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lunedì 1 settembre 2014

COUNTING CROWS - SOMEWHERE UNDER WONDERLAND





Per un grande disco ci vogliono due recensioni, due diversi punti di vista, due voci che, nello specifico cantano nello stesso coro, eppure con due tonalità leggermente sfasate. E’ quello che abbiamo pensato io e Alessandro, quale primo atto concreto di una collaborazione a distanza volta a promuovere la cultura americana, passione che infiamma entrambi. Ci saranno altri scritti, ci sarà la radio, ci sarà a breve un’associazione che ci porterà, lo speriamo, a fare grandi cose. Vi terremo aggiornati. Nel frattempo, godetevi questo disco dei Counting Crows (in uscita nei negozi a partire dal 16 settembre), perché è davvero una bomba. 


Ogni nuovo disco dei Counting Crows segna un periodo. E' inevitabile, se si pensa che non hanno mai brillato per prolificità. August and everything after (1993) veniva da un lotto di canzoni tra cui scegliere, con una scrittura talmente elevata da provocare vertigini, e Recovering the satellites (1996) ha sfruttato la scia del successo planetario (tutto meritato) del suo predecessore, scegliendo un approccio più rock ed elettrico, secondo molti pastrocchiando un po' troppo con suoni e testi, secondo il sottoscritto registrando un raro capolavoro di chitarre, pianoforte e melodia.
Con This desert life si è cercato di ancorarsi alle radici del rock americano per andare oltre, e sperimentare qualche nuova forma canzone, a volte allungata altre volte ridotta al minimo concesso (strofa/ritornello e via). Rispettando la regola di un disco ogni tre anni, ecco poi Hard Candy (2002) forse il punto meno alto della loro discografia, con tante idee non messe a fuoco, l'allargamento della formazione a sette elementi (solo oggi hanno probabilmente trovato la giusta potenzialità di un gruppo così ampio) e la necessità di cercare per forza un singolo ("American Girls", troppo pop anche se sempre con il gusto Counting Crows). Dopo il 2002, in ben dodici anni, due soli dischi. Prima lo stupendo  Saturday Nights & Sunday Mornings , anno di grazia 2008, con una prima parte volutamente sopra le righe (chitarre, chitarre e chitarre) ed una seconda volutamente riflessiva. Ed ora, Somewhere under wonderland, il disco che prima o poi i Counting Crows dovevano fare. 




Innanzitutto. I Counting Crows hanno tutte le caratteristiche per diventare la rock/folk/americana band più caratteristica di un intero genere. L'ugola talentuosa di Adam Duritz, uno di quelli capaci di cantare l'elenco telefonico facendoci piangere dalla passione e dall'emozione, a cui  aggiungere una penna letteraria oggi senza pari; il genio di Charlie Gillingham ad armeggiare tra piano, organo e mellotron, forse il più completo ed al contempo il più vintage dei tastieristi in circolazione; la chitarra poderosa di Jimmi Immergluck e quella maliziosa, sempre pronta ad assoli che si stampano in testa come carta carbone di Dan Vickrey; un chitarrista ritmico (nonché ottimo produttore ed armeggiatore di suoni) come David Bryson e poi una sezione ritmica creata rubando i migliori elementi alle band del genere. Non sempre da un buon arsenale si ricava un'arma degna delle aspettative, ma se già il precedente disco era da mettere in bacheca tra le cose migliori mai sfornate, Somewhere under wonderland  sono i Counting Crows che si presentano nella loro veste più rilassata, senza dover dimostrare nulla a nessuno.
Il disco si apre e si chiude con due immense canzoni. "Palisades Park", scelto anche come singolo, rivela il grado di libertà che Duritz abbia raggiunto come cantante, leader e scrittore. Più di otto minuti di canzone, introdotti da un minuto di tromba e piano, per poi esplodere in un pianoforte come non se ne sentono da anni. Adam canta, narra, rincorre le parole senza soluzione di continuità e nel finale si lascia andare ad un flusso della coscienza che ricorda (finalmente) le sue improvvisazioni dal vivo. "Palisades Park" riesce, per la prima volta nella loro discografia, ad imprimere su un disco di inediti la profondità di Duritz ed il suo rapporto con la parola.
Dalla parte opposta del disco, un brano come "Possibility Days", più romantica e nel solco della tradizione dei Corvi, ma per fortuna che ancora oggi riescono a scrivere brani così toccanti. Il suo incipit narrativo: 

