Per un grande disco ci vogliono due recensioni, due diversi
punti di vista, due voci che, nello specifico cantano nello stesso coro, eppure
con due tonalità leggermente sfasate. E’ quello che abbiamo pensato io e
Alessandro, quale primo atto concreto di una collaborazione a distanza volta a
promuovere la cultura americana, passione che infiamma entrambi. Ci saranno
altri scritti, ci sarà la radio, ci sarà a breve un’associazione che ci
porterà, lo speriamo, a fare grandi cose. Vi terremo aggiornati. Nel frattempo,
godetevi questo disco dei Counting Crows (in uscita nei negozi a partire dal 16
settembre), perché è davvero una bomba.
Ogni
nuovo disco dei Counting Crows segna un periodo. E' inevitabile, se si pensa
che non hanno mai brillato per prolificità. August
and everything after (1993) veniva da un lotto di canzoni tra
cui scegliere, con una scrittura talmente elevata da provocare
vertigini, e Recovering
the satellites (1996) ha sfruttato la scia del successo planetario
(tutto meritato) del suo predecessore, scegliendo un approccio più rock ed
elettrico, secondo molti pastrocchiando un po' troppo con suoni e testi,
secondo il sottoscritto registrando un raro capolavoro di chitarre, pianoforte
e melodia.
Con
This desert life si
è cercato di ancorarsi alle radici del rock americano per andare oltre, e
sperimentare qualche nuova forma canzone, a volte allungata altre volte ridotta
al minimo concesso (strofa/ritornello e via). Rispettando la regola di un disco
ogni tre anni, ecco poi Hard
Candy (2002) forse il punto meno alto della loro discografia, con
tante idee non messe a fuoco, l'allargamento della formazione a sette elementi
(solo oggi hanno probabilmente trovato la giusta potenzialità di un gruppo così
ampio) e la necessità di cercare per forza un singolo ("American
Girls", troppo pop anche se sempre con il gusto Counting Crows). Dopo il
2002, in ben dodici anni, due soli dischi. Prima lo stupendo Saturday Nights & Sunday
Mornings , anno di grazia 2008, con una prima parte volutamente
sopra le righe (chitarre, chitarre e chitarre) ed una seconda volutamente
riflessiva. Ed ora, Somewhere
under wonderland, il disco che prima o poi i Counting Crows
dovevano fare.
Innanzitutto.
I Counting Crows hanno tutte le caratteristiche per diventare la
rock/folk/americana band più caratteristica di un intero genere. L'ugola
talentuosa di Adam Duritz, uno di quelli capaci di cantare l'elenco telefonico
facendoci piangere dalla passione e dall'emozione, a cui aggiungere una
penna letteraria oggi senza pari; il genio di Charlie Gillingham ad armeggiare
tra piano, organo e mellotron, forse il più completo ed al contempo il più
vintage dei tastieristi in circolazione; la chitarra poderosa di Jimmi
Immergluck e quella maliziosa, sempre pronta ad assoli che si stampano in testa
come carta carbone di Dan Vickrey; un chitarrista ritmico (nonché ottimo
produttore ed armeggiatore di suoni) come David Bryson e poi una sezione
ritmica creata rubando i migliori elementi alle band del genere. Non sempre da
un buon arsenale si ricava un'arma degna delle aspettative, ma se già il
precedente disco era da mettere in bacheca tra le cose migliori mai sfornate, Somewhere under wonderland sono
i Counting Crows che si presentano nella loro veste più rilassata, senza dover
dimostrare nulla a nessuno.
Il
disco si apre e si chiude con due immense canzoni. "Palisades Park",
scelto anche come singolo, rivela il grado di libertà che Duritz abbia
raggiunto come cantante, leader e scrittore. Più di otto minuti di canzone,
introdotti da un minuto di tromba e piano, per poi esplodere in un pianoforte
come non se ne sentono da anni. Adam canta, narra, rincorre le parole senza
soluzione di continuità e nel finale si lascia andare ad un flusso della
coscienza che ricorda (finalmente) le sue improvvisazioni dal vivo.
