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domenica 30 novembre 2014

THE ART OF MC CARTNEY – VARIOUS ARTISTS




Ha senso un tributo a Paul McCartney? Cosa può dire un disco di cover di sue canzoni che la storia non abbia già detto ? Perché radunare un’illustre truppa di musicisti, alcuni dei quali, però, al buon Paul, non dovrebbero accostarsi se non per dargli una lucidatina alle scarpe (Owl City)? Meglio sarebbe stato erigere un statua equestre a imperitura memoria, per ricordarsi che certe canzoni non si toccano, nemmeno con un fiore. Invece, in questo doppio album, si fanno le cose alla grandissima: a parte alcune incomprensibili comparsate (di nuovo Owl City), confluiscono nelle trentaquattro tracce in scaletta nomi altisonanti del calibro di Bob Dylan, Billy Joel, B.B. King, Willie Nelson, Yusuf, Kiss, e chi più ne ha ne metta. Insomma, la meglio senescenza dello star system è riunita tutta qui. Tantissima carne al fuoco per una grigliata che però, alla fine dei conti, risulta altamente indigesta, per tutta una serie di motivi che vivono in re ipsa nell’operazione. Trentaquattro canzoni, ad esempio, sono tante, troppe, e si finisce per disperdere l’attenzione dell’ascoltatore che, soprattutto se neofita, si trova a confrontarsi con un marasma di stili che spesso mal si adattano al songwriting di Paul. In secondo luogo, è questa è la cosa che più salta all’orecchio, il materiale è talmente immenso per caratura (è possibile cimentarsi scientemente con una cover di Let It Be, Hey Jude o Eleanor Rigby?), che anche gli artisti più scafati, si limitano al compitino da minimo sindacale per non finire vittime di imbarazzanti confronti. Il risultato finale è quello di ascoltare, tra sbadigli e risate, un doppio disco dalle atmosfere da piano bar: dal copia-incolla di Chrissie Hynde, che non sposta di una virgola le note di Let It Be, al karaoke di Harry Connick Jr su My Love, fino all’esilarante prova di Roger Daltrey che cerca di strangolarsi con le proprie corde vocali nel tentativo di replicare Helter Skelter. Quindi, a meno che non siate dei masochisti, se proprio volete avere a casa un raccoltone delle canzoni di McCartney, compratevi uno dei tanti greatest hits in circolazione: risparmierete denaro e timpani.

VOTO: 5





Blackswan, domenica 30/11/2014

venerdì 28 novembre 2014

AC/DC - ROCK OR BUST



Che ci vuole a parlare male del nuovo album degli Ac/Dc? E' un attimo. Anzi, in molti, senza nemmeno avere ascoltato una nota di Rock Or Bust, staranno già scaldando la penna, pronti a raccontare l'ennesimo disco fiacco di un gruppo di musicisti bolliti, che suona da decenni musica senza contenuti (Gesù, ma chi ne ha ?). E poi, diciamolo: a parlarne bene si rischia di far la figura del passatista, del vecchio rocker che è rimasto fossilizzato in un valvolare degli anni '70 e non sa apprezzare le gioie creative della musica ggiovane. Insomma, si finisce inevitabilmente per perdere credibilità e impataccarsi il curriculum in modo indelebile. Fortunatamente, il sottoscritto non ha mai avuto nè un curriculum nè credibilità e quindi può dire esattamente quel che pensa. Ad esempio, che gli Ac/Dc è dalla notte dei tempi che hanno cristallizzato un suono fra i più imitati dell'universo e che fanno da secoli sempre lo stesso disco (in ambito indie si parla spesso di coerenza artistica), che a volte suona bene e altre un pò meno. E allora ? Qual è il problema ? Se sei un fan del gruppo o semplicemente ami la musica rock senza orpelli e condimenti è esattamente quello che ti aspetti. D'altra parte, provate a rispondere con sincerità a questa domanda: chi mai comprerebbe un disco degli Ac/Dc che non suoni esattamente come un disco degli Ac/Dc? Probabilmente, nessuno. Fatta questa premessa, occorre disegnare brevemente il quadro d'insieme. Non è un bel momento per la band capitanata dal folletto Angus Young: il fratello Malcom, infatti, ha dato per sempre l'addio alle scene (o qualcuno l'ha fatto per lui), visto che è affetto da conclamata demenza senile (è stato sostituito dal nipote Steve Young), mentre il batterista Phil Rudd rischia di essere associato alle patrie galere americane, per possesso di stupefacenti e per aver assoldato un killer con l'intenzione di uccidere due persone. Considerato questo quadro a tinte fosche e tenuto conto che il precedente Black Ice era uno di quei dischi degli Ac/Dc che suonava meno bene degli altri, non vi erano grandi speranze per la riuscita del loro sedicesimo full lenght. Invece, proprio in virtù della premessa posta a inizio recensione, posso affermare che, anche dopo ripetuti ascolti, Rock Or Bust funziona decisamente bene. Se volete ve lo ripeto ancora, in modo da non creare fraintendimenti: le undici canzoni di Rock Or Bust si nutrono del solito boogie rock tirato all'inverosimile, che alterna riffoni e assoli senza soluzione di continuità. Eppure, la band, per qualche strano motivo, sembra rivitalizzata, come avesse ritrovato un'antica grinta che in qualche precedente episodio appariva essersi irrimediabilmente smarrita. Nulla di eclatante, per carità, ma questa volta oltre al mestiere, c'è qualcosa in più. Angus è meno pirotecnico e più incisivo e Brian Johnson ha ritrovato una potenza nell'ugola che francamente non ricordavo. E poi, ci sono le canzoni, che rispetto a quelle di Black Ice, pur nel loro risaputo deja vu, appaiono più incisivamente connotate da specifiche peculiarità (rock blues): manca una Back In Black, ma la tripletta che apre la seconda parte del disco, Hard Time, Baptism By Fire (che riff !) e Rock The House (Zeppelin docet) lascia davvero il segno. Un disco che in definitiva non deluderà le aspettative di chi si attende che gli Ac/Dc continuino a fare esattamente quello che sanno fare meglio: regalarci il loro rock sudatissimo e mettere alla prova la nostra cervicale con un compulsivo headbanging. Con Rock Or Bust ci riescono benissimo.

