Pagine

giovedì 30 giugno 2016

JOAN BAEZ - 75TH BIRTHDAY CELEBRATION



Non è certo questa la sede per raccontare vita morte e miracoli dell'usignolo di Woodstock; ci limiteremo, semmai, a ricordare che oggi Joan Baez e tutto il carico di storia e di civiltà che rappresenta, continua a calcare i palchi del mondo per raccontarci un percorso artistico iniziato quasi cinquantasei anni fa, quando, nemmeno ventenne, pubblicò il suo album d’esordio. Questo doppio cd (corredato anche da un dvd nell'edizione deluxe) non si limita solo a celebrare i settantacinque anni compiuti dalla Baez il 9 gennaio, ma ci regala l'ennesima intensa esibizione di un'artista che, nonostante l'età, non ha perso un briciolo di quella bellezza e di quella voce soave che fecero perdere la testa a Bob Dylan (e non solo). Registrato al Beacon Theatre di New York, la sera del suo compleanno, questo show vede Joan Baez affiancata da dodici fra i suoi artisti preferiti e amici di lunga data, che accompagnano la cantante newyorkese attraverso una scaletta di ventun canzoni suonate e cantate egregiamente. Il parterre de roi, come spesso succede in queste celebrazioni, è da far tremare le vene nei polsi: Mary Chapin Carpenter, Judy Collins, le Indigo Girls, Mavis Staples, Emmylou Harris, Jackson Browne, Paul Simon, David Crosby, Damien Rice, Nano Stern, Richard Thompson e David Bromberg, tutti bravi ad assecondare il talento della Baez e attenti a non rubarle la scena. La scaletta, pur essendo orfana di qualche classico del repertorio (Farewell Angelina, We Shall Overcome, Here's To You le assenze più eclatanti), è ricca di grandi canzoni, pescate dalla tradizione (She Moved Through The Fair), da immortali evergreen (The Boxer) e da qualche brano più recente, come l'iniziale God Is God di Steve Earle, tratta dall'album Day After Tomorrow del 2008. Una splendida (e ci mancherebbe) Forever Young chiude il concerto, lasciandosi alle spalle una bella scia di sensazioni, che vanno da una There But The Fortune di Phil Ochs da brividi fino a The Night They Drove Old Dixie Down di Robbie Robertson. In mezzo, mezzo secolo di storia, grandi canzoni e una voce senza tempo.
A luglio in tour in Italia.

VOTO: 7





Blackswan, giovedì 30/06/2016

mercoledì 29 giugno 2016

SULFUR CITY - TALKING LOUD



Ecco un'altra band che rappresenta un’interessante novità per tutti quelli che amano il genere del rock blues venato di hard: si chiamano Sulfur City, arrivano dal Canada e hanno appena pubblicato Talking Loud,  il loro album d'esordio. A capitanarli, c'è una ragazza, Lori Paradis, che si ruba tutta la scena, non solo per l'indubbia avvenenza fisica o per la voce potente, ma anche perché, prima di darsi anima e corpo alla musica, ha inanellato una suggestiva quanto bizzarra trafila di lavori che poco si adattano alla grazia del gentil sesso. Nata in una piccola cittadina del Nord Est dell'Ontario, la Paradis, prima di fondare i Sulfur City, ha infatti guidato camion per un'impresa di costruzioni, ha fatto l'imbianchina e ha pure vissuto un'esperienza da barista. Poi, l'amore per la musica rock e i continui riconoscimenti acquisiti a livello amatoriale, l'hanno spinta a crederci con tutte le forze e a strappare un contratto con l'etichetta Alive. Ad affiancarla in questa nuova avventura, Jesse Legage alla chitarra elettrica, Steve Smith al basso, Sam King alla batteria e Keith Breit alle tastiere. Il disco, prodotto da Dale Morningstar (Cowboys Junkies, Neko Case) e registrato presso i Gas Station Recording Studio di Toronto contiene undici canzoni di rock blues senza compromessi, che si ispirano, almeno in certi casi, agli anni '70, ma che riescono comunque a suonare moderno, evocando gruppi di genere come i Black Keys e i Left Lane Cruiser. Inutile dire che il valore aggiunto di questa musica, un po’ scontata nei contenuti, è la voce della Paradis (che si cimenta anche alla electric washboard – strumento a percussione tipico della tradizione cajun), una che tecnicamente ha ancora da imparare, ma che per estensione e potenza non ha nulla da invidiare a colleghe più famose. La ragazza ci da dentro, insomma, scatenando il suo lato selvaggio e ruggendo di canzone in canzone, mentre inevitabili arrivano alle nostre orecchie echi di Grace Slick, Patti Smith e Janis Joplin. Talking Loud è, dunque, un esordio di onesto e grintoso classic rock, da mettere sul piatto e ascoltare ad alto volume, bevendosi una birra ghiacciata e senza farsi troppe domande.

