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venerdì 26 luglio 2013

THE BLACKWATER FEVER – THE DEPHTS

C’è un filo scurissimo che lega fra loro le quattordici canzoni di The Dephts, un filo che congiunge gli immensi spazi desertici dell’Australia più selvaggia ad un notturno metropolitano al neon. Un filo intrecciato di blues e di rock, di scariche elettriche e sporcizia noise, di scenari confinanti con l’horror e tormenti di notti malate e insonni. Non è un caso infatti che i Blackwater Fever traggano il loro nome da una rara ed esiziale variante della malaria. Ne è un caso che The Dephts, opera terza del duo originario di Brisbane,rappresenti l’acme parossistico di una patologia i cui sintomi deturpano i lineamenti del blues con ulcere goth e piaghe post hardcore. Volendo semplificare a uso e consumo di chi legge, si potrebbe raccontare di una musica che ripete la lezione tenebrosa di Re Inchiostro Nick Cave, qui richiamato alla mente dallo psychobilly sbilenco di Don’t Fuck With Joe. Sarebbe in realtà un’eccessiva banalizzazione : se è vero infatti che in qualche modo la contiguità geografica e l’attitudine all’incubo servono il paragone su un vassoio d’argento, è altrettanto vero che la potenza di tiro dei Blackwater Fever si serve di chitarre di grosso calibro, pronte a ringhiare in faccia al nemico senza accondiscendenza alcuna. Seven White Horses possiede il passo cadenzato e geometrico del post core alla Jesus Lizard, Can’t Help Yourself rilegge in chiave orrorifica l’energia primordiale dei Black Keys, Now She’s Gone è un rock blues che combatte col coltello fra i denti, End Of Time suona come un power rock dei Foo Fighter che si sono scordati del sole, On My Mind è una ballata nirvaniana dall’incedere straniante, When The Night Comes chiama in causa addirittura i God Machine di One Last Laught…, mentre Won’t Cry Over Me, proposta come secondo singolo, terrebbe botta anche alla radio grazie a uno swing mozzafiato. Il risultato è uno dei dischi più affascinanti di questo 2013, di non facile digeribilità ma alla lunga estremamente eccitante, cupo senza essere però claustrofobico, crepuscolare senza indugiare nella malinconia, ma intriso semmai di un’emotività elettrica a tratti destabilizzante (ascoltate l’incredibile Oh Deceit che intinge nella pece, trafigurandoli in un martirio, i melodici anni ’60). Un disco foto fobico, l’esatto opposto di tutto ciò che è estate, sole e leggerezza. Ascoltato in spiaggia, tra ombrelloni, sdraio e bambini urlanti, è una bella botta di adrenalina. 

VOTO : 8,5
 
 
 
 
Blackswan, venerdì 26/07/2013

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