emotivi di chi ha dovuto combattere solitudine, pulsioni suicide, difficoltà economiche, disordini bipolari e crisi di identità sessuale (Sasha Landon ha seguito per lungo tempo un programma ambulatoriale di salute mentale), e nonostante ciò, ce l’ha fatta, e ne è uscito attraverso il potere lenitivo della musica. Restless è, dunque, un titolo che rispecchia alla perfezione il contenuto di dieci canzoni scritte da tre ragazzi che hanno affrontato il male di vivere e lo raccontano con cruda onestà, senza filtri, mettendosi a nudo attraverso una musica sincera, avvincente, bellissima. Che parla del desiderio di trovare una nicchia, di perseguire uno scopo, di conoscere la propria direzione, nonostante la bruciante frustrazione di sentirsi persi.

Attraverso chitarre acustiche, banjo, violini, contrabbasso, un pizzico d’archi e qualche trama di fremente elettricità, i tre ragazzi della Virginia creano un impianto sonoro che miscela alla perfezione country, rock e bluegrass, dando vita a uno scenario che fonde mirabilmente il classicismo delle radici a moderne pulsioni indie. Vengono in mente i Bright Eyes di Conor Oberst, i newyorkesi Felice Brothers e, più spesso, gli Avett Brothers, depurati dagli eccessi di zucchero e dalle aperture mainstream, con cui i ragazzi della Virginia condividono la cristallina bellezza degli intrecci vocali e il gusto per melodie celestiali.  

In scaletta dieci canzoni solo all’apparenza scarne, edificate su arrangiamenti minimal ma ricchi di pathos, in cui melodie immediate sono rese ancor più interessanti da improvvisi scatti umorali, fiammate di puro dramma e da una tensione che sfiora la disperazione, come nella confessione a cuore aperto e nel crescendo doloroso di "Shape I’m In", brano che affronta il disturbo bipolare di cui è affetto Landon con commovente onestà.

La title track apre il disco con armonie vocali alla Everly Brothers, uno specchietto per le allodole che suggerisce dolcezza e invece introduce a un andamento sghembo ed improvvise esplosioni, in cui Landon, tra violini e chitarre elettriche canta: “La verità è che non sono mai stato più lontano dal bene”. Il battito incalzante di "Palms Readers" e la sua confezione così deliberatamente indie raccontano la solitudine di chi esce da un ospedale psichiatrico ("I'm so damn lonely tonight") e deve ritrovare la propria dimensione nel mondo. La tensione è palpabile, la sincerità sgretola il muro che separa musicista e ascoltatore in un lungo abbraccio tra chi conosce il pane duro della vita.

La tensione si scioglie nell’incedere dinoccolato e rilassato della splendida "Arizona", storia di un viaggio nel profondo sud degli States, che trasporta gli ascoltatori verso la sensazione di pace e rinnovamento che i lunghi viaggi in auto e i paesaggi mozzafiato possono regalare. Anche qui la melodia è seducente, così come nell’angelica "Can’t Slow Down", una canzone che ricorda i migliori Avett Brothers e conquista il cuore per le delicate armonie vocali.

E se "Buffalo" e "Stones Throw" rileggono un suono classico attraverso un consapevole aggiornamento indie, la conclusiva "Carolina Wren" veste gli abiti bucolici di una morbida ballata da front porch, mentre una dolce malinconia tocca il cuore quando il sole tramonta in lontananza sugli affanni della vita.

Quella dei Palmyra è una storia ancora tutta da scrivere e questo brillante esordio apre loro la strada per un futuro in cui, se le premesse verranno mantenute, sarà impossibile non misurarsi con la loro (già) rilevante caratura artistica. Perché Restless, la cui funzione catartica è indispensabile e assolta, è uno dei dischi più sinceri ed emotivamente coinvolgenti ascoltati quest’anno. Le rovine sono alle spalle, è tempo di continuare a edificare.

Voto: 8

Genere: Indie Rock, Country, Folk

 


 


Blackswan, lunedì 12/05/2025

venerdì 9 maggio 2025

The Darkness - Dreams On Toast (Cooking Vinyl, 2025)

 


Una delle frecce più acuminate dell’arco Darkness è sempre stata quella, pur in un alveo ben consolidato di fonti di ispirazione, di provare di mischiare le carte, cercando con sfrontatezza di diversificare la proposta. Da tempo, però, mai era venuto fuori un album così eclettico e ispirato come quest’ultimo Dreams Of Toast, un vero e proprio zibaldone musicale in cui ogni singola canzone possiede una propria identità, che la diversifica dalla altre. Tanto che questo nuovo lavoro è probabilmente il migliore da quei due gioielli pubblicati ormai da una ventina d’anni che erano il fulminante esordio Permission To Land (2003) e l’ottimo seguito One Way Ticket To Hell…And Back (2005).

