Di questo disco si sta parlando
già da molto tempo e io, invece, arrivo con colpevole ritardo. Il fatto è che,
nonostante l’abbia ascoltato una quindicina di volte, faccio ancora fatica a comprenderlo.
A entrare in sintonia con il mood delle canzoni. Insomma, è il capolavoro
strombazzato dalla critica di mezzo mondo o, semplicemente, un disco molto
sovrastimato ? Ma andiamo con ordine. Sotto il moniker di Father Jon Misty si
cela il trentatreenne, originario di Baltimora, Joshua Tillman. Il nostro eroe
è in circolazione ormai da più di dieci anni, ma è ricordato soprattutto per
aver militato, dietro i tamburi, nelle fila dei Fleet Foxes, gruppo che ha
lasciato dopo un paio di album, sbattendo la porta e lamentandosi di non avere
adeguato spazio per esprimere la propria creatività artistica. Cosa, che
peraltro ha fatto parallelamente, sfornando la bellezza di dieci album a titolo personale,
alcuni sotto lo pseudonimo di cui sopra, altri, invece, con il proprio nome di
battesimo. All’undicesimo lavoro, questo I Love You, Honeybear, pare abbia
trovato la strada giusta per sorprendere e far parlare di sé. Capolavoro o
album sopravvalutato ? Questo è il dilemma. Che il ragazzo abbia un’alta
opinione di se stesso e una visione musicale alquanto pretenziosa, lo capiamo
dando uno sguardo alla copertina, nel quale Gesù Bambino, in braccio alla
Madonna, ha le sembianze, guarda un po’, dello stesso Tillman. Ironia, o autoironia, dirà qualcuno. Ci può stare, certo, ma il dubbio un po’ ci assale. C’è
una canzone, poi, intitolata Bored In The Usa, che, lo capiscono anche gli
illetterati, è una chiara presa in giro nei confronti di Born In The Usa di
Springsteen e, per osmosi, di tutta la tradizione classic rock a stelle e
strisce. Ci può stare anche questo, se non venisse il sospetto di un’eccessiva
sicurezza dei propri mezzi (la canzone possiede una grande melodia, ma quelle
risate da sit-com piazzate a metà brano e che citano I’m A Walrus dei Beatles,
suonano non solo irriverenti ma anche sprezzanti). Alla produzione, poi,
compare ancora Jonathan Wilson, grandissimo manipolatore di suoni, artista in
bilico fra passatismo e rivisitazione del suono californiano anni ’70, che
mette mano alla produzione con gran dispendio di mezzi e un approccio che è in
antitesi a quello che gli anglosassoni sono soliti chiamare understatement,
cioè basso profilo. Il risultato è una scaletta che si avvale di una suono
omogeneo e coerente, ma al contempo lussureggiante ai limiti della autoreferenzialità.
A questo punto, direte, siamo di fronte a un disco che sarebbe meglio evitare.
E qui, invece, casca l’asino. I Love You, Honeybear, al netto di un’arroganza di fondo
quanto mai irritante, è un buon disco. E’ un buon disco perché ci sono le
canzoni e ci sono le melodie, alcune davvero irresistibili. Il folk agrodolce
della title track, l’elettronica spiazzante di True Affection, la deliziosa melodia
alla Byrds 2.0 di The Night Johs Tillman Come To Our Apartment e l’arpeggio
colloquiale della conclusiva I Went To The Store One Day (perché l’arrangiamento
d’archi?) sono autentiche gemme che possono uscire solo dalla penna di un
grande artista. Eppure, mi resta in testa il dubbio che in I Love You,
Honeybear il tasso di sincerità sia davvero ai minimi termini. E si sa: nell’arte
la sincerità è tutto. O no ?
VOTO: dal 7 in su,
scegliete voi il voto.
Blackswan, sabato 21/02/2015
capolavoro non so, però un disco sicuramente notevole, alla facciazza di bruce springsteen e di tutto il classic rock :)
RispondiEliminaPer me 7 va bene: dopo aver sentito il singolo al David Letterman mi aspettavo qualcosa in più.
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