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mercoledì 30 marzo 2016

THE WACO BROTHERS – GOING DOWN IN HISTORY



Nati da una costola dei Mekons (gruppo punk rock originario di Leeds, affacciatosi sulle scene in contemporanea a Delta 5 e The Gang Of Four), i Waco Brothers sono un side project chicagoano del cantante e chitarrista gallese, Jon Langford. Sotto contratto per la Bloodshot Records, per la quale hanno rilasciato già dodici album, i Waco Brothers  si sono costruiti, in circa vent’anni di carriera, una solida fama di musicisti straordinariamente bravi dal vivo. Insomma, i loro dischi non brillano certo per originalità, dal momento che la proposta (un punk rock di estrazione anglosassone che lambisce talvolta i territori country) è rimasta praticamente immutata nel corso degli anni; ma quando sale sul palco e dispiega il suo armamentario di chitarre elettriche, questa band di rockettari di mezza età, si fa rispettare, eccome. Per cui, prendete questo ultimo disco per quello che è realmente: una raccolta di canzoni che troverà la sua vera essenza tutte le volte che il quintetto dell’Illinois salirà su un palco. Ascoltate lontano dalle luci di scena, i dieci brani che compongono la breve scaletta di Going Down The History (trenta minuti tirati e buona lì) palesano, infatti, dei limiti di scrittura che pongono il disco nel novero degli ascolti divertenti, di quelli da fare in macchina, coi finestrini abbassati e il piede pigiato forte sull’acceleratore. La minestra, come si diceva, è sempre la stessa: punk rock muscolare (DIYBYOB), chitarre rombanti (Receiver), ganci melodici a iosa (Had Enough), qualche debito verso gli anni ’60 (la discreta cover di All Or Nothing degli Small Faces)e qualche spezia country, ma senza esagerare (la rilettura di Orphan Song di John Lee Graham). Tutto suona grintoso, energico, spassoso, ma anche prescindibile.