Poi, qualcosa si è inceppato. Justin Hawkins può permettersi, allora, di dire che la sua band "non ha mai smesso di sfornare album di successo, solo che nessuno li compra più", ma così facendo sta solo mettendo le mani avanti. Perché i dischi dei Darkness, almeno in Inghilterra, hanno sempre venduto bene, a discapito, però, di un’ispirazione sempre meno accesa e lavori non all’altezza dei due nobili predecessori. Quindi, ben venga questo nuovo Dreams Of Toast, un disco solo apparentemente confusionario, figlio semmai del desiderio della band britannica di tornare a essere rilevante, dimostrando di saper maneggiare con consapevolezza diversi generi.  

I Darkness hanno messo in piedi la consueta scaletta di una decina di pezzi, restringendo ancor di più il minutaggio (trentatre minuti circa), e strapazzando lo shaker del rock and roll con l’aggiunta di pop, country, hard rock e diverse erbe aromatiche. Non manca, ovviamente, la consueta dose di sfacciataggine e ironia, Justin Hawkins è riuscito, poi, nell’impresa di rendere residuale il suo falsetto (per alcuni da sempre considerato il punto debole della proposta) e tutti sono riusciti a mettere in evidenza i rispettivi punti di forza, tarandoli alla perfezione. Forse è per questo che si sono sentiti abbastanza coraggiosi da pubblicare, fino a oggi, ben sei singoli tratti dall’album.

Dreams On Toast è un ottimo disco, ma talmente eterogeneo da poter soddisfare i gusti più disparati.

"Rock and Roll Party Cowboy" apre il disco con una fucilata rock blues che potrebbe ricordare gli ZZ Top, se non fosse per la consueta dose di ironia nel cantato. Chitarra scatenata e ritornello grezzo quanto basta per far breccia nel cuore dei rocker di lungo corso. "I Hate Myself" è un altro missile sparato ad alzo zero, un rock’n’roll vecchia scuola, roba Cheap Trick, adrenalinico e innervato dalla tensione di un lussurioso sax. "Hot On My Tail" vira in acustico, tra folk, pop e una puntina di Queen, è un brano melodico e acchiappone, così come lo è il riff all’AC/DC di "Mortal Dread", un numero da far saltare come matti sotto il palco, mentre le chitarre sfrigolano di sudore, fino almeno all’improvvisa e straniante svolta gotica verso la fine del brano, che si trasforma, poi, nuovamente in un boogie infuocato.

"Don’t Need Sunshine" è la canzone che vale il prezzo del biglietto, una splendida ballata che richiama alla mente gli ELO, mentre la successiva "The Longest Kiss" porta l’ascoltatore a Liverpool alla corte dei Fab Four. E se "The Battle for Gadget Land" spinge di nuovo il piede sull’acceleratore derapando in territori punk/stoner, la band britannica dimostra una rinvigorita e straordinaria versatilità, misurandosi anche con il country di "Cold Hearted Woman", accattivante, piacevole, e vagamente malinconica.

Chiudono la breve scaletta l’irresistibile "Walking Through The Fire", rock da FM intriso di nostalgia anni ’80, e "Weekend In Rome", che omaggia il nostro paese, attraverso una melodia pop dolce e carezzevole, che si gonfia grazie all’arrangiamento orchestrale e alla sfacciataggine di Hawkins, che gigioneggia con un timbro operistico alla Freddie Mercury.

Dreams On Toast è un disco eterogeneo, al cui interno non c’è solo tutto ciò di cui ha bisogno un album dei Darkness, ma molto di più. Quel retrogusto ironico, quel senso da “non ci prendiamo troppo sul serio” è il collante che tiene in piedi una scaletta variopinta, in cui un rock’n’roll sfacciato e un po’ pomposo torna a scalciare come nei giorni della miglior gloria, mentre l’innata capacità melodica della band assume diverse sfaccettature, trasformando questo nuovo lavoro in un disco un po’ matto, ma divertente come pochi.