VOTO: 6,5






Blackswan, venerdì 28/01/2014

mercoledì 26 novembre 2014

MISSING. NEW YORK - DON WINSLOW



Per Frank Decker, la vita sembra finalmente in discesa. A Lincoln, Nebraska, lo conoscono tutti: è un detective tenace, abile, con un curriculum di tutto rispetto, e molti pensano a lui come prossimo capo della polizia. Finché da una casa di un tranquillo sobborgo della città scompare una bambina. Le indagini sembrano non portare a nulla, e le statistiche sono spietate. Quando una persona svanisce nel nulla e non viene ritrovata nel giro di ventiquattro ore, le possibilità che sia stata già uccisa arrivano ben oltre il novanta per cento. Ma Frank ha promesso alla madre di Hailey che le riporterà sua figlia. E pur di mantenere la parola data è disposto a tutto: anche a dimettersi, a rinunciare alla sua carriera e a partire per un viaggio che lo spingerà ad attraversare l'America. E ad approdare a New York, agganciato a una traccia esile che lo condurrà dentro verità sempre piú scomode.

Don Winslow non sbaglia un colpo, non c'è che dire. Ritmi frenetici, intreccio perfetto, colpi di scena a gogo e una scrittura asciutta ma mai priva di fascino. E centra il bersaglio grosso, anche quando, come nel caso di Missing. New York, il soggetto del racconto non brilla certo per originalità. Il canovaccio è infatti un pò abusato (pensate anche a  Gone, Baby, Gone di Dennis Lehane), tanto che, dopo poche pagine, mi è tornato in mente un monumentale (non per lunghezza ma per caratura) romanzo di Friedrich Durrenmatt, scrittore e drammaturgo svizzero, che utilizzava il genere noir per scardinare, con il grimaldello della satira, l'ordine precostituito della morale metafisica. A voler sviluppare un paragone fra i due romanzi, appare subito evidente come il punto di partenza di entrambe le trame sia, infatti, il medesimo: un arguto e integerrimo poliziotto, avviato a una brillante carriera, si licenzia per mantenere fede a una promessa fatta ai genitori di un bambino. Nel caso di Durrenmatt si tratta di rintracciare l'assassino di una giovanissima vittima, mentre nel romanzo di Winslow, Frank Decker promette a una madre di riportare a casa la figlia rapita. Una promessa che diviene un'ossesione per entrambi e che cambia radicalmente la vita dei due protagonisti, portando il primo alla follia e il secondo a mandare in frantumi il proprio matrimonio. Certo, Winslow, per quanto bravo, non è Durrenmatt, e soprattutto bada al sodo, perchè è interessato alla trama gialla più che ai risvolti filosofici della narrazione. Se il grande drammaturgo elvetico infatti crea un lucido teorema a dimostrazione che nel mondo impera il caos, che il bene e il male operano casualmente nelle vicende umane e che la razionalità (le congetture e la logica investigativa del commissario Matthai) è sempre subordinata al caso, all'imprevisto e alla coincidenza,  in Winslow la casualità (l'incontro fortunoso con una testimone che spinge Deker verso la Grande Mela) è solo lo snodo narrativo che consente al metodico e risoluto ex poliziotto di arrivare a sciogliere il bandolo della matassa delle indagini.
Mi fermo qui per non dover creare spoiler che potrebbero togliere il gusto della lettura a quanto volessero cimentarsi coi due romanzi. Tuttavia, seppur per motivi diversi, sia Durrenmatt che Winslow riescono a tenere incollati i loro lettori fino all'ultima pagina, il primo imponendo una cinica riflessione sulla vita e la caducità degli uomini, il secondo imbastendo un thriller dai ritmi adrenalinici, che sarebbe già pronto per una trasposizione cinematografica. E risiede proprio in questo il surplus di bravura di Winslow rispetto a tanti colleghi contemporanei: la capacità di vedere in celluloide ciò che scrive prima ancora di scriverlo. Missing. New York è infatti un romanzo che si legge come un film, col capo chino sulle immagini, più che sulle parole. Palpitante.


