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sabato 28 febbraio 2015
venerdì 27 febbraio 2015
giovedì 26 febbraio 2015
mercoledì 25 febbraio 2015
IL CIELO E' DEI VIOLENTI - FLANNERY O'CONNOR
Un vecchio eremita dei boschi, folle profeta fondamentalista. Un insegnante che si rifugia nel rigido autocontrollo della ragione. E un ragazzo al bivio tra l'una e l'altra strada, spinto irresistibilmente verso l'eccesso della fede. Nel sangue di questi tre uomini si annida il seme di un'unica ossessione, scorre la paura, si avverte il mistero di un'esistenza che pare impossibile comprende e e accettare. Nel suo romanzo più famoso, Flannery O'Connor ha descritto con sofferta partecipazione i meccanismi esistenziali profondi di ogni fanatismo. Un libro che ha quasi cinquant'anni, ma è tuttora attualissimo.
Ci sono talmente tante cose
da dire a proposito del secondo, e più celebre romanzo di Flannery O'Connor,
che trovare l'abbrivio per parlarne, e parlarne compiutamente, non è
impresa semplice. Conviene allora iniziare proprio dalle prime pagine del
libro, che si aprono con il vecchio prozio Tarwater, seduto al tavolo
della cucina, morto stecchito durante la colazione del mattino. La
rappresentazione della morte, senza alcun filtro: improvvisa, cruda, diretta.
Ancora non sappiano nulla del romanzo che andremo a leggere, ma già
capiamo quale sarà il clima del racconto, ne siamo disturbati, ci sentiamo
soffocare. Il cielo è dei violenti, e la violenza sta in primo luogo nella
scrittura. La O’Connor è un autrice dalla prosa limpida e fluida, che si nutre
di splendide immagini e di un vocabolario quanto mai ricco (soprattutto
nell'uso dell'aggettivo). Ma sa nel contempo gestire alla perfezione i tempi
della fiction, afferrare con forza il lettore, spingendolo,
strattonandolo, immergendolo (verbo che non ho usato a
casaccio) all'interno di una trama che, se da un lato lo perplime (si
fa davvero fatica a entrare nel contesto della storia e accostarsi ai
personaggi), finisce pero' al contempo per sedurlo abilmente con riflessioni e
interrogativi che impongo la massima concentrazione. C'è una forza bruta nella
narrazione, una drammaticità estrema, un continuo ammiccamento all'orrore e
alla follia, che ci legano a doppio filo con le duecento pagine scarse del
romanzo, senza mollarci più. Una scrittura che, come dicevo poc'anzi, disturba,
così come è disturbante la trama del romanzo, in cui l'azione è ridotta ai
minimi termini e si sviluppa essenzialmente attraverso
le dinamiche che animano i rapporti fra i tre protagonisti: il prozio
Tarwater, cristiano stolido e oltranzista, archetipo di ogni
fondamentalismo, folle figura di eremita pescata dalle più oscure pagine del Vecchio
Testamento; il maestro Rayber, suo nipote, ferocemente laico, discepolo
della scienza e della logica, alfiere del predominio della ragione sul
trascendente; e infine, il giovane Tarwater, il ragazzino plasmato dal delirio
predicatorio del prozio e che, in bilico fra tormento ed estasi, fra fede e
desiderio di affrancarsi dall'ortodossia del dogma, si trova all’improvviso a
fare i conti con una vita normalizzata. Tre solitudini al confronto, tre
solitudini che confliggono, ma che sono in qualche modo indissolubilmente
legate fra loro. La prima, accettata e voluta per volere divino, la seconda
subita e interiorizzata per incoscienza, la terza dovuta al caso e alle
vicissitudini della vita, e mai metabolizzata completamente. Tre
solitudini malevoli, che generano follia, astio, farneticazioni, violenza; tre
solitudini che cercano il dominio sulle altre, imponendo, in un folle gioco di
rincorse, la propria visione della vita e il proprio impianto etico. Fede
cieca o altrettanto cieca ragione, finiscono per rappresentare i due
rovesci della medesima medaglia, gli opposti che impongono al lettore,
alle prese con due mondi apparentemente opposti, ma terribilmente simili,
l'estenuante esercizio della riflessione. In mezzo a queste tre figure dalle
