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martedì 31 marzo 2015

LAURA MARLING - SHORT MOVIE



Mi viene da storcere un pò il naso tutte le volte che leggo la stampa specializzata parlare di un giovane musicista riferendolo ad artisti ben più famosi e definendolo con la locuzione "è il nuovo..." o "è la nuova...". Probabilmente perchè, nonostante la commendevole intenzione di circoscrivere i confini di un'arte per renderla comprensibile ai più, si finisce in realtà per insinuare l'idea di una creatività poco originale e fortemente derivativa. E' quel che succede a Laura Marling quando la stampa di mezzo mondo si prende la briga di accostarla a Joni Mitchell. La qual cosa, meglio chiarire subito, è anche vera. Ma solo in parte. Con questo Short Movie ci troviamo infatti di fronte a un'artista che è giunta al primo traguardo della sua (già importante) carriera e ha imboccato un preciso percorso artistico (che parte ovviamente da un certo folk rock di derivazione losangelina), sviluppandolo però con una particolarissima sensibilità, senza limitarsi alla classica operazione copia incolla, imbellettata 2.0. Non è un caso che Laura Marling sembri sulla scena da un'eternità, pur avendo compiuto da pochissimo solo venticinque anni (è nata il 1 febbraio nel 1990), e cioè quell'età che nella maggior parte dei casi rappresenta il momento dell'esordio. Lei invece, dopo la bellezza di cinque album in sette anni (fate voi i conti a che età ha esordito) ha acquisito una credibilità e una specifica connotazione sonora che rendono effimera la definizione che le viene data di nuova Joni Mitchell. Short Movie è dunque per la songwriter britannica il disco della definitiva consacrazione: gli echi di Laurel Canyon, presenti ma non in dose massiccia, giungono a noi mediati da un intelligenza stilistica davvero sorprendente (lo scarto rispetto ai lavori precedenti sta anche nell'uso della chitarra elettrica). Un amalgama di  rock, folk, pop (e, perchè no, condita anche da un'estemporanea spruzzatina di jazz) che riesce a essere attualissima nonostante qualche coloratura vintage, utilizzando brillanti arrangiamenti come arma vincente per superare ogni sospetto di passatismo. Iniziare un disco con un brano cupo e viscerale come Warrior, svelare un'inusitata anima rock nelle vibrazioni elettriche di Don't Let Me Bring You Down, riscrivere Tunnel Of Love dei Dire Straits nella folgorante Gurdjieff's Daughter o flirtare col pop, tra chitarre e arrangiamenti d'archi, come Laura fa in I Feel Your Love, sono tutte evidenze di un'artista che rifugge le etichette. E così, brani come How I Can o Easy, in cui si respira indubbiamente l'aria della west coast dei bei tempi che furono, suonano non come anacronismi modaioli, quanto semmai come una delle tante sfumature di una creatività cangiante e fantasiosa. Con Short Love, Laura Marling fa un ulteriore passo avanti rispetto al già ottimo Once I Was An Eagle (2013), dimostra una ricercatezza compositiva ormai priva di sbavature e si afferma definitivamente come una delle artiste più ispirate dell'attuale movimento folk rock. Nonostante la giovane età e a prescindere da Joni Mitchell.

VOTO: 7,5 





Blackswan, martedì 31/03/2015

lunedì 30 marzo 2015

IL MEGLIO DEL PEGGIO






Riceviamo dalla nostra freelance Cleopatra e integralmente pubblichiamo

"Che origini hanno i piloti dell'autobus caduto???" (tweet di Daniela Santanchè , dopo la sciagura aerea sulle Alpi francesi).

"Schettinen" (titolo della prima pagina del quotidiano "Il Giornale", all'indomani della tragedia) .

"Un uomo solo al comando...Renzie sta schiantando l'Italia" (post di Beppe Grillo, riferendosi all'analogia tra Renzi e Andreas Lubitz, il co- pilota tedesco).

"Secondo voi quanta gente hanno ucciso i cattivi governi? Quanti il governo Renzi? Per me più di 150..." (tweet di Laura Castelli, Movimento 5 Stelle).