"It was a cold 3 A.M. at JFK
Guess you stayed 'cause you wanted to stay" 

dice già tutto di quanto la vita di questo enorme paese sia nella penna di questo grande talento.
In mezzo a queste due canzoni c'è un po' di tutto. Il country rock di "Cover up the sun", l'impeto di "Dislocation" (e qui Recovering the satellites è dietro l'angolo), le atmosfere unplugged della stupenda "God of ocean tides" , in realtà la cosa più vicina a Saturday Nights & Sunday Mornings. Ma se c'è un brano da nominare per capire cosa sono oggi i Counting Crows, allora "Scarecrow" è la miglior presentazione possibile. Un mid-tempo dal gusto vintage, belle chitarre in evidenza ma senza invadere troppo, un Hammond che entra nella canzone come una lama nel burro, una melodia cristallina ed Adam che gioca con le parole come un raffinato professore di semantica che gioca con assonanze e doppi sensi : 

"you know what I know about the bedroom boys
And the undercover Russians in a pink Rolls Royce
They bang the drum, she sets the beat
They carry Miss America out into the street
She sings snowman, scarecrow, John Doe, buffalo!"

Eccoli i Counting Crows del 2014, molto più consapevoli del loro potenziale. Forse il precedente Saturday Nights & Sunday Mornings poteva contare su una scrittura ed intuizioni più ispirate, ma Somewhere under wonderland è uno di quei dischi da portarsi in giro per il mondo e non aver bisogno di altro.
Per chi scrive, la migliore rock band del mondo. 

VOTO : 8,5





Alessandro Raggi, lunedì 01/09/2014

Non è un caso se quando mi trovo a parlare dei Counting Crows il mio discorso parta sempre dal loro esordio, da August And Everything After, pubblicato nell'anno di grazia 1993. Quel disco, tra i più importanti della mia vita e legato a un'infinità di bei ricordi, non solo restituì passione a tanti cultori di Americana, che in quegli anni '90 si trovarono di colpo ad avere le tasche piene di pietre preziose (i Jayhawks di Hollywood Town Hall, i Black Crowes di The Sothern Harmony), ma avvicinò al genere tanti giovani stufi dei suoni ruvidi provenienti da Seattle (ormai peraltro in fase di normalizzazione). Potremmo discutere ore sulla preminenza di questo gruppo sull'altro o sul primato di bellezza dei dischi del periodo; ciò nonostante, la mia convinzione personale è che l'esordio dei Counting Crows avesse qualcosa in più, un carico di suggestioni che rendeva August... non solo un disco intensissimo, ma soprattutto un disco sostanzialmente diverso. Non parlo solo di suono o di un songwriting senza sbavature: ciò che rendeva davvero unico quell'esordio era un mood malinconico ai limiti della disperazione e il cantato recitativo e traboccante di lacrime di Adam Duritz. Segni distintivi che in seguito divennero il vero limite delle composizioni della band, non sempre in grado di trovare misura e sintesi, ma spesso preda di un'autoindulgente verbosità. Da questo punto di vista, Somewhere Under Wonderland è una sorta di nuovo inizio, un disco che si sgrava della pesante eredita di August, che abbandona certi pattern ormai usurati e che rilancia la band oltre quella recenzione in cui la musica di Duritz e compagni aveva trovato terreno fertile per replicarsi con mestiere, ma senza grande fantasia. Un nuovo inizio, dicevamo, che presenta due sostanziali novità. Come mai prima, le canzoni si presentano equilibrate, dirette, asciugate da fronzoli e orpelli; e come mai prima, Somewhere Under Wonderland suona come un disco rock, prepotentemente rock, senza che, tuttavia, questa nuova carica di energia venga ad assorbire per intero il lato più malinconico e meditabondo che da sempre caratterizza il sound della band californiana. 