mastodontiche implicazioni psicologiche, c'è poi Bishop, il figlio mentalmente disabile
del maestro: innocenza e grazia, testimonianza del fallimento (o della
imperscrutabilità) del disegno divino, ambito trofeo delle ambizioni profetiche
dei due Tarwater, scudo umano della pertinacia di Rayber. Una figura che a
un lettore disattento può apparire come semplice comparsa, ma che in
realtà rappresenta la chiave di lettura del libro. Bishop è Gesu' sacrificato
sulla croce, è l'uomo che il Salvatore rappresenta, è la nostra caducità, la
capacità di guardare le cose con uno sguardo limpido e privo di condizionamenti,
è la vittima di ogni fanatismo, è la colpa che non riusciamo a cancellare dalla
nostra anima. Il giovane Tarwater (il nome significa: acqua di catrame) vuole
battezzarlo, spinto da una cieca follia di (auto)redenzione; il padre, che si
oppone al battesimo, si impone, per converso, di soffocare tutti gli
slanci affettuosi verso di lui, per non doversi così misurare con il
mistero (divino) dell'amore. Agnello sacrificale di un'allucinazione
collettiva, Bishop morirà annegato per mano del giovane Tarwater, che altro non
fa, se non portare a compimento ciò che Rayber aveva interrotto, qualche
tempo prima, per un'estemporanea resipiscenza. Vittima di un'orripilante
violenza, Bishop muore per garantire la pace a suo padre e a suo cugino: solo
la violenza possiede infatti la forza catartica per appianare i
conflitti e sciogliere il tormento delle passioni. L’atto estremo, il
passo definitivo, quello che non da scampo, traccia la strada per il Regno dei
Cieli. E’ la logica di ogni fanatismo.
martedì 24 febbraio 2015
LINEA 77 - OH!
Facile giocare sul titolo dell'album per imbastire una
recensione del nuovo lavoro dei Linea 77. Il fatto è che, lo dico in accezione
assolutamente positiva, non c'è più nulla riguardo al combo torinese che riesca
a stupirci veramente, che riesca a farci esclamare Oh!. Il progressivo
passaggio alla lingua italiana dopo gli inizi anglofoni, Tiziano Ferro che
duetta con la band nel singolo Sogni Risplendono, l'alternanza qualitativa dei
dischi (l'ottimo Horror Vacui seguito dall'incerto 10), i cambi di formazione,
che hanno visto l'allontanamento per divergenze artistiche di Emi, e l'epocale
colpo di sfiga che manda a ramengo sei mesi di lavoro e i premaster dell'Ep
C'eravamo Tanto Amati, in uscita programmata per gennaio 2014 e invece mai
pubblicato, sono alcuni degli episodi di un avventura musicale fuori
dall'ordinario. Quindi, l'unica cosa che stupisce veramente di questo nuovo
lavoro, è il fatto che i Linea 77 siano riusciti a mantenere dritta la
barra del timone, a ritrovarsi dopo ben vent'anni di carriera con lo stesso
piglio e la stessa energia degli esordi. Oh! rappresenta in tal senso un passo
indietro e un passo in avanti. Indietro, perchè viene recuperata in toto la
ferocia dei primi dischi, quando la proposta di questo hard-core nostrano non
ammetteva concessioni alla melodia o si divertiva in derive autoironiche come
da ultimo è successo con il singolo di un paio di anni fa, La Musica è
Finita; in avanti, perchè il livello qualitativo delle dieci canzoni in
scaletta ci restituisce una band sulla cui caratura internazionale non vi
è dubbio alcuno: una band che punta alla potenza del live act
e all'energia della presa diretta, accantonando i tentativi di sperimentazione,
non sempre riusciti, delle ultime prove. Tinte fosche, ritmiche martellanti,
fiotti di rabbia adrenalinica, riff urticanti e un ottimo lavoro sulla
scrittura dei testi, che riescono a essere icastici e nel contempo citare
Ungaretti, Il Gattopardo, Noam Chimsky e, financo, Mel Brooks (l'album si apre
con una sequenza audio da Frankenstein Jr.). Il tutto centrifugato in un
disco di metal core compatto, peso, che concede rarissime aperture
melodiche (Luce) e fissa uno sguardo disilluso e nichilista sulla
deriva etica, ormai irrimediabile, imboccata dal nostro paese. Nulla di cui
stupirci, ma molto da ascoltare.
