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mercoledì 28 febbraio 2018

RUBY BOOTS - DON'T TALK ABOUT IT (Bloodshot Records, 2018)

Dopo un pugno di Ep, pubblicati tra il 2010 e il 2014, la carriera dell’australiana Ruby Boots, nome de plume di Rebecca Louise “Bex” Chilcott, ha avuto una brusca impennata nel 2015, con la pubblicazione del suo primo full lenght, intitolato Solitude. Premi e riconoscimenti ottenuti in patria, la firma con la prestigiosa etichetta Bloodshot Records e il trasferimento a Nashville, dove la songwriter, originaria di Perth, ora vive e lavora, sono state le ulteriori tappe che hanno portato alla pubblicazione di Don’t Talk About It.
A dispetto della nuova residenza, universalmente riconosciuta come patria del country, in questo secondo disco le influenze e i suoni roots, rispetto all’esordio di tre anni fa, sono ridotti al lumicino, quasi insussistenti. Registrato a Dallas, presso i  Modern Electric Sound Recorder Studios, prodotto da Beau Bedford e corroborato dal contributo dei The Texas Gentlement, session band dinamicissima,  Don’t Talk About It propone, infatti, una scaletta di sferzante pop rock, perfettamente in equilibrio fra modernità indie e un accattivante appeal radiofonico.
Pimpante come Nikki Lane (qui presente a dare una mano ai cori e come coautrice di un brano) e graffiante come la prima Lydia Loveless, Ruby sfoggia un’incredibile attitudine rock, alza il volume delle chitarre,  assecondando il suono molto immediato e potente della sua backing band. E non dimentica, tuttavia, anche il gusto per melodie di facile presa, distribuendo in scaletta alcune ballate davvero riuscite.
Apre il disco l’ispido punk rock di It’s Cruel, la batteria pestata a sangue, le chitarre sferraglianti e la voce impertinente di Ruby a mettere subito le cose in chiaro: chi si attendeva delicatezze pop country come Wrap Me In A Fever e Midlle Of Nowhere dal precedente lavoro, è pregato di cambiare canale. Le chitarre, infatti, si fanno arroventate anche in Somebody Else, power pop che corre dritto come una Mustang decapottabile verso l’orizzonte, scaricano kilowatt di elettricità nel finale percosso di Believe In Heaven, omaggiano grintose Tom Petty nel rock virile di Easy Way Out  o duettano, intrecciando cromatismi byrdsiani, nel coloratissimo pop rock di Infatuation.
Poi, ci sono anche le ballate, in cui Ruby dimostra di avere la mano caldissima, come nella title track, che avrebbe ben figurato in un disco dei migliori Cranberries, o nella splendida I’ll Make It Through, le cui atmosfere noir si schiudono nella luce di un ritornello la cui bellezza non fa prigionieri. Chiude la scaletta Don’t Give A Damn, con in evidenza i Texas Gentlement a creare una febbricitante atmosfera rock gospel.
Brano, questo, che sigilla al meglio un album diretto e divertente, in cui Ruby dimostra di avere tante frecce al proprio arco e di saper cogliere bersagli molto distanti da quel country che aveva (ben) caratterizzato i suoi esordi.

VOTO: 7,5





Blackswan, mercoledì 28/02/2017

martedì 27 febbraio 2018

PREVIEW




Accantonato per il momento il progetto Pistol Annies, Ashley Monroe è quasi pronta a pubblicare il suo quarto disco solista. La songwriter di Knoxville, infatti, rilascerà il 20 di aprile Sparrow, via Warner Bros. Nashville. Il disco sarà prodotto dal Re Mida del roots americano, Dave Cobb, e conterrà un filotto di canzoni che la stessa Monroe ha definito “dal suono unico”, in bilico fra tradizione e modernità. I temi che hanno ispirato le canzoni sono la morte del padre, il matrimonio e la maternità. Ma nel singolo apripista (scritto insieme a Jon Randall), intitolato Hands On You, la Monroe non perde l’occasione per rimarcare una sensuale femminilità.