Voto: 7,5

Genere: Rock 




Blackswan, venerdì 09/05/2025

giovedì 8 maggio 2025

Yuta Takahashi - La Locanda Dei Gatti e Dei Ricordi (Feltrinelli, 2024)

 


Prima un viaggio in treno da Tokyo, fino a una cittadina di mare nella penisola di Boso. Poi una passeggiata lungo la spiaggia, fino a un vialetto di conchiglie. È lì che si trova “Da Chibi”, una delle poche locande dove, secondo alcuni, viene ancora servito il kagezen: il vassoio d’ombra, il pasto tradizionale giapponese che si cucina per chi non c’è. Le voci narrano che, dopo che il piatto viene messo in tavola, accadano cose strane, che sia possibile mettersi in contatto con la persona di cui più si sente la mancanza. Così, scossa dalla morte improvvisa del fratello, in una mattina luminosa la diciannovenne Kotoko Niki varca la soglia del ristorante, sotto lo sguardo attento di un gatto. Il fratello di Kotoko ha perso la vita in un incidente stradale cercando di proteggerla e lei, piena di rimorsi, spera in un miracolo…

 

Kotoko è distrutta dal dolore, non mangia, non dorme, è attanagliata dai sensi di colpa: in un incidente stradale, ha perso l’amato fratello Yuito, che si è sacrificato, parando il proprio corpo di fronte a un’auto impazzita, salvandole così la vita. Quando, tempo dopo, la ragazza scopre che a un’ora e mezza di treno da Tokio esiste una piccola locanda affacciata sul mare chiamata Da Chibi, decide di partire alla volta del ristorante. Perché lì, dicono, si serve il kagezen, un pasto che si cucina per i defunti, i quali, fino a quando la pietanza è fumante e calda, potrebbero apparire ai propri cari per un ultimo saluto.

Yuta Takahashi, di cui questo è il primo romanzo tradotto in Italia, affronta il tema della morte per celebrare la vita, affonda la penna nel dolore della perdita per vincere le tenebre e aprire il cuore alla luce e alla speranza. Tutto sembra semplice e semplicistico, a partire da una prosa scarna e misuratissima, che non spreca una parola più del necessario, per tenere a distanza il rischio di cadere nella retorica e di sfruttare il pungolo della lacrima per indurre alla facile commozione. Questa scrittura lineare, priva di malizia e disadorna riesce a essere accessibile a chiunque, ma al contempo si veste di una poetica leggiadra e cristallina, che racconta sentimenti profondi tenendosi lontana dal ricatto emotivo, che descrive luoghi ameni e suggestivi cogliendone la pura essenza, che tratteggia in modo vivido personaggi dalle esistenze ordinarie, gente comune con il quale il lettore non farà fatica a identificarsi.

Nonostante il flusso elementare della narrazione, La Locanda Dei Gatti e Dei Ricordi, però, trabocca di spunti di riflessione, alcuni agili da cogliere, altri maggiormente sottesi.

Il romanzo, come dicevamo, parla di morte per cercare di spiegare la complessa bellezza della vita, e pertanto, sprona a inseguire i propri sogni, costi quel che costi, e a non lasciare che il non detto, che l’afasia emotiva, renda irrisolti i rapporti fra esseri umani, li sospenda in un limbo del taciuto a cui, poi, è impossibile rimediare. Takahashi, però, va ancora più a fondo: se vivere è inseguire i propri sogni, ancora più importante è non lasciare che i sogni delle persone a noi care muoiano con loro. Kotoko diviene attrice per onorare il sogno del fratello, Kai tiene aperta la locanda per tenere vivi i desideri della madre: nulla sconfigge la morte come perpetrare, in tutti i modi possibili, ciò che era l’elemento distintivo dei nostri affetti perduti. Onorare i desiderata di chi non c’è più è una forma d’amore altissima, che si nutre di coraggio e che, non solo corrobora il ricordo dei defunti, ma allontana le tenebre dell’oblio, generando uno spirituale abbrivio verso l’eterno.

Che ci siano Proust e la sua iconica madeleine dietro i piatti serviti dalla locanda Da Chibi è del tutto evidente: le pietanze cucinate da Kai innescano lo stesso meccanismo della ricordanza del pasticcino inzuppato nel tè, e il sapore di quei cibi, amati dai nostri defunti e spesso condivisi a tavola, rappresentano l’energia vitale, hic et nunc, con cui il gusto, l’olfatto e il tatto, così carnali, così immediati, rievocano, anche fisicamente, i nostri cari estinti.

Ognuno di noi ha un’assenza nel cuore, un lutto da rielaborare, e in tal senso, La Locanda Dei Gatti e Dei Ricordi è un romanzo dal potere lenitivo, la cui avvolgente dolcezza genera una soave catarsi che riempie il cuore di un’ingenua quanto necessaria speranza. Perché il senso ultimo di questo piccolo ma avvincente libro è che a tutte le persone di buon cuore è fatto dono di una seconda possibilità. Per dare un senso alla propria vita, per rimettere le cose a posto, per provare a essere ancora felici.