VOTO: 7,5
Blackswan, martedì 24/02/2015
lunedì 23 febbraio 2015
IL MEGLIO DEL PEGGIO
Riceviamo dalla nostra freelance Cleopatra e
integralmente pubblichiamo.
"E' il giorno atteso da un'intera generazione,
quello in cui si smette di far la guerra ai precari e la si fa alla precarietà.
Ora, parole come mutuo, ferie, diritti, entrano nel vocabolario di una
generazione" (Matteo Renzi).
In questo Paese trionfa il paradosso. Quello che
avrebbe potuto fare la destra, lo ha realizzato il centrosinistra.
La riforma del lavoro, che di fatto smantella lo
Statuto dei Lavoratori, nasce sotto il segno del Partito Democratico (chi
l'avrebbe mai detto?), un partito che è diventato lo sponsor di Confindustria.
Il Magnifico Premier, nonchè Segretario del Pd, definitosi "gasatissimo
dai progetti di Sergio Marchionne", ha proclamato la totale contiguità
con il capitalismo. E ha ancora la faccia tosta di proclamarsi appartenente al
centrosinistra. Se una riforma epocale come il Jobs Act l'avesse partorita
Silvietto, apriti cielo.
Milioni di italiani si sarebbero riversati nelle
piazze con cartelli e striscioni da curva sud. Il Paese si sarebbe fermato.
Invece, Matteone ha potuto contare sui numi tutelari, sul "ce lo chiede
l'Europa" e su un clima di allarmante rassegnazione sociale. Perfino su
buona parte della stampa che, a un anno dalla nascita del governo, lo incorona
come un riformatore illuminato. Poco importa se con il suo avvento si è
assistito alla fine del confronto, alla subalternità verso la finanza e lobby
di potere. Oggi, assistiamo impotenti al trionfo di un personalismo
narcisistico e alla mortificazione della politica. E al dilagare di banalità e
inconsistenza di certa opposizione che, alla fine, sarà risucchiata da un
Premier piglia tutto. Diciamo la verità, Civati & C., quasi quasi, ci fanno
un po' tenerezza.
Renzi pensa di combattere la disoccupazione abolendo
l'articolo 18, dunque. E' il gioco delle tre carte. Le aziende assumeranno
lavoratori a tempo indeterminato, perchè più facilmente potranno licenziarli. E
demansionarli, se occorre. Cosa non si fa per compiacere la Confindustria e,
d'altronde, ce lo chiede l'Europa.
Ora, all'instancabile Premier tocca riformare la
scuola, poi sarà la volta della Rai. La scure renziana si abbatterà
implacabile. E saranno dolori. Ma è tempo anche di tensioni internazionali,
Libia in testa. "L'Italia ha un servizio di intelligence che non è come
la Cia, ma in Libia siamo i numeri uno... Conosciamo come stanno le cose e
siamo in grado di intervenire". E' una barzelletta.
Evidentemente, i nostri politici non sanno camminare e
vogliono correre.
A Roma, nelle 36 che precedevano la partita Roma-
Feyenoord, frotte di hooligans ubriachi devastavano indisturbati varie zone
della capitale. Tutto si consumava sotto gli occhi impotenti e impauriti di
cittadini e turisti. Questa è l'Italia in cui tutto è possibile, dove
l'impunità regna sovrana e la Barcaccia del Bernini, in fondo, non è altro che
la metafora di un Italia vulnerabile e indifesa.
Marianna Madia (PD) su Alessandro
Di Battista: "Io e Di Battista amici? Beh, amici no, ma abbiamo fatto i
catechisti assieme, a 20 anni, in una parrocchia a Roma. Poi lui è partito per
le Ande...finchè un giorno me lo sono ritrovato in Parlamento, eletto con i 5
Stelle. Non ci siamo abbracciati, ma per me è ancora amico, anche se loro sono
strani..."
Arrigo Sacchi: "Vedere
così tanti giocatori di colore nelle squadre giovanili è un'offesa per il
calcio italiano. Siamo un popolo senza orgoglio e dignità".
Gianluca Buonanno (Lega) su
Twitter : "Voglio andare a Tripoli a incontrare il Premier Al Thani.
Vado io perchè il governo italiano è formato da cagasotto".
Matteo Salvini (Lega): "Con gli immigrati è in corso un'operazione di sostituzione
etnica coordinata dall'Europa...Il popolo padano è vittima di pulizia
etnica".