VOTO: 6,5





Blackswan, mercoledì 30/03/2016

martedì 29 marzo 2016

GIORGIO CANALI & ROSSOFUOCO – PERLE PER PORCI



Una raccolta di cover, si sa, serve spesso a mascherare un momento di afasia creativa, a tamponare il vuoto di ispirazione, in attesa che le canzoni originali su cui si lavora, funzionino così bene da poter finire su disco. Ne può venir fuori qualcosa di buono oppure, come accade frequentemente, il risultato finisce per essere un lavoro prescindibile, che nulla aggiunge o toglie alla credibilità di un musicista. Poi, capita di rado, ci sono artisti come Giorgio Canali, che rappresentano un unicum nel panorama nazionale e che quando decidono di fare qualcosa, la fanno incredibilmente bene. Ecco, allora, che questo Perle Per Porci si colloca anni luce lontano dal classico album di reinterpretazioni, e suona esattamente come suonerebbe un disco di canzoni originali. Canali, d’altra parte, ha sempre dimostrato di possedere un rigore artistico (ed etico) che lo tiene lontano da scelte furbette e accomodanti, andando spesso in contro tendenza a un mercato, come quello italiano, zavorrato da tonnellate di paccottiglia. Così, invece, di riciclare canzoni arcinote e vivere di riflesso il successo altrui, l’ex CCCP imbastisce una scaletta di canzoni pressoché sconosciute, ripescando dall’oblio artisti di cui nessuno, diversamente, si sarebbe ricordato. Un progetto esplicitato dal titolo del disco, che cita un passo del Vangelo di Matteo, in cui Gesù esorta i propri discepoli: “Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino”. Non sprechiamo, quindi, le cose di valore, e riportiamo alla luce queste canzoni che sono autentici gioielli, piccole perle nascoste fra le pieghe del tempo. Non è un caso, allora, che il disco inizi con la splendida Pesci e Sedie (Fish and Chair), rilettura, anche testuale (originariamente i versi erano cantati in inglese) di una canzone, datata 1990, dei Corman & Tuscadu, gruppo francese, di cui faceva parte Claude Salt, bassista dei Rossofuoco fino al 2009), e che continui, poi, con brani di artisti, quasi tutti, misconosciuti. Alzi la mano, infatti, chi ha mai sentito nominare la band milanese dei L’upo (AFC – Angelo Fausto Coppi ha un testo che emoziona alle lacrime), o i veneti Plasticost (Canzone Dada, tra le migliori del lotto, rilegge alcuni versi del poeta romeno Tristan Tzara) o i triestini Luc Orient, di cui Canali ripesca la suggestiva Gambe di Abebe, risalente al 1984. Una scelta non facile e, come si diceva, decisamente contro corrente, che alla fine, tuttavia, paga, perché dopo averle ascoltate, queste canzoni, vorremmo averle tutte nella nostra discografia. Ci sono, poi, brani più noti, ma nemmeno troppo. Il più famoso è senz’altro Le Storie Di Ieri di Francesco De Gregori (la trovate su Rimmel del 1975), canzone dalla genesi travagliata (il testo, tra censure e autocensure, fa esplicito riferimento al fascismo e al MSI) e qui privata del lungo intro di contrabbasso in favore di una maggior dose di elettricità; e c’è anche Lacrimogeni, presa in prestito da Canzoni Da Spiaggia Deturpata, album d’esordio, datato 2008, di Vasco Brondi (alias Le Luci Della Centrale Elettrica), ai tempi prodotto proprio da Giorgio Canali: altra grande canzone ed ennesima grande rilettura, con una coda rumorosa, che eleva il pathos al parossismo. In scaletta troverete anche brani di Eugenio Finardi (F-104), di Angela Baraldi (Mi Vuoi Bene o No?), di Faust’O (Buon Anno) e dei Mary In June (la vibrante malinconia di Un Giorno Come Tanti); ma soprattutto, troverete un musicista e una band, i Rossofuoco, che ben lungi da replicare pedissequamente canzoni altrui, recuperano quarant’anni di musica italiana inconsueta, e ce li restituiscono vitali, sferraglianti e pervasi da un’attitudine punk che qui, più che mai, è figlia di un’irrequieta, e per questo realmente creativa, onestà artistica. Un grande disco da conservare gelosamente fra le cose migliori di questo 2016.

VOTO: 7,5





Blackswan, martedì 29/03/2016

sabato 26 marzo 2016

TOAD THE WET SPROCKET – DULCINEA (1994, Columbia)



Mi sono sempre chiesto come mai gruppi o artisti che negli States vendono milioni di dischi, da noi sono patrimonio esclusivo di pochi onnivori appassionati. Prendete i Toad The Wet Sprocket, ad esempio: nella prima metà degli anni ’90, la band originaria di Santa Barbara (California) è stata una presenza fissa nelle classifiche americane, aggiudicandosi, anche, un paio di dischi di platino; da noi, il silenzio quasi totale. Se andate a dare un’occhiata alla pagina Wikipedia inglese, passerete una buona  mezz’ora a leggere; nel web italiano, invece, i riferimenti  al gruppo sono radi come i capelli sulla testa di Telly Savalas. Davvero strano. Soprattutto, perché i Toad The Wet Sprocket (il nome bizzarro lo hanno preso in prestito da uno sketch dei Monty Pyton), di canzoni appetibili anche per il pigro e impreparato pubblico italiano, ne hanno scritte davvero tante. Fondatisi nel lontano 1986, i TTWP, appena adolescenti, si sono fatti le ossa con una lunga (e consueta) gavetta di concerti in piccoli locali e di album autoprodotti; poi, nel 1990, la Columbia li mette sotto contratto, ripubblicando i primi due dischi. Il passaggio a una major, come spesso succede, procura alla band di Santa Barbara quella visibilità che prima non aveva, e i continui passaggi a MTV dei singoli All I Want e Walk On The Ocean, lanciano il nuovo album, Fear (1991), in vetta alle classifiche statunitensi, (il tutto certificato da un disco di platino). Nei due anni successivi, l’attenzione dei media resta alta, le vendite si mantengono consistenti, e le loro canzoni vengono inserite nella colonna sonora di un paio di film di cassetta, tutte circostanze che sanciscono per i TTWS lo status di stelle nazionali del(l’alternative) rock. Bisogna, però, battere il ferro finché è caldo e bissare il successo del disco precedente, per non perdere la cresta dell’onda. Detto, fatto. 