Potrei andare avanti ma direi che è sufficiente così. Quanto basta per provare tristezza, imbarazzo, disagio e perfino disgusto.
Sulla Santanchè c'è ben poco da dire se non che la sciagura sia quella di vederla imperversare sui social o in qualche programma spazzatura berciando su immigrazione e razzismo. Autobus anzichè airbus, Danielona è stata fuorviata dal correttore automatico, ma questo sarebbe il meno. La twittatrice compulsiva, prima ancora di conoscere i possibili retroscena sulla vicenda, sembrava avere la soluzione a portata di mano.
Peccato che, stavolta, l'uomo nero fosse un tedesco di Germania e non il solito islamico. E le 149 vittime? Un dettaglio, per l'onorevole forzista. L'importante è dare subito addosso allo straniero. Una quisquilia anche per l'illustre compagno di vita, nonchè direttore de "Il Giornale". Il titolo a caratteri cubitali sulla prima pagina, "Schettinen", ha un sapore sinistro. Un messaggio (ammesso che ci sia) che sembra evocare uno scontro fra ultrà di diverse tifoserie, Schettinen vs Lubitz. Ad maiora, Sallusti. 
Nemmeno Beppe Grillo e accoliti ne escono bene. Paragonare Renzi al pilota dell'airbus è decisamente inopportuno.
Il ricorso alla provocazione usando il paravento della libertà di espressione mi pare assai logoro. "La provocazione è l'unico modo perchè tante persone non si rendono conto che le scelte politiche uccidono...Ecco questo è un paese un po' perbenista. La provocazione è il modo per fare aprire gli occhi alle persone", rintuzza Alessandro Di Battista in difesa del Grillo parlante.
C'era davvero bisogno di strumentalizzare una tragedia per indurre gli italiani a una riflessione? Perchè la comunicazione del Movimento 5 Stelle si schianta, spesso, sul cattivo gusto? Ricordiamo bene quando Grillo disse che la mafia aveva una sua morale e che andrebbe quotata in Borsa.
Anche l'Italia ha fatto i conti con le proprie tragedie. L'incidente della Costa Concordia è ancora davanti ai nostri occhi.
Allora, la stampa internazionale ci cannibalizzò. I riferimenti a Schettino si sprecarono per denigrare l'Italia o un avversario politico. Perfino il mite Pierluigi Bersani fece ricorso allo sciagurato capitano per descrivere l'ex Cavaliere.
Purtroppo, sempre più spesso si tende a vampireggiare sulle disgrazie. Il senso del pudore pare essersi dissolto.
Pochi, ormai, sono in grado di esprimere il proprio pensiero entro il perimetro del rispetto. Se non si comincia dalla comprensione per il dolore altrui avremo poche speranze di "restare umani".

Cleopatra, lunedì 30/03/2015

P.S. Il Meglio del Peggio va in vacanza. Appuntamento ad aprile.

domenica 29 marzo 2015

WILLIE NILE – IF I WAS A RIVER




Che la statura artistica di Willie Nile sia fuori discussione è un dato di fatto. Eppure, il piccolo (da un punto di vista fisico) rocker originario di Buffalo ha sempre avuto problemi a farsi notare al grande pubblico e ha vissuto ai margini del successo anche i momenti più brillanti della propria carriera, quando esordì con un paio d’album riuscitissimi (Willie Nile e Golden Down, rispettivamente del 1980 e del 1981) e quando, a metà degli anni ‘00, ci regalò quel capolavoro assoluto che porta il nome di Streets Of New York. Di sicuro non l’ha aiutato aver prodotto due soli album in vent’anni, tra il 1981 e 1999; né gli ha giovato, se vogliamo proprio trovare un altro motivo di una carriera tanto defilata, l’ombra lunga di Springsteen, uno che, nel bene e nel male, per un certo tipo di rock stradaiolo e sanguigno, ha rubato la scena a tutti. Oggi il buon Willie va per i settanta, essendo nato il 7 giugno del 1948, ma sta vivendo quella, che con un immagine un po’ troppo abusata, potremmo definire una seconda giovinezza. Se la prima parte della carriera artistica di Nile è stata caratterizzata da una produzione al contagocce (cinque album in ventisei anni), con If I Was A River siamo invece al quarto disco in poco più di un lustro. Ciò che colpisce, tuttavia, non è solo la frequenza delle uscite discografiche degli ultimi tempi, quanto invece la qualità di una rinnovata ispirazione. Se due anni fa, American Ride ci aveva fatto godere come ricci, con questo nuovo full lenght, Nile torna a stupirci. E lo fa, forse nel modo più inconsueto, con un album di ballate per pianoforte e voce, arricchite da pochi e scarni arrangiamenti (Frankie Lee al canto, David Mansfield al mandolino e violino e Steuart Smith alle chitarre e tastiere). Un plot inconsueto, dicevamo, ma non certo una novità assoluta, dal momento che sia in studio che dal vivo il nostro ha sempre amato ritagliarsi momenti acustici di grande intensità (mi vengono in mente, di primo acchito, la mitica Streets Of New York e da ultimo, The Crossing). If I Was A River è un album stringato (dieci canzoni per trentacinque minuti), essenziale, ispiratissimo, caratterizzato dal suono limpido e preciso dello stesso Steinway, che Nile si era trovato a suonare la notte dell’8 dicembre del 1980, quando, a pochi passi dal suo studio di registrazione,  la furia omicida di Mark Chapman ci privò per sempre del genio di John Lennon. A parte un paio di episodi più briosi e meno riflessivi (Lullaby Loo, Goin To St Luis), che, a parere di chi scrive, sono piacevolissimi ma non hanno la forza evocativa del resto della scaletta, le altre otto tracce del disco possiedono un sofferto mood malinconico e una semplicità melodica disarmante (Once in A Lullaby e la conclusiva Let Me Be A River sono due colpi da k.o.), resa ancora più intensa dalla scorbutica voce di Nile che, se da un lato non conosce una gran varietà di sfumature, riesce comunque a essere sempre dannatamente incisiva. In attesa che il rocker di Buffalo torni a imbracciare la sua sei corde, questa sorta di “riposo del guerriero” rappresenta qualcosa che va ben oltre la semplice curiosità discografica, offrendoci semmai una declinazione con accento diverso della stessa arte. L’arte di un musicista che da sempre crede nella passione e nella sincerità, disdegnando ogni compromesso. Willie Nile sarà sempre così, qualsiasi cosa faccia: prendere o lasciare.