Blackswan, mercoledì 28/02/2018

THE SIDESHOW TRAGEDY - THE VIEW FROM NOWHERE (Borderline Blues, 2017)

Band di stra-nicchia, i The Sideshow Tragedy sono un duo di blues/roots/rock proveniente da Austin, Texas, e composto dal chitarrista e cantante Nathan Singleton e dal batterista Jeremy Harrell. E questo è più o meno tutto quello che si sa della band, oltre al fatto che Singleton, vero artefice del progetto, è cresciuto masticando tonnellate di blues tradizionale (pare che il padre fosse un fanatico collezionista) e si è fatto le ossa suonando in solitaria in parecchi locali dell’East Texas.
Fatta questa breve premessa, utile per avere almeno un paio di coordinate su chi sono i The Sideshow Tragedy, bisogna dire immediatamente che è difficile credere che il disco sia suonato da solo due musicisti. L’impatto, nonostante la produzione scarna di Kenny Siegal e le sonorità quasi in presa diretta, è deflagrante e si ha l’impressione di essere di fronte a una line up di quattro, cinque elementi.
Nonostante il binomio batteria - chitarra non sia certo una novità, la peculiarità del combo texano sta nel fatto che Singleton suona una resonator guitar, elemento distintivo che sposta il suono della band verso un terreno decisamente più roots, evitando che la scaletta si impantani in scontati deja vu.
Decisamente meno duri dei Royal Blood (che però usano un basso distorto e non la chitarra), meno stilosi dei Black Keys, e meno essenziali e garage dei White Stripes, i Sideshow Tragedy (nome ispirato a un poema di Arthur Rimbaud) rivisitano il genere con un mood cupo e nervoso, con poche concessioni alla melodia e qualche spostamento verso sonorità funky.
Pur avendo la band uno stile ben delineato, si percepiscono in scaletta richiami stilistici importanti: a Keith Richard (una delle fonti d’ispirazione dichiarate dallo stesso Singleton), a Lou Reed (fatte le debite proporzioni, lo ricorda in qualche modo la voce di Singleton e l’incedere ieratico della title track), e ad altri mostri sacri quali Morphine e Nick Cave, da cui il duo eredita atmosfere inquiete e notturne.
Smaccatamente roots nella selvaggia Piston Blues, inaspettati nel funk ansiogeno di Time To Taste, drumming in controtempo e il sax nervoso di Ben Senterfit a sparigliare le carte in tavola, arrembanti nei tamburi battenti che aprono la conturbante For Your Love, vagamente melodici nella quadrata Nobody e nel riff quasi hard di Trust, i The Sideshow Tragedy apparecchiano un disco ruvido, fuligginoso e poco accomodante, in cui rimasticano con originalità indie una materia classicissima. Esordio coi fiocchi, ma non facilmente reperibile in formato fisico. Presente, invece, sulle consuete piattaforme digitali.

VOTO: 7





Blackswan, martedì 27/02/2018

lunedì 26 febbraio 2018

IL MEGLIO DEL PEGGIO





Nelle convulse giornate milanesi della Fashion Week, il glamour della catwalk pare avere sedotto persino Matteo Salvini. In occasione della adunata leghista in Piazza Duomo, il ruspante segretario del Carroccio, munito di rosario e di citazioni pasoliniane (Pasolini si rivolta nella tomba), ha sfoggiato impettito cravatta e blazer, come un Premier in pectore che si conviene. Matteo delle Felpe, quello che un tempo inneggiava assieme all'Umberto (Bossi), padre fondatore della Lega Nord, "immigrati fora da i ball", pare essersi ultimamente infighito. Archiviata la fase della gara dei rutti e degli insulti gratuiti ai napoletani, Salvini sembra avere definitivamente parcheggiato la ruspa nel box. Si atteggia ormai a uomo di palazzo, quello con l'auto blu per intenderci, come se si sentisse già insignito di un qualche ruolo istituzionale. "Prima gli italiani" è oggi il suo mantra. Lo slogan elettorale è su tutti i manifesti, affissi perlopiù da extracomunitari. Una semplice congiuntura, direbbe qualcuno. Se pensiamo, però, che le persone immortalate non sono italiane ma di nazionalità slovacca e ceca, altro che congiuntura. Siamo alle comiche o a una gigantesca presa per i fondelli pret- à- porter. 

Cleopatra, lunedì 26/02/2018

domenica 25 febbraio 2018

KATRES - ARABA FENICE (Giungla Dischi, 2018)