Cleopatra, lunedì 23/02/2015
domenica 22 febbraio 2015
COME SANREMO, PIU' DI SANREMO
Oggi è il giorno della finale. A partire dalle ore 21.30 potrete ascoltarci su WWW.RADIOPANESALAME.IT e scoprire chi è il vincitore del Controfestival. Ci saranno sorprese, quindi non mancate. Anche perchè ne stanno parlando i giornali.
sabato 21 febbraio 2015
FATHER JOHN MISTY – I LOVE YOU, HONEYBEAR
Di questo disco si sta parlando
già da molto tempo e io, invece, arrivo con colpevole ritardo. Il fatto è che,
nonostante l’abbia ascoltato una quindicina di volte, faccio ancora fatica a comprenderlo.
A entrare in sintonia con il mood delle canzoni. Insomma, è il capolavoro
strombazzato dalla critica di mezzo mondo o, semplicemente, un disco molto
sovrastimato ? Ma andiamo con ordine. Sotto il moniker di Father Jon Misty si
cela il trentatreenne, originario di Baltimora, Joshua Tillman. Il nostro eroe
è in circolazione ormai da più di dieci anni, ma è ricordato soprattutto per
aver militato, dietro i tamburi, nelle fila dei Fleet Foxes, gruppo che ha
lasciato dopo un paio di album, sbattendo la porta e lamentandosi di non avere
adeguato spazio per esprimere la propria creatività artistica. Cosa, che
peraltro ha fatto parallelamente, sfornando la bellezza di dieci album a titolo personale,
alcuni sotto lo pseudonimo di cui sopra, altri, invece, con il proprio nome di
battesimo. All’undicesimo lavoro, questo I Love You, Honeybear, pare abbia
trovato la strada giusta per sorprendere e far parlare di sé. Capolavoro o
album sopravvalutato ? Questo è il dilemma. Che il ragazzo abbia un’alta
opinione di se stesso e una visione musicale alquanto pretenziosa, lo capiamo
dando uno sguardo alla copertina, nel quale Gesù Bambino, in braccio alla
Madonna, ha le sembianze, guarda un po’, dello stesso Tillman. Ironia, o autoironia, dirà qualcuno. Ci può stare, certo, ma il dubbio un po’ ci assale. C’è
una canzone, poi, intitolata Bored In The Usa, che, lo capiscono anche gli
illetterati, è una chiara presa in giro nei confronti di Born In The Usa di
Springsteen e, per osmosi, di tutta la tradizione classic rock a stelle e
strisce. Ci può stare anche questo, se non venisse il sospetto di un’eccessiva
sicurezza dei propri mezzi (la canzone possiede una grande melodia, ma quelle
risate da sit-com piazzate a metà brano e che citano I’m A Walrus dei Beatles,
suonano non solo irriverenti ma anche sprezzanti). Alla produzione, poi,
compare ancora Jonathan Wilson, grandissimo manipolatore di suoni, artista in
bilico fra passatismo e rivisitazione del suono californiano anni ’70, che
mette mano alla produzione con gran dispendio di mezzi e un approccio che è in
antitesi a quello che gli anglosassoni sono soliti chiamare understatement,
cioè basso profilo. Il risultato è una scaletta che si avvale di una suono
omogeneo e coerente, ma al contempo lussureggiante ai limiti della autoreferenzialità.
A questo punto, direte, siamo di fronte a un disco che sarebbe meglio evitare.
E qui, invece, casca l’asino. I Love You, Honeybear, al netto di un’arroganza di fondo
quanto mai irritante, è un buon disco. E’ un buon disco perché ci sono le
canzoni e ci sono le melodie, alcune davvero irresistibili. Il folk agrodolce
della title track, l’elettronica spiazzante di True Affection, la deliziosa melodia
alla Byrds 2.0 di The Night Johs Tillman Come To Our Apartment e l’arpeggio
colloquiale della conclusiva I Went To The Store One Day (perché l’arrangiamento
d’archi?) sono autentiche gemme che possono uscire solo dalla penna di un
grande artista. Eppure, mi resta in testa il dubbio che in I Love You,
Honeybear il tasso di sincerità sia davvero ai minimi termini. E si sa: nell’arte
la sincerità è tutto. O no ?
VOTO: dal 7 in su,
scegliete voi il voto.
Blackswan, sabato 21/02/2015