Nel 1994, esce Dulcinea, che si mangia a colpi di singoli le charts a stelle e strisce e si aggiudica l’ennesimo disco di platino, nonostante una copertina inguardabile e un titolo, dai riferimenti letterari spagnoli (il Don Chiscotte di Cervantes), per i più davvero poco appetibile. Il motivo di tanto successo sta ovviamente nelle canzoni, tredici per la precisione, vestite tutte di abiti orgogliosamente mainstream e dotate di un appeal melodico (e radiofonico) che riuscirebbe a conquistare anche il cuore del rocker più incallito. I Toad The Wet Sprocket non si inventano nulla, ma sono bravi a inserirsi nel contesto musicale del tempo, fondendo con intelligenza i suoni che vanno per la maggiore nell’allora attuale panorama rock: l’Americana solare dei Jayhawks, gli struggimenti malinconici dei Counting Crows, e l’energia radio friendly di quel movimento post grunge che, a partire dall’anno precedente, sta ingolfando le case discografiche di gruppi mediocri, ma dall’alto potenziale economico. La band capitanata da Glen Philliphs (voce e chitarra ritmica) e Todd Nichols (chitarra solista), rielabora il tutto con gusto e intelligenza, dando vita a un sound, che forse non sarà mai immediatamente riconoscibile, ma il cui appeal è a dir poco irresistibile. E poi, ci sono le canzoni, tutte orecchiabilissime, tutte possibili hit, ma non prive di quel fascino adulto (i testi indulgono anche verso tematiche religiose e riferimenti letterari di cui sopra) che tiene ben lontano la band dall’essere patrimonio esclusivo dei teenagers. Il disco vende benissimo, il primo singolo, Fall Down, arriva alla prima piazza delle classifiche di genere, il secondo singolo, Something’s Always Wrong, entra nella top ten. Ma la storia dei Toad The Wet Sprocket finisce praticamente qui: l’anno successivo, si raschia il fondo del barile, con un’inutile raccolta di b-side (In Light Syrup) e nel 1997, esce Coil, ultimo capitolo della band, che si scioglierà nel 1998, per sopravvenute divergenze artistiche (in realtà, è Glen Phillips che scalpita per iniziare una carriera in solitaria). La reunion, datata 2013, produce, grazie al crowdfunding, un disco, New Constellation, che viene accolto tiepidamente dalla critica e dal pubblico, e che suscita più di un rimpianto fra i numerosi fans americani (e i più sparuti fans europei), per quel gioiello di mainstream rock dal titolo Dulcinea.





Blackswan, sabato 26/03/2016

venerdì 25 marzo 2016

JEFF BUCKLEY – YOU AND I (2016, Colombia)