Ci sono dischi così intimi e profondi, che recensirli è come tradire un segreto, svelare una confidenza, rompere un vincolo esclusivo e inconfessato. Non avrei voluto scrivere nemmeno una riga di Araba Fenice, opera seconda di Katres, al secolo Teresa Capuano, giovane artista catanese, trapiantata a Napoli; avrei voluto, invece, conservare queste preziose canzoni solo per me, tenerle in serbo per una sorta di pudore che nasce dalla condivisione dei sentimenti e da quella magia di immedesimazione che si crea, talvolta, tra l’artista e l’ascoltatore.
Se scrivere di musica, però, ha un senso, questo sta proprio nel divulgare la bellezza, nel fare da tramite fra chi la bellezza l’ha creata e coloro che ne possono godere. E’ difficile esprimere con chiarezza le suggestioni di un disco che supera per intensità e intelligenza la media di ciò che siamo abituati ad ascoltare, spesso, peraltro, senza renderci nemmeno conto che anche fuori dai consueti circuiti mainstream, nazionali e internazionali, possiamo scovare autentici gioielli, ahimè, spesso snobbati.
Con Araba Fenice, Katres ridisegna la mappa dei suoi (nostri) sentimenti, riscrive la geografia del cuore e traccia le coordinate di un romanticismo puro, e al contempo ragionato, lontano anni luce dalla sciatteria sentimentale che troppo spesso ammorba le nostre orecchie. C’è più vita che arte, in queste nove canzoni, e non è certo una vita che scorre come un lungo fiume tranquillo, che viene declinata attraverso la consunta assonanza fra cuore e amore.
C’è semmai quell’alternarsi di gioia e dolore, quell’altalena impazzita tra sprofondi di buio e luminosi barbagli di sole, che ci spiazza, lasciandoci senza difese, e che in alcun modo possiamo controllare. La vita è feroce e non fa sconti, e noi siamo fragili giunchi in balia di una tempesta in un mare immenso e senza sponde. Le nostre ferite, quel dolore sordo che si annida fra le pieghe dell’anima, ci ricorda ogni giorno quanto siamo fragili e caduchi. Possiamo soccombere, arrenderci e smettere di combattere. Oppure, possiamo reagire, rifiutare un destino già scritto e, come l’Araba Fenice, rinascere dalle nostre stesse ceneri.
E’ questo il senso di un disco che all’hype di un’ovvia gamma di colori predilige il chiaro-scuro, che sa essere al contempo lieve e profondo, che fa del misurato distacco l’arma per cogliere l’essenza delle emozioni, che gioca sulla contrapposizione tra liriche ironiche, talvolta salaci, e una declinazione nostalgica, ma non arresa, dei sentimenti. Sono canzoni, quelle di Araba Fenice, che ci accarezzano con malinconica dolcezza, ma che sanno anche scuoterci con forza, strattonandoci verso la riflessione; che si insinuano sottopelle grazie a melodie accattivanti, ma che non imboccano mai la strada accomodante della consolazione, preferendo sferzare l’ascoltatore con liriche dirette, che non possono essere fraintese.
Canzoni con i piedi ben saldi nella tradizione dell’indie italiano (evito inutili paragoni: Katres non ha bisogno di riferimenti stilistici per essere raccontata), ma a cui la produzione (icastica, asciutta, mai ridondante) di Daniele Senigallia dona un’ampiezza di respiro internazionale.
E poi, come accennato prima, c’è un’inusuale cura per i testi. Non è solo questione di ritmo, o di scelta delle parole o di ricercatezza delle immagini: la differenza con il consueto risiede nel fatto che Katres dice cose intelligenti e non sacrifica un solo verso all’altare della banalità. Porterei a esempio Non Chiamarmi Amore, arguta riflessione sulla vita di coppia, in cui la protagonista afferma la propria precisa identità, il nome e non un nomignolo, nella consapevolezza che l’io non può essere mai annullato nell’indeterminatezza del “noi”. E che dire di quel verso fulminante che apre la title track (“Balsamo che lenisce le ferite, petalo di seta cresce fra le spine”), così poetico e preciso nel raccontare il momento esatto in cui si percepisce l’inizio della rinascita, quell’attimo in cui si guarda solo al presente per iniziare una piccola, grande rivoluzione interiore?
Resta solo un’ultima nota a margine: il timbro vocale di Katres, così sensuale e ammiccante, nasconde anche indubbie capacità tecniche, che emergono con prepotenza nella cupa (e più scarna) interpretazione di Mokarta, canzone del gruppo messinese dei Konsertu. Una cover, mi permetto di usare un termine abusato ma chiarificatore, da pelle d’oca, e ciliegina sulla torta di un disco, tra i migliori ascoltati in questo primo squarcio del 2018.
Katres, ancorché giovane e solo alla seconda prova sulla lunga distanza, è un’artista con una personalità unica e destinata a grandi cose. Non serve che ve lo racconti io, anche se ci ho provato, basta ascoltare le sue canzoni: sincere, dolcemente scorbutiche, tutte egualmente decisive. Chapeau!