"Palisades Park" riesce, per la prima volta nella loro discografia,
ad imprimere su un disco di inediti la profondità di Duritz ed il suo rapporto
con la parola.
Dalla
parte opposta del disco, un brano come "Possibility Days", più
romantica e nel solco della tradizione dei Corvi, ma per fortuna che ancora
oggi riescono a scrivere brani così toccanti. Il suo
incipit narrativo:
Guess you stayed 'cause you wanted to stay"
dice
già tutto di quanto la vita di questo enorme paese sia nella penna di questo
grande talento.
In
mezzo a queste due canzoni c'è un po' di tutto. Il country rock di "Cover
up the sun", l'impeto di "Dislocation" (e qui Recovering the satellites è
dietro l'angolo), le atmosfere unplugged della stupenda "God of ocean
tides" , in realtà la cosa più vicina a Saturday
Nights & Sunday Mornings. Ma se c'è un brano da nominare per
capire cosa sono oggi i Counting Crows, allora "Scarecrow" è la
miglior presentazione possibile. Un mid-tempo dal gusto vintage, belle chitarre
in evidenza ma senza invadere troppo, un Hammond che entra nella canzone come
una lama nel burro, una melodia cristallina ed Adam che gioca con le parole
come un raffinato professore di semantica che gioca con assonanze e doppi sensi
:
And the undercover Russians in a pink Rolls Royce
They bang the drum, she sets the beat
They carry Miss America out into the street
She sings snowman, scarecrow, John Doe, buffalo!"
Eccoli i Counting Crows del 2014, molto più consapevoli del loro potenziale. Forse il precedente Saturday Nights & Sunday Mornings poteva contare su una scrittura ed intuizioni più ispirate, ma Somewhere under wonderland è uno di quei dischi da portarsi in giro per il mondo e non aver bisogno di altro.
Per chi scrive, la migliore rock band del mondo.
VOTO : 8,5
Alessandro Raggi, lunedì 01/09/2014
Non è un caso se quando mi trovo a parlare dei
Counting Crows il mio discorso parta sempre dal loro esordio, da August
And Everything After, pubblicato nell'anno di grazia 1993. Quel disco, tra i
più importanti della mia vita e legato a un'infinità di bei ricordi, non solo
restituì passione a tanti cultori di Americana, che in quegli anni '90 si
trovarono di colpo ad avere le tasche piene di pietre preziose (i Jayhawks di
Hollywood Town Hall, i Black Crowes di The Sothern Harmony), ma avvicinò
al genere tanti giovani stufi dei suoni ruvidi provenienti da Seattle
(ormai peraltro in fase di normalizzazione). Potremmo discutere ore sulla
preminenza di questo gruppo sull'altro o sul primato di bellezza dei
dischi del periodo; ciò nonostante, la mia convinzione personale è che
l'esordio dei Counting Crows avesse qualcosa in più, un carico di suggestioni
che rendeva August... non solo un disco intensissimo, ma soprattutto un
disco sostanzialmente diverso. Non parlo solo di suono o di un songwriting
senza sbavature: ciò che rendeva davvero unico quell'esordio era un mood
malinconico ai limiti della disperazione e il cantato recitativo
e traboccante di lacrime di Adam Duritz. Segni distintivi che in
seguito divennero il vero limite delle composizioni della band, non sempre in
grado di trovare misura e sintesi, ma spesso preda di
un'autoindulgente verbosità. Da questo punto di vista, Somewhere Under Wonderland
è una sorta di nuovo inizio, un disco che si sgrava della pesante eredita di
August, che abbandona certi pattern ormai usurati e che rilancia la band oltre
quella recenzione in cui la musica di Duritz e compagni aveva trovato terreno
fertile per replicarsi con mestiere, ma senza grande fantasia. Un nuovo inizio,
dicevamo, che presenta due sostanziali novità. Come mai prima, le canzoni si
presentano equilibrate, dirette, asciugate da fronzoli e orpelli; e come mai
prima, Somewhere Under Wonderland suona come un disco rock, prepotentemente
rock, senza che, tuttavia, questa nuova carica di energia venga ad
assorbire per intero il lato più malinconico e meditabondo che da sempre
caratterizza il sound della band californiana.