Quando escono raccolte di inediti di artisti scomparsi, il mio buon senso mi dice subito di starne alla larga. Perché tanto lo sappiamo che tutte queste operazioni sono motivate dallo scopo principale di riempir le tasche a chi detiene i diritti del defunto, siano essi case discografiche o parenti. Si chiama sciacallaggio, e noi tutti, fans e appassionati, finiamo spesso per caderne in trappola e renderci complici. L’esperienza insegna, però, che ci sono due forme di sciacallaggio: una cattiva e una buona. Il primo caso, quello da ultimo più eclatante, è stata la pubblicazione, lo scorso anno, di una raccolta di canzoni sotto la doccia (non saprei come altro definirle) a firma Kurt Cobain: un’operazione indecente, che proponeva materiale inutile, senza interesse né storico né artistico, con l’intento esclusivo di raggranellare qualche soldino, con buona pace del compianto Kurt. Lo sciacallaggio buono, invece, è quello che fa coincidere intenti meramente economici (questi ci saranno sempre) con altri più nobili, come, ad esempio, regalare ai fans, materiale che sarebbe, questa volta si, uno spreco tenere a impolverarsi nel cassetto. E’ questo il caso di You And I, raccolta di canzoni (otto cover, un inedito e un’alternative take di Grace) cantate e suonate da Jeff Buckley, e dallo stesso registrate in un’unica sessione presso gli Shelter Island Sound di New York. E’ il febbraio del 1993, Buckley, allora noto solo per essere il figlio di Tim, non è ancora la star di Grace (l’album uscirà circa un anno e mezzo più tardi), ma viene visto durante un’esibizione dal produttore Steve Berkowitz, che ne rimane estasiato, tanto da portarlo in studio, per testare fin dove possa arrivare il talento di questo giovane dalla voce d’angelo. Il resoconto di quelle registrazioni è contenuto in You And I, che non è un vero e proprio disco (manca la visione artistica che lega le canzoni fra loro), ma è senz’altro una raccolta di brani degnissimi, cantati magistralmente dal giovane e sfortunato Jeff. Se è vero che You And I non toglie e non aggiunge nulla alla breve, ma folgorante, carriera di Buckley, è per converso vero che il materiale resta comunque interessante, sotto diversi profili. In primo luogo, da un punto di vista artistico, queste canzoni, nella loro scarna essenzialità, dimostrano l’immenso carisma e la tecnica vocale (che di lì a poco sarà perfettamente oliata) di un artista in grado di riempire con la sua sensibilità angelica il vuoto lasciato dalla mancanza di arrangiamenti (peculiarità, questa, ravvisabile, anche in Live At Sin-é. L’Ep live uscito a novembre dello stesso anno). In secondo luogo,  il valore di You and I è anche storico: questo è il Jeff Buckley non ancora leggenda, quello che cerca di emergere, non sfruttando la notorietà del padre, ma affidandosi esclusivamente alle proprie capacità di interprete e compositore. Sotto questo aspetto, ad esempio, acquista immensa importanza la prima versione mai edita di Grace, cavallo di battaglia e title track dell’album che arriverà, e brano che getta luce su un’abilità compositiva ancora in nuce, ma pronta ad esplodere di lì a breve. Così come l’eterogeneità del repertorio, racconta assai bene dell’eclettismo di un ragazzo, giovane ma con già una solida base di conoscenze musicali alle spalle. Un ragazzo che sa spaziare egregiamente dal brit pop degli Smiths (da brividi la cover di I know It’s Over, posta cinicamente, dagli autori, a fine raccolta) all’hard rock dei Led Zeppelin (chi altri, oltre a Plant, poteva cantare così bene Night Flight?), al folk di Dylan (Just Like A Woman è forse la cover più interessante sotto il profilo dell’arrangiamento) e al blues del Mississippi (la rilettura old style del traditional, Poor Boy Log Way From Home). Se Dream Of You And I è, invece, solo un abbozzo di ciò che sarebbe potuta diventare una grande canzone, il pezzo da novanta della raccolta è Calling You (estratta dalla colonna sonora di Baghdad Cafè, consigliatissimo lungometraggio del 1987 a firma Percy Adlon), originariamente interpretata da Jevetta Steele, e riletta da Buckley con un intensità che sbriciola il cuore. In definitiva, dunque, You And I, va a implementare una discografia postuma che, rispetto a quanto solitamente accade, non ha mai infangato la figura di Jeff, ma ha semmai regalato ai suoi fans la possibilità di riascoltare (dignitosamente) la voce di uno degli artisti, che ha inciso in modo significativo sul suono di una decade. Riposa in pace, Jeff: ancora una volta la tua memoria è salva.

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 25/03/2016

giovedì 24 marzo 2016

BOB MOULD - PATCH THE SKY (2016, Merge)