Blackswan, mercoledì 26/11/2014


martedì 25 novembre 2014

FOO FIGHTERS - SONIC HIGHWAYS



Da est a ovest, da sud a nord: il nuovo album dei Foo fighters è un reticolato di interstatali e autostrade che congiunge i punti cardinali degli States, raccontando attraverso la musica, questo è il senso dell'operazione, le tradizioni e la storia di alcune tra le città americane più significative. Tanto rock e non solo, visto che David Grohl ha preso spunto da questa idea per dirigere una serie di documentari, andati in onda in America su HBO, con l'obiettivo di analizzare, grazie a immagini e musica, le otto città in cui sono state registrate le otto canzoni che compongono la scaletta del disco (l'ottavo, per la precisione). Un progetto importante, dunque, che testimonia l'eclettismo dell' ex batterista dei Nirvana, sempre più propenso a svincolarsi dallo schema convenzionale "nuovo album-tour", e imboccare strade alternative, imbracciando la macchina da presa e vestendo gli inconsueti panni del regista (lo aveva già fatto lo scorso anno con il film Sound City). Un surplus di creatività che però non toglie nulla alle qualità compositive della band, il cui suono, ormai divenuto un marchio di fabbrica, non si distingue certo per originalità, ma resta uno dei meglio confezionati del panorama rock. I Foo Fighters, non lo scopriamo certo adesso, sono una macchina da guerra tritatutto, riempiono gli stadi come pochi al mondo e inanellano una hit via l'altra. Possiedono uno stile ben definito che si replica, album dopo album, resistendo alle mode e restando scintillante come le cromature di un una moto appena uscita dal concessionario Harley. Sonic Highways, a prescindere dalle alte premesse che l'hanno generato, è l'ennesimo classico discone rock dai volumi esagerati e dalle chitarre sferraglianti, un disco che risucchia l'ascoltatore in un vortice di melodia e rumore in grado di soddisfare tanto chi si eccita con lo screaming feroce di Grohl (Something From Nothing) quanto chi apprezza aperture più radio frendly (il power pop di Congregation). Otto canzoni, con otto diversi ospiti, dedicate a otto differenti città. 




Un viaggio per gli States che inizia da Chicago, in compagnia di Rick Nielsen dei Cheap Trick, con una cavalcata a quattro chitarre (la già citata Something From Nothing) il cui (risaputo) crescendo esprime al meglio l'arte compositiva di Grohl e soci: incipit lento e melodico, virata con riffone sabbathiano, sviluppo funky e finale cantato a squarciagola. Un classico Foo Fighters che più classico non si può. Nello stesso modo, bastano pochi accordi per capire che dietro il riff nervoso e le tre chitarre di The Feast And The Famine (Washington) c'è sempre il migliore David Grohl, che subito dopo ci regala Congregation (Nashville e Zac Brown), grande canzone, ma tanto ruffiana da entrare in testa dopo un solo ascolto. What Did I Do?/God As My Witness (dedicata a Austin e registrata nei mitici Austin City Limits Studios) si avvale della presenza di Gary Clark Jr. nella costruzione di cinque minuti che alternano elettricità e momenti più morbidi. Los Angeles è invece rappresentata da Outside e nobilitata dalla presenza della chitarra di Joe Walsh (Eagles), che porta un pò di California nel rombante rock targato FF. Con In The Clear e i suoi fiati passiamo a New Orleans, e da qui procediamo verso Seattle, patria di Grohl, con una canzone, Subterranean (ospite Ben Gibbard dei Death Cab For Cutie), che vira verso atmosfere più morbide e sfocia come un fiume (I Am A River) direttamente a New York, dove insieme a Joan Jett ci attende un finale d'archi davvero inaspettato. Qui si conclude il viaggio dei Foo Fighters attraverso gli States e qui termina un disco che conferma la grande vena di David Grohl, un artista che ha saputo affrancarsi da un leggendario (e ingombrante) passato, inventandosi dal nulla una delle migliori rock band da stadio del pianeta. Energia pura: it's only rock 'n' roll, but i like it.

VOTO: 7





Blackswan, martedì 25/11/2014