VOTO: 7





Blackswan, domenica 29/03/2015

venerdì 27 marzo 2015

LA TREGUA - MARIO BENEDETTI



Signore maturo, esperto, posato, quarantanove anni, senza gravi acciacchi, ottimo stipendio": cosí si descriverebbe Martín Santomé, il protagonista di questo classico della letteratura sudamericana. Schiacciato dalla noia di una vita da impiegato di commercio, vedovo con tre figli ormai grandi, guarda al trascorrere de l tempo con tranquilla disillusione. E tutto rimarrebbe immobile fino al suo pensionamento, se in ufficio non venisse assunta la giovane Avellaneda, timida e chiusa in una silenziosa bellezza: per lei Santomé sente nascere un amore insperato, che lo porterà a vivere una relazione clandestina, rimettendo il tempo in mov imento. Come Svevo in Senilità, La tregua racconta la capacità straordinaria che ha la vita di prendere il vento e gonfiare le vele, per poi, caduto il vento, tornare alla quiete della bonaccia. Con questo romanzo Benedetti ha acquistato notorietà internazionale: il libro ha avuto piú di cento edizioni, è stato tradotto in una ventina di lingue e adattato per il teatro, la radio, la televisione e il cinema.

L'amore all'improvviso, quando ormai non te lo aspetti più, quando sei certo che la vita abbia definitivamente imboccato il corso di un lungo fiume tranquillo, destinazione il nulla. Martin Santomè ha quasi cinquantanni, anzi i "cinquantanni lo tallonano": un'esistenza ordinaria, tre figli grandi, che ha cresciuto da solo, un lavoro impiegatizio di mortificante routine che sta volgendo al termine. Giornate tutte uguali, illanguidite dal ricordo della moglie Isabel, morta molti anni prima, e movimentate esclusivamente dal rapporto, nemmeno troppo affettuoso, coi suoi tre ragazzi. Tutto appare immutabile, fino a quando il rituale dell'abitudine è sconvolto dall'arrivo di Avellaneda, ventenne neo assunta a cui Martin deve insegnare il mestiere. In un lento percorso di sguardi rubati, brevi palpiti inaspettati, sfioramenti galeotti e dialoghi imbarazzati, il cuore intorpidito di Martin torna lentamente a battere, e ciò che sembrava la piega inevitabile di una vita senza speranza, si trasforma in un consapevole crescendo di felicità. E' l'amore, un amore adulto, ruvido, virile, lontano anni luce dalle svenevolezze e dalle banalità della letteratura di genere, che la prosa, tanto sublime quanto asciutta di Benedetti plasma, parola dopo parola, raccontando con malinconica partecipazione il miracolo di un uomo spento e disilluso che torna a provare tenerezza. Una relazione che nasce clandestina (la distanza d'età fra Martin e Avellaneda, le convenzioni sociali, i pettegolezzi dell'ufficio), ma che lentamente sboccia in un caleidoscopio di colori, profumi e carnalità, divenendo totalizzante e assorbendo completamente ogni azione e pensiero di Martin. Sarà il destino, o Dio, "sadico onnipotente", a sparigliare però le carte in tavola e a cambiare, di nuovo, le regole del gioco, in una beffarda struttura circolare che riporta Martin proprio là, dove tutto era cominciato. Non c'è una pagina, forse nemmeno un rigo, di questo romanzo che non valga la pena di essere letto almeno due volte. Non è solo la perfetta costruzione di una storia d'amore, raccontata attraverso i piccoli cambiamenti e le sfumature psicologiche che coinvolgono i due protagonisti: ne La Tregua vi è una tale quantità di riflessioni esistenziali e filosofiche da far girare la testa. Si racconta d'amore, certo, ma si racconta anche la sconfitta della mezza età, il (non) senso dell'esistenza, la disillusione di giorni tutti uguali, il lenimento del ricordo, l'impervia strada della rielaborazione del lutto. E Benedetti getta pure uno sguardo feroce, dissacrante e impietoso sul mondo impiegatizio, sulla logica del profitto, sullo sfruttamento dei deboli, tutte riflessioni frutto delle simpatie marxiste che, durante la dittatura di Juan Maria Bordaberry, costrinsero lo scrittore uruguaiano all'esilio. Un libro traboccante di pensieri e di vita, forse non del tutto comprensibile a un giovane lettore, ma decisivo per coloro che sono arrivati al giro di boa della propria esistenza.

"È evidente che Dio mi ha riservato un destino oscuro. Non proprio crudele. Semplicemente oscuro. È evidente anche che mi ha concesso una tregua. All’inizio, ho riluttato a credere che potesse essere la felicità. Mi sono opposto con tutte le mie forze, poi mi sono dato per vinto, e l’ho creduto. Ma non era la felicità, era solo una tregua."

Blackswan, venerdì 27/03/2015