VOTO: 6,5





Blackswan, mercoledì 29/06/2016

martedì 28 giugno 2016

ROYAL JELLY JIVE - STAND UP



Tra le cose più interessanti del momento possiamo certamente annoverare i Royal Jelly Jive, band proveniente da San Francisco e fondatasi durante l'estate del 2013. Fin dalle prime apparizioni in pubblico, il combo non ci ha messo molto ad accaparrarsi l'attenzione del pubblico, e in brevissimo tempo è diventato una delle realtà più richieste nel circuito musicale della Bay Area. Il primo disco lo realizzano a fine 2014, iniziando contestualmente un lungo tour che li vede impegnati, prima, lungo tutta la west coast, e poi, quando il loro nome inizia a circolare negli ambienti che contano, su tutto il territorio nazionale. Merito di travolgenti live show, di una line up fuori dall'ordinario e di una proposta musicale  difficilmente etichettabile. Il gruppo, infatti, si compone di sei elementi, capitanati dalla cantante Lauren Michelle Bjelde, una che ha masticato jazz, blues e soul tutta la vita, e che probabilmente tiene i dischi di Nina Simone e di Amy Winehouse sotto il cuscino. Gli altri sono Jesse Lemme Adams alla fisarmonica e chitarra, Felix Mcnee alla batteria, Danny Cao alla tromba, Tyden Binsted al basso e Robby Elfman al sassofono e clarinetto. Un sestetto dai connotati prevalentemente jazz, ma capace tuttavia di spaziare con mestiere ed eleganza fra vari generi. La musica dei Royal Jelly Jive, contenuta in questo secondo full lenght, è infatti una stravagante, divertente, eclettica e molto ben assemblata miscela che contiene elementi soul, jazz, blues e hip hop. Sono tredici le canzoni che compongono la scaletta, nella quale si assaggia praticamente di tutto: dal jazz di New Orleans a echi di Cab Calloway, da melodie sghembe alla Tom Waits (omaggiato nella splendida Dear Mr. Waits) a quel pop venato di jazz che rese leggendaria la citata Amy Whinehouse, fino a includere anche elementi funk e swing. Undici sono i brani originali, tutti a firma di Jesse Lemme Adams, e due, invece, sono le cover: Green Grass, sempre dell'adorato Waits, e una irriconoscibile Tommy The Cat dei Primus, a testimonianza di quali siano le fonti d'ispirazione della band. Stand Up è un disco bizzarro e ricco di fascino, che cattura numerosi ascolti per la freschezza d'ispirazione e per la travolgente carica di entusiasmo e gioia che tracima da ogni singola nota suonata. Un ascolto assolutamente da provare, se si vuole uscire dagli schemi e assaggiare qualcosa che non sia la solita zuppa.

VOTO: 7,5





Blackswan, martedì 28/06/2016

lunedì 27 giugno 2016

IL MEGLIO DEL PEGGIO





Riceviamo dalla nostra freelance Cleopatra e integralmente pubblichiamo

L'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea e la vittoria schiacciante del Movimento 5 Stelle mi hanno evocato l'immagine della corda che si spezza. A furia di costringerci a vivere in un sistema globalizzato che privilegia la finanza e gli interessi delle multinazionali, si è radicata nei più l'intento di imprimere una svolta radicale per uscire dalle secche dell'austerità. 
La Brexit, del resto, ne è un chiaro esempio. Giusta o sbagliata che sia, la scelta del Regno Unito di separarsi dall'Europa ha stigmatizzato un concetto semplice e chiaro: riappropriarsi della propria autonomia decisionale e riprendersi il futuro.
Una lezione di democrazia e di coraggio, comunque la si pensi. E a chi osa parlare di eccesso di democrazia, come ha incautamente affermato l'ex premier Mario Monti, rispondo con la locuzione latina "vox populi, vox Dei". Checchè ne dicano i freddi esecutori dei diktat di Bruxelles, solo attraverso lo strumento del voto si può porre un argine all'inadeguatezza e alla sordità della politica. Del resto, qualcosa comincia lentamente a muoversi anche a casa nostra. Lo dimostra il fatto che, come nella Brexit , nelle elezioni amministrative è sembrato delinearsi il desiderio di scardinare l'accondiscendenza di una certa politica nei confronti dei poteri forti. L'aspirazione a uno stato declinato al sociale, ai bisogni delle fasce più deboli e ai valori di onestà ed equità, comincia a prendere forma. Mai come adesso si avverte la necessità di una società in cui il tema della disuguaglianza sociale sia prioritario rispetto alla finanza. Il cambiamento millantato da Renzi non passa di certo attraverso il sì alla riforma costituzionale. Quello è solo uno specchio per le allodole.

