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sabato 29 luglio 2017

GENESIS – DUKE (Charisma, 1980)



Finita quella che solitamente viene definita l’era Gabriel, i Genesis ripartono ridimensionati nell’organico e con la barra del timone saldamente in mano a Phil Collins. Il batterista, con la fuoriuscita dal gruppo della prima donna di Bath, che gli imponeva regole ferree anche su come suonare la batteria, può finalmente dar sfogo alle proprie velleità di cantante (già sperimentate in rari episodi del passato: ad esempio in More Fool Me da Selling England By The Pound) e, più avanti, di compositore, oltre che sbrigliare lo stile pirotecnico che da quel momento contraddistinguerà il suo drumming all’interno del gruppo. Se all’esordio del nuovo ciclo i Genesis non sembrano risentire della mancanza del leader, pubblicando l’ottimo A Trick Of A Tail (1976), disco che equilibra l’affabulante romanticismo del passato (Ripples, Entangled, Mad Man Moon) con il piglio più marcatamente rock che aveva contraddistinto il precedente The Lamb Lies Down On Broadway (Squonk, Robbery Assault & Battery), il successivo Wind & Wuthering, uscito alla fine dello stesso anno, comincia a mostrare i segni di un cedimento d’ispirazione. Attraversato, fin dalla bella copertina di Colin Elgie, da un mood romantico e autunnale, il disco affianca piccoli gioielli (Blood On The Rooftops, Afterglow), ad aperture decisamente pop (Your Own Special Way) e a tentativi, per lo più frusti e privi di mordente (One For The Wine, …In That Quiet Earth) di rinverdire i fasti di un rock progressive ormai in balia della forza iconoclasta del nascente movimento punk. Chiuse le registrazioni del disco, è Steve Hackett, stufo di avere un ruolo marginale a livello compositivo, a mollare il colpo e a fare i bagagli. Esce così un nuovo album dall’ironico titolo …And The There Were Three (…E alla fine rimasero in tre), che vira decisamente verso il pop e una forma canzone più convenzionale. Trainato da due singoli di successo (l’improbabile e stucchevole calypso di Follow You, Follow Me e il romanticismo un po’ slavato della pur dignitosa Many Too Many), l’album vende benissimo (soprattutto negli States) ma segna un definitivo cambio di rotta della band, che comincia a intravvede il successo planetario, ma anche una normalizzazione del songwriting, che si allontana sempre più dalle asperità del lungo minutaggio e dalle strutture complesse del progressive.




E’ il 1978 e la band, nonostante un ottimo riscontro di vendite, sembra aver imboccato definitivamente la strada del declino artistico: i vecchi fans, che si sentono traditi dalla svolta presa da Collins (è lui l’eterno colpevole), iniziano a darsela a gambe levate, e la critica, influenzata anche dal nascente movimento new wave e da un nuovo modo di concepire la musica, non lesina critiche feroci a un gruppo che, viste le ultime prove, appare evidentemente in debito d’ossigeno. Quando il 28 marzo del 1980 esce il nuovo Duke, in pochi si sarebbe aspettati un disco migliore del suo predecessore. E invece Collins, Rutherford e Banks piazzano il colpo di coda che non ti aspetti, un disco gagliardo e ispirato, equidistante da tutti le opere che lo hanno preceduto ma anche da quelle che gli succederanno. I tre, insomma, tornano ad avere le idee chiare e a trovare quell’ispirazione che sembrava perduta. Non a caso, Tony Banks e Mike Rutherford hanno da poco pubblicato i loro primi, convincenti, album solisti (rispettivamente intitolati A Curious Feeling e Smallcreep’s Day), mentre Collins è alle prese con il fallimento del suo primo matrimonio, che lo spinge, potere artistico del dolore, a scrivere alcune delle sue migliori canzoni di sempre. Duke è una sorta di concept album che suona decisamente più rock (il singolo Turn It On Again è il biglietto da visita del disco), spigoloso in alcuni brani nei quali si tenta di ripensare al consunto canovaccio prog, modernizzandone le sembianze (l’iniziale suite spezzettata in Behind The Lines, Duchess e Guide Vocal e quella finale suddivisa in Duke’s Travels e Duke’s End), più ammiccante in alcuni episodi a firma Collins (le belle Misunderstanding e Please Don’t Ask), che indossano le vesti di un elegante adult pop, attraverso il quale il cantante riflette sui propri tormenti d’amore.





Il mercato viene aggredito con la già citata Turn It On Again, uno spiazzante riff in 13/8 che spinge i Genesis nella top ten delle classifiche inglesi e li conferma ai vertici di quelle statunitensi, laddove, durante il periodo Gabriel, non avevano mai nemmeno pensato di potersi avvicinare. Se da un lato, sarebbe ingeneroso un paragone fra Duke e il periodo d’oro della band, è però di tutta evidenza che questo è probabilmente l’ultimo album dei Genesis a meritare attenzione artistica. In primo luogo, infatti, è apprezzabile il tentativo di guardare al presente e di evolvere il suono mutuando anche strumenti morfologicamente agli antipodi con la storia della band (la drum machine in Duchess, ad esempio, è l’antipasto elettronico di quello che si sentirà massicciamente nei successivi Abacab e Genesis); e inoltre, non mancano certo buone canzoni in senso assoluto, come l’iniziale e festosa Behind The Lines, arrotondata affermazione d’orgoglio di una band che si sente viva e vegeta, o certi acquarelli pianistici di Banks (la sonnacchiosa Heathaze, la breve e struggente Guide Vocal), nipotini rachitici della grandeur malinconica di Firth Of Fifth. Per i fan della prima ora l’avventura dei Genesis si conclude definitivamente qui. A prescindere, però, dai gusti personali (da questo momento in poi il terzetto acquisirà stuoli di nuovi fans e avrà un ritorno commerciale mai raggiunto prima), è fuori di dubbio che l’influenza di Collins sarà determinante nel prosieguo della storia. Lanciato in una clamorosa carriera solista (Face Value del 1981, Against All Odds del 1984 e, soprattutto, No Jacket Required del 1985), il cantante batterista (l’ordine corretto ormai è questo) trasformerà i Genesis in una sorta di personale side project, attraverso il quale testare in fotocopia le idee che lo condurranno a vendere milioni di dischi. Da solo e con la band.





Blackswan, sabato 29/07/2017


1 commento:

  1. Nella metà degli anni '70, i Genesis erano il mio gruppo preferito. Ero ancora piuttosto giovane, ma quando uscì ...And Then There Were Three... capii che niente era più lo stesso e li lasciai andare per la loro strada , senza più acquistare i loro LP.

    Dei primi periodi dei Genesis, oggi rimane gagliardamente in pista il solo Steve Hackett, che ho visto dal vivo l'8 di luglio. Gli altri tre sono sicuramente diventati ricchi, lui invece è diventato una persona coerente, che suona ancora straordinariamente bene e che mette grande impegno in quello che fa.

    Quindi, in realtà, i Genesis (quelli veri) sono Steve Hackett. Tutto quello che è venuto dopo Wind & Wuthering è opera dell'anticristo.

    Un abbraccio.


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