" I Del Lords... qualcosa mi
dicono ma non mi ricordo bene cosa". Immagino che più o meno possa essere
questa la prima cosa che viene in mente leggendo il nome della band newyorkese.
Non è semplice richiamare alla memoria questo gruppo, occorre spolverare la
soffitta dei nostri ricordi musicali e fare un viaggio a ritroso nel tempo fino
a metà degli anni '80, quando i Del Lords debuttavano con un disco forse un pò
ingenuo ma sicuramente sincero e vibrante, Frontier Days (1984). Eric
Ambel alla chitarra e Scott Kempner (voce e chitarra) erano una coppia di
musicisti onnivori, votati a una filosofia rock'n'roll che
rimasticava le radici americane con un occhio alla citazione e uno puntato
ai suoni ruvidi del garage punk. Testi impegnati e rabbiosi, disillusi e
malinconici, sempre dalla parte dei perdenti e dei diseredati, e una musica che
mescolava varie influenze, dal blues al country, dal rock springsteeniano allo
swamp e al power pop, i Del Lords diedero vita a una gagliarda, quanto
breve stagione, in cui videro la luce quattro album (assolutamente imperdibile
Johnny Comes Marching Home del 1986) e che terminò nel 1990, relegando il
quartetto nell'archivio delle band di culto. Oggi, a distanza di ventritrè anni
dal loro canto del cigno, Lovers Who Wander (1990), i Del Lords sono tornati a
noi in formazione quasi completa (manca il bassista Manny Caiati sostituito
nell'occasione da Michael Duclos) e con un disco nuovo di pacca.
L'impressione,
fin dal primo ascolto, è sorprendente : se il tempo trascorso solitamente
immalinconisce spirito e fisico, l'effetto sortito sui quattro ex-ragazzi di
New York è diametralmente opposto. Nè polvere nè ruggine : Elvis Club ha lo stesso
suono grintoso e pimpante che avevano i loro album due decenni fa.
Smaliziata abilità strumentale, melodie scintillanti e chitarre assassine
per un rock operaio e metropolitano, che non disdegna
tuttavia momenti più morbidi, come nella bellissima All Of My Life,
reminiscenze anni '50 (Damaged), e coloratissima bigiotteria roots
screziata di pop (Flying). Se la giocano così i Del Lords, come hanno sempre
fatto : piedi ben saldi per terra, suoni spigolosi ma puliti, ritmica ruspante,
il basso profilo e l'umiltà del mediano che fatica a centrocampo, salvo
poi inventarsi la giocata meraviglia che fa spellare le mani dagli
applausi. Così, dopo 11 canzoni che ci hanno fatto ballare, cantare e sudare,
la conclusione del disco è affidata a una superba (e arrembante) Southern
Pacific, cover di un'anonima canzone di Neil Young, presente in uno dei dischi
meno riusciti del chitarrista canadese (Reactor del 1981). Nelle mani dei Del
Lords quel brano si trasforma, esce dall'oblio e torna a ruggire come un
vecchio leone ferito che assesta la zampata decisiva. Degna conclusione di un
album in cui tutto è azzeccato, perfino il titolo : le radici, Memphis e Elvis
sempre nel cuore, e quell' inesausta e verace attitudine a salire sul
palco per darci dentro con un sudatissimo rock'n'roll.
VOTO : 7,5
Blackswan, lunedì 01/07/2013
Uhm... questo Flying mi ha davvero riportata indietro di venticinque anni :)
RispondiEliminaCi voleva.
Bella colonna sonora per un viaggio. *_*
Se le reminiscenze sono di classe come con loro, tutto é O.K.!
RispondiEliminaStesso pensiero di The Mist,musica per un viaggio
RispondiEliminaCiao Black :)
Perfetta l'etichetta Music for the killer: questi sono proprio i tuoi territori:-)
RispondiEliminaE poi, come si ripete da sempre, quando la musica è buona e fatta bene, non servono novità.