PS: cosa cela la misteriosa e simpaticissima figura del gatto Chibi? Al lettore, l’ardua risposta. E’ un traghettatore di anime? E’ la fede? E’ la speranza? E’ Dio? Difficile a dirsi: quando c’è di mezzo un gatto, tutto è possibile.

 

Blackswan, giovedì 08/05/2025

martedì 6 maggio 2025

He Ain’t Heavy, He's My Brother - The Hollies (Parlophone, 1969)

 


Una canzone leggendaria, oggetto di numerose cover, il cui strano titolo deriva dal motto di Boys Town, una comunità formata nel 1917 da un prete cattolico di nome Padre Edward Flanagan.

Situato a Omaha, nel Nebraska, Boys Town era un luogo dove i ragazzi in difficoltà o senza casa potevano richiedere aiuto. Nel 1941, padre Flanagan stava guardando una rivista chiamata The Messenger, quando si imbatté in un disegno di un ragazzo che portava un ragazzo più giovane sulla schiena, con la didascalia: "Non è pesante, signore, è mio fratello".

Padre Flanagan pensava che l'immagine e la frase catturassero lo spirito di Boys Town, quindi ottenne il permesso di utilizzarla e commissionò una statua del disegno con l'iscrizione: "Non è pesante, padre, è mio fratello". La statua e la frase sono diventate, poi, il simbolo identificativo di Boys Town. Nel 1979, quando anche le ragazze furono ammesse all’interno della comunità, il nome fu cambiato in Girls And Boys Town, mentre il logo è stato aggiornato con l'aggiunta del disegno di una ragazza che trasporta una ragazza più giovane.

La storia dei due fratelli, però, non era solo simbolica, ma si riferiva a un fatto realmente accaduto proprio nella comunità di padre Flanegan. Nel 1921, a Boys Town, era residente un ragazzo che aveva difficoltà a camminare. Indossava tutori per le gambe, ma faceva una gran fatica a deambulare, così gli altri ragazzi spesso facevano a turno portandolo in giro sulla schiena.

La vicenda della casa di accoglienza di Boys Town era una di quelle storie edificanti che tanto piacevano all’opinione pubblica americana, cosìcche, nel 1938, uscì nelle sale un film intitolato Boys Town, interpretato da Spencer Tracy, nel ruolo di padre Flanagan, e da Mickey Rooney. Nel 1941, venne addirittura realizzato un sequel intitolato Men Of Boys Town, in cui venne usata per la prima volta la frase "Non è pesante, padre, è mio fratello", parole che successivamente ispirarono una canzone.

"He Ain’t Heavy, He's My Brother" nacque dalla collaborazione fra due grandi compositori del tempo, e cioè Bobby Scott (pianista che aveva collaborato per artisti come Aretha Franklin, Marvin Gaye e Bobby Darin) e Bob Russell (paroliere alla corte di Duke Ellington e Carl Sigman), che morì poco dopo a causa di una grave malattia.

Questa fu pubblicata originariamente come singolo da Kelly Gordon, cantante, songwriter e produttore, noto per aver messo mano a "Ode To Billie Joe" di Bobbie Gentry, brano che nel 1968 vinse ben tre Grammy Awards.

Il brano, però, raggiunse un considerevole successo quando, sempre nello stesso anno, fu pubblicata come singolo dagli Hollies (che nel frattempo avevano perso Graham Nash, che era andato a formare i CS&N). Questi erano alla ricerca di canzoni da interpretare, quando nelle mani del chitarrista Tony Hicks finì la demo di "He Ain’t Heavy, he's My Brother", che precedentemente era stata offerta a Joe Cocker, il quale l’aveva sdegnosamente rifiutata. Hicks si innamorò subito del brano, ma lo riteneva troppo lento e troppo sdolcinato, come se fosse un 45 giri suonato alla velocità di un 33.

Quando lo propose alla band, gli Hollies si misero al lavoro, lo accelerarono e unirono l’orchestra, lasciando invariati solo i testi di Russell, che di lì a poco, come accennato, sarebbe morto, ragion per cui la band rinunciò alle royalties derivanti dalla pubblicazione. In quelle sessioni di registrazione, al pianoforte compare un imberbe Elton John, che hai tempi lavorava come turnista e che fu pagato, per il suo contributo, “la bellezza” di 12 sterline.

La canzone, che nella versione degli Hollies raggiunse la terza piazza delle classifiche inglesi e la settima di quelle statunitensi, è stata nel tempo coverizzata da moltissimi artisti, tra cui Neil Diamond, Gotthard e dagli Housemartins sul loro disco d’esordio, London 0 Hall 4, in una suggestiva versione a cappella.

 


 

 

Blackswan, martedì 06/05/2025