Cleopatra, lunedì 27/06/2016

domenica 26 giugno 2016

ELISABETH COOK - EXODUS OF VENUS



Tante delle cose più interessanti uscite in questo 2016 sono colorate di rosa: Bonnie Bishop, Lucinda Williams, The Savages, Jane Lee Hooker, solo per citarne qualcuna. A tanti bei dischi si aggiunge anche Exodus Of Venus, il nuovo disco di Elisabeth Cook. Un nome che dalle nostre parti dice poco o nulla, mentre in America, invece, questa ragazza originaria della Florida vanta un cospicuo seguito di fans. La musica della Cook si può inserire tranquillamente nel filone americana, anzi a voler essere precisi nel filone Ameripolitan, classificazione creata di recente per indicare una musica fortemente legata alle radici che fonde principalmente quattro generi: honky tonk, western swing, rockabilly e soprattutto outlaw country. I Music Awards di Ameripolitan sono nati nel 2014 e la Cook, alla prima edizione, ha vinto un riconoscimento per la categoria Oulaw Female. Insomma, stiamo parlando di un personaggio di tutto rispetto. Exodus Of Venus è il suo primo full lenght dopo uno iato durato sei anni e nasce da due dolorose esperienze: la morte del padre e la fine del matrimonio con Tim Carroll, suo collaboratore e chitarrista storico. Due eventi che hanno necessariamente segnato la vita della quarantreenne songwriter, ma hanno anche influenzato decisamente il suono di queste canzoni. Il nuovo disco, infatti, si discosta nettamente dai lavori precedenti, è più elettrico e più virato verso sonorità rock e blues, ma soprattutto i brani che compongono la scaletta sono pervasi da un mood cupo e depresso, che si riverbera pesantemente anche sui testi. La title track, con cui si apre il disco, è una ballata elettrica dai toni swamp, sostenuta da una ritmica quadrata e dalla chitarra ruvida di Dexter Green, che oltre a suonare nel disco lo produce anche.




E’ subito chiaro che le sonorità rock predominano, che il sound è irrorato da un’aspra malinconia e che durante l’ascolto sarà (prevalentemente) la notte a prendersi cura di noi. I testi sono chiaramente autobiografici, e la Cook mette a nudo le sofferenze di un amore che le ha causato un crollo fisico ed emotivo (Broke Down In London On The M25). Nel consueto gioco dei rimandi è soprattutto Lucinda Williams a venire in mente, come è palese nel solido groove di Dyin’, un altro brano innervato da un rancore a stento trattenuto. Ma il peso del dolore e i fantasmi del passato emergono prepotentemente soprattutto nel rock astioso di Evacuation e nel rallenti blues di Slow Pain, una lenta e lunga discesa nei più inaccessibili romiti del dolore, segnata dalle rasoiate di lap steel di Jesse Aycock e dalle distorsioni noise di Green. Da segnalare anche Dharma Gate, ballata avvolta di una trasognata nostalgia, che depurata dagli accenti americani, potrebbe funzionare benissimo in un disco di Lana Del Rey, Straightjacked Love, una sorta di vademecum del genere Ameripolitan, e il battito funky soul di Methadone Blues, uno dei momenti più leggeri in scaletta. In verità, non c’è una sola canzone di Exodus Of Venus (titolo programmatico come pochi) che non meriti di essere citata (oltre che, ovviamente, ascoltata con estremo interesse). La Cook, infatti, mette a segno il suo personale capolavoro e uno dei dischi di americana più belli dell’anno: aspro, ruvido, depresso, ben poco accondiscendente e lontano dai consueti lidi contigui a sonorità country. Come spesso succede in ambito musicale, da un grande dolore nasce una grande arte: qui c’è rabbia, c’è rancore, c’è un grumo di fiele che rende amara la bocca. E’ sincerità, è sofferenza, è la vita, è musica vera.

VOTO: 9 





Blackswan, domenica 26/06/2016