Un lavoro essenziale e diretto che, per converso, si apre con Palisades Park, una delle canzoni più lunghe e complesse della discografia dei corvi: otto minuti abbondanti, eppure non una nota in più o fuori posto, una piccola suite in cui tutto è necessario, un capolavoro a incastro (intelaiatura jazzy, digressioni improvvise, ritornello scalpitante) in cui domina la voce multiforme di Adam Duritz, che sceglie però la strada della narrazione a scapito della consueta recitazione. E che Palisades Park sia una canzone immensa, non vi sono dubbi: finisce e hai già voglia di riascoltarla, e a ogni nuovo ascolto scopri un particolare che ti era sfuggito, un'intonazione, un leggero controtempo, un palpito, un battito del cuore. Tanto bella che se anche il disco finisse ora, saremmo definitivamente appagati, inebriati da un ritorno che nessuno avrebbe scommesso così intenso. C'è dell'altro però, ci sono altre otto canzoni (siamo al minimo storico) che costituiscono una scaletta coesa, compatta, sostanziosa, a tratti, persino possente. Earthquake Driver e Dislocation mostrano i muscoli del rock ma possiedono anche grandi potenzialità radiofoniche; Scarecrow pesca un ritornello dalla melodia cristallina; Elvis Went to Hollywood regala un inusitato tripudio di chitarre; God Of Ocean Tides ritorna esattamente là, dove tutto ebbe inizio, somewhere in the middle of America, mentre il country rock di Cover Up The Sun suona come un classico dei Greatful Dead in prospettiva 2.0. Concludono il disco John Appleseed's Lament, l'unico brano "normale " in scaletta, e Possibility Day, in cui Duritz vola altissimo, regalandoci una delle "sue" canzoni, quattro minuti acustici, intimi, commossi. Pronto ovviamente a essere smentito da chiunque, ho l'impressione che per trovare un disco dei Counting Crows così bello e convincente debba tornare indietro nel tempo fino a Recovering The Satellites. Era il 1996 e sono passati quasi vent'anni. Tuttavia, questa resta una delle poche band del pianeta che, quando è in credito di ispirazione, riesce ancora a far battere il mio cuore di un amore appassionato e sincero.
Un grande disco.

VOTO: 9





Blackswan, lunedì 01/09/2014



7 commenti:

  1. Passo per un grandissimo saluto. Sappi che non mi perdo nessuno dei tuoi post, nonostante non mi fermi a commentare ma ... immagazzino attentamente :)
    Ciao
    Francesca

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  2. @ Francesca: grazie, è un onore e un piacere :)

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  3. Li ho sempre adorati, e a questo punto dovrò mettermi sotto anche con questo nuovo disco.

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  4. Li ho amati profondamente,
    passerò quanto prima all'ascolto di questo lavoro.

    P.S. il 23.11 saranno all'Alcatraz...

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  5. Sempre piaciuti tanto. Anche se da quando i miei figli sono in fissa con Shrek mi stanno andando un po' in disgrazia... ;)

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  6. allora...in primis che bravi! bellissime recensioni!! spero questa vostra collaborazione continui. Mi piace assai la penna di Ale ;))

    in secundis...Countring Crows finalmente!!! : quanto, troppo tempo ad aspettarli. Il disco di cover pure molto bello (Underwater Sunshine del 2012) me li ha fatti desiderare tornare con canzoni tutte loro. E guarda un po´come tornano. Che bel disco. Che Duritz. Pochi,pochissimi gruppi mi emozionano come loro , pochi cantanti come lui.
    Ciao, alzo il volume.....
    un abrazo

    It's a long wait
    At a long light
    Cars frozen in flight
    All the traffic stops to stare
    At a crosswalk in Reno, Nevada
    Where nothing but air
    And a pair of gray paper wings
    Andy thinks that I have got nothing to wear
    We got nothing new and
    We got nothing to wear
    We got nothing to wear

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