Un lavoro essenziale e diretto
che, per converso, si apre con Palisades Park, una delle canzoni più
lunghe e complesse della discografia dei corvi: otto minuti
abbondanti, eppure non una nota in più o fuori posto, una piccola suite in
cui tutto è necessario, un capolavoro a incastro (intelaiatura jazzy,
digressioni improvvise, ritornello scalpitante) in cui domina la voce
multiforme di Adam Duritz, che sceglie però la strada della
narrazione a scapito della consueta recitazione. E che Palisades Park sia una
canzone immensa, non vi sono dubbi: finisce e hai già voglia di
riascoltarla, e a ogni nuovo ascolto scopri un particolare che ti era sfuggito,
un'intonazione, un leggero controtempo, un palpito, un battito del cuore. Tanto
bella che se anche il disco finisse ora, saremmo definitivamente appagati,
inebriati da un ritorno che nessuno avrebbe scommesso così intenso.
C'è dell'altro però, ci sono altre otto canzoni (siamo al minimo storico)
che costituiscono una scaletta coesa, compatta, sostanziosa, a tratti, persino
possente. Earthquake Driver e Dislocation mostrano i muscoli del rock ma
possiedono anche grandi potenzialità radiofoniche; Scarecrow pesca un
ritornello dalla melodia cristallina; Elvis Went to Hollywood regala un
inusitato tripudio di chitarre; God Of Ocean Tides ritorna esattamente là, dove
tutto ebbe inizio, somewhere in the middle of America, mentre il country rock
di Cover Up The Sun suona come un classico dei Greatful Dead in prospettiva
2.0. Concludono il disco John Appleseed's Lament, l'unico brano "normale
" in scaletta, e Possibility Day, in cui Duritz vola altissimo,
regalandoci una delle "sue" canzoni, quattro minuti
acustici, intimi, commossi. Pronto ovviamente a essere smentito da
chiunque, ho l'impressione che per trovare un disco dei Counting Crows così
bello e convincente debba tornare indietro nel tempo fino a Recovering The
Satellites. Era il 1996 e sono passati quasi vent'anni.
Tuttavia, questa resta una delle poche band del pianeta che,
quando è in credito di ispirazione, riesce ancora a far battere il mio cuore di
un amore appassionato e sincero.
Un grande disco.
VOTO: 9
Blackswan, lunedì 01/09/2014
Passo per un grandissimo saluto. Sappi che non mi perdo nessuno dei tuoi post, nonostante non mi fermi a commentare ma ... immagazzino attentamente :)
RispondiEliminaCiao
Francesca
@ Francesca: grazie, è un onore e un piacere :)
RispondiEliminaLi ho sempre adorati, e a questo punto dovrò mettermi sotto anche con questo nuovo disco.
RispondiEliminaLi ho amati profondamente,
RispondiEliminapasserò quanto prima all'ascolto di questo lavoro.
P.S. il 23.11 saranno all'Alcatraz...
Sempre piaciuti tanto. Anche se da quando i miei figli sono in fissa con Shrek mi stanno andando un po' in disgrazia... ;)
RispondiEliminaUna buona media, mi sa ;)
RispondiEliminaallora...in primis che bravi! bellissime recensioni!! spero questa vostra collaborazione continui. Mi piace assai la penna di Ale ;))
RispondiEliminain secundis...Countring Crows finalmente!!! : quanto, troppo tempo ad aspettarli. Il disco di cover pure molto bello (Underwater Sunshine del 2012) me li ha fatti desiderare tornare con canzoni tutte loro. E guarda un po´come tornano. Che bel disco. Che Duritz. Pochi,pochissimi gruppi mi emozionano come loro , pochi cantanti come lui.
Ciao, alzo il volume.....
un abrazo
It's a long wait
At a long light
Cars frozen in flight
All the traffic stops to stare
At a crosswalk in Reno, Nevada
Where nothing but air
And a pair of gray paper wings
Andy thinks that I have got nothing to wear
We got nothing new and
We got nothing to wear
We got nothing to wear