E’ il 35esimo anno che passiamo in compagnia di Bob Mould, dall’esordio degli Hüsker Dü (Land Speed Record) del 1982, passando per la magnifica parentesi degli Sugar (92-95) ad oggi. Patch The Sky è il 13esimo album solista, il secondo che esce per la Merge dopo Beauty & Ruin del 2014 (uno dei dischi dell’anno e non solo per chi scrive). Non si contano più le grandi canzoni che lo straordinario cantante/chitarrista americano ci ha regalato in questi decenni influenzando al contempo intere generazioni di musicisti che si sono via via succedute. Tutto l’Indie e l’ Alternative Rock gli è debitore. Solo i Sonic Youth (o i R.E.M. in ambiti diversi) hanno avuto un impatto paragonabile per chi è arrivato dopo. Fugazi, Meat Puppets, Dinosaur Jr., Pixies, tanto per citare alcune tra le band più importanti, difficilmente sarebbero approdati alla sintesi sonora che ha poi caratterizzato un’intera epoca. L’estremizzazione di ciò che rimaneva del Punk con l’inusitata velocità esecutiva delle composizioni e, dall’altro lato della moneta, l’introduzione di aspetti spudoratamente Pop. Tonnellate di feedback atte alla restituzione sostanzialmente “orecchiabile” dei brani. Un blend originalissimo che diede nuovo vigore al movimento Punk radicalizzandolo come non mai e lasciando comunque immutata la forza attrattiva. Non per niente la Warner Bros. li mise sotto contratto. Un imprinting “commerciale” di cui beneficiarono anni dopo Grunge e Crossover, generi che non sarebbero mai esistiti senza album come Zen Arcade, Flip Your Wig, Warehouse: Songs And Stories, i capolavori più fulgidi e seminali della band di Minneapolis. E’ sul solco di questi presupposti che si sviluppa tutta l’attività di Bob Mould nel dopo Hüsker Dü, con i Sugar e da solo: la ricerca della bella melodia in un rumorosissimo contesto Post Punk. A questo proposito date un’occhiata al video sulla sua fragorosa e trascinante partecipazione al David Letterman Show nel 2015 (www.youtube.com/watch?v=m1pXinbD84E). Quella volta che è caduta polvere dal soffitto. Come ebbe a dire il buon Bob sull’esiziale esibizione televisiva.




In questo nuovo lavoro, a completare la dimensione Power Trio - la formula che più si addice a Mould - offrono un contributo determinante i collaudati Jason Harducy (Split Single) al basso e Jon Wurster (Split Single, Superchunk, Mountain Goats) alle percussioni. Inesorabile sezione ritmica tra le migliori in circolazione. Si parte con un gran pezzo, scelto anche come singolo, Voices in My Head andamento marziale e refrain che ti entra subito nel cervello (il ritornello chimico, come dice lui). L’eccitazione Pop Punk non diminuisce nei brani che seguono The End of Things, Hold On (una delle vette dell’album) e You Say You. E’ un fenomenale poker iniziale con la Fender al posto degli assi. Da adesso in poi la mano è facile e Mould prosegue da gran giocatore senza esagerare: Losing Sleep è una meravigliosa ballata utile ad incrementare il piatto. Il rilancio che fa il vuoto arriva subito dopo con Pray for Rain: un biglietto da visita del Power Pop moderno. D’ora in avanti si contano le fiches ammucchiate e ci si rilassa bevendo uno scotch. La seconda parte del disco infatti è più oscura e introspettiva nonostante ci siano altri pezzi - Hands Are Tied e Losing Time - capaci di far tremare i soffitti. Lucifer and God, Black Confetti e Monument sono gli episodi che mitigano l’incedere a perdifiato, gli accordi fanno spazio agli arpeggi e Mould può abbassare il volume per fermarsi e riflettere su alcuni temi a lui cari: altre morti, relazioni finite, la vita che si fa più corta. Lo fa con la consueta intensità emotiva e nelle interviste pre-release, oltre a riaffermare che al momento non ha nessuna intenzione di riesumare gli Hüsker Dü (con Grant Hart per una volta d’accordo) - Non voglio trarre vantaggi dalla mia esperienza in quella band. Né voglio in alcun modo fare qualcosa che abbia ripercussioni sulla sua eredità. - riesce anche a divertirci affermando: La musica è una droga incredibilmente potente. Voglio essere il vostro spacciatore. Ho quello di cui avete bisogno. Sempre in equilibrio tra cuore e stomaco. Grande Bob Mould, quando la prossima dose? 

Voto: 7.5





Porter Stout, giovedì 24/03/2016