VOTO: 8





Blackswan, domenica 25/02/2018

sabato 24 febbraio 2018

PREVIEW




I Parquet Courts annunciano l'uscita del loro quinto album intitolato Wide Awake!, disponibile dal 18 maggio su Rough Trade Records.
Wide Awake! è un album rivoluzionario che parla di indipendenza ed individualità, ma anche della collettività e del comunitarismo. L’amore è la tematica centrale. C’è anche un senso di freschezza, una conquista di nuovi territori che simboleggiano il testamento dello spirito irrequieto della band.
Una parte di ciò, è attribuibile al fatto che Wide Awake! è prodotto da Brian Burton, meglio conosciuto come Danger Mouse. “L’ethos dietro ad ogni album dei Parquet Courts è la necessità di cambiare al meglio, e il miglior modo per affrontare ciò, è quello di uscire dalla propria comfort zone,” ha affermato il cantante e chitarrista A Savage sull’accoppiata improbabile. “Personalmente ho amato il fatto che il nostro fosse un album dai sapori punk e funk e che Brian sia un produttore pop che ha fatto degli album raffinati. Mi piaceva che non avesse alcun senso.” È stato proprio Danger Mouse, ammiratore dei Parquet Courts che originariamente li ha contattati, presentandogli un’opportunità interessante.
Le canzoni, scritte da Savage e Austin Brown, ma elevate alla massima potenza dalle propulsioni ritmiche e dinamiche di Max Savage (batteria) e Sean Yeaton (basso), sono piene di riferimenti al punk rock più tradizionale. L’album riflette una sicurezza promettente nell’esplorare nuove idee. Savage era determinato a non fare un altro album di ballate heavy come quello del 2016 Human Performance. “Avevo bisogno di una via d’uscita da quel lato di me stesso che prova emozioni,” ha affermato. Avevano intenzione di sperimentare sulla dualità rabbia/goia, come le band Youth of Today, Gorilla Biscuits e Black Flag. “Tutte quelle band mi fanno venire voglia di ballare ed è esattamente ciò che voglio che facciano le persone quando ascoltano il nostro album,” ha aggiunto Savage. Per Brown, la morte e l’amore erano le influenze più importanti.  Brown non è mai stato così vulnerabile come in Wide Awake!  e la band, nonostante la ferocia, non ha mai suonato in modo così commovente.
Per i due principali cantautori, Wide Awake! rappresenta la dualità di resistere e confrontarsi. “In un’era così carica di odio, noi siamo in opposizione a ciò – e al nichilismo utilizzato per affrontare questa società,” ha detto Brown. Per Savage l’obiettivo principale e più complicato è quello di far ballare le persone, potenziare il corpo per resistere, attraverso una combinazione di groove, gioia e indignazione, “esprimere la rabbia in maniera costruttiva, ma senza cercare di soddisfare qualcuno.”





Blackswan, sabato 24/02/2018

venerdì 23 febbraio 2018

I'M WITH HER - SEE YOU AROUND (Rounder Records, 2018)

C’è voluto qualche anno perché il progetto I’m With Her si perfezionasse e prendesse la forma voluta, cioè quella di un vero e proprio disco. Aoife O’Donovan, Sara Watkins e Sarah Jarosz si frequentano artisticamente da sempre, facendo parte di quella grande famiglia che ruota intorno al movimento progressive bluegrass, ma hanno iniziare a suonare insieme sotto l’egida I’m With Her solo dal 2014. All’inizio è stata una collaborazione estemporanea, qualche singolo e qualche concerto insieme. Poi, lentamente l’idea ha preso piede, e oggi, finalmente, è divenuta realtà.
Le I’m With Her, la precisazione è dovuta per chi è a digiuno di roots americano, è quello che si suole definire il classico super-gruppo. La violinista e cantante Sara Watkins, infatti, appartiene alla scuderia di Chris Thile, con il quale condivide la line up dei Nickel Creek, ma ha alle spalle anche una notevole carriera solista (bellissimo il suo recente Young In All The Wrong Ways del 2016) e ha suonato un po’ con tutti (Jackson Browne, Tift Merritt, Fiona Apple, etc), avendo nomea di brillante sessionista. La mandolinista e cantante Sarah Jarosz, anche lei legata a Chris Thile e ai suoi Punch Brothers, è considerata una dei maggiori interpreti del genere, ha all’attivo quattro album solisti, tre dei quali arrivati alla prima piazza delle classifiche bluegrass, e due Grammy Awards vinti. E per finire, la cantante e chitarrista Aoife O’Donovan è la leader dei Crooked Still, fa parte del trio femminile folk-noir delle Sometymes Why, e ha accompagnato in tour decine di artisti, tra cui The Lone Bellow, Punch Brothers e Milk Carton Kids.
La prima cosa che sorprende in See You Around è che le dodici canzoni che compongono la scaletta sono figlie di una straordinaria omogeneità stilistica: difficile dire chi ha composto cosa, perché non siamo di fronte a un forzato assemblaggio di brani scartati dalle rispettive carriere soliste, ma a un filotto di composizioni che palesano un’unita d’intenti davvero inusuale. E’ come se queste tre ragazze, imparentate da frequentazioni artistiche e dalle stesse passioni musicali, suonassero insieme da una vita. See You Around sembra, infatti, il disco della maturità di una band rodata da un decennio di collaborazione, tanto risulta convincente, centrato e ispirato.
Il disco, prodotto da Ethan Johns (Laura Marling, The Vaccines, Tom Jones, Paul McCartney, etc) e registrato a Box, in Inghilterra, presso Real World Studios, scorre come un grande fiume acustico in cui confluiscono le esperienze e le passione delle tre songwriter: canzoni suonate in punta di plettro, in cui la tecnica, sempre sopraffina, è però messa al servizio di un cuore immenso. Strumenti tradizionali (chitarra, mandolino, violino e ukulele) e tre voci che giocano con le diverse tonalità e che si sovrappongono, si rincorrono e si abbracciano in un interplay di precisione certosina.
Il risultato è un'opera di eterea bellezza e di artigianale fattura, che rievoca i fasti di Laurel Canyon (nella bellissima title track sembra di ascoltare dei CS&N che indossano le gonna, mentre in Pangaea è difficile non pensare alla Joni Mitchell di Blue), che ordisce complesse trame progressive bluegrass sublimate nella perfezione di Game To Lose (il rimando, in questo caso, è ai Nickel Creek e ai Punch Brothers), che esalta la caratura tecnica del trio nel divertissement tradizionale di Waitsfield, e che si screzia di delicate sfumature pop nella soavità malinconica di Crescent City.
See You Around, in definitiva, scrive con freschezza una pagina moderna di acoustic roots music, in cui le tre protagoniste, spogliate dai rispettivi successi personali, si mettono al servizio della visione comune con un’umiltà e una dedizione pressoché totali. Difficile che delle canzoni suonino così sincere nei contenuti, così pure negli intenti, e al contempo così cesellate e curate nella forma. Una gioia per le orecchie e per il cuore, uno dei dischi di americana più emozionanti degli ultimi anni.

VOTO: 8





Blackswan, venerdì 23/02/2018

giovedì 22 febbraio 2018

PREVIEW



Ormai ci siamo. L’enfant prodige del rock americano, Parker Millsap, ha annunciato l’uscita del nuovo album. Il quarto full lenght di una discografia ineccepibile sarà disponibile, via Thirty Tigers, sia nei negozi specializzati che sulle piattaforme digitali a partire dal prossimo 4 maggio. Il disco, che si intitolerà Other Arrangements, sarà qualcosa di completamente diverso da quello che abbiamo ascoltato fino ad oggi e nasce dal desiderio di Millsap di cimentarsi con la canzone pop. Dodici brani in scaletta, di cui l’ultimo, Come Back When You Can’t Stay, scritto insieme a Jillette Johnson, uno dei nomi maggiormente chiacchierati dello scorso anno.





Blackswan, giovedi' 22/02/2018

mercoledì 21 febbraio 2018

SMITH HENDERSON - REDENZIONE (Einaudi, 2017)

Benjamin ha undici anni, anche se ne dimostra al massimo otto, e gli occhi di un cane rabbioso. Il padre Jeremiah, ossessionato dall'apocalisse, ha deciso di vivere nei boschi isolato dal resto del mondo, cosí lui si aggira per il paese affamato, con addosso solo un maglione che pare appeso alle spalle. Alla fine qualcuno lo segnala a Pete Snow, l'assistente sociale che lavora in quelle valli isolate del Montana. Pete ha commesso tutti gli errori possibili con la propria famiglia, e per questo ha giurato a sé stesso di non perdere nemmeno uno dei ragazzi che gli sono affidati; non importa se nel caso di Benjamin ciò significa aprirsi un varco nella nebbia di fanatismo e violenza che lo circonda. Ma a un certo punto Jeremiah viene preso di mira dai federali, e Snow si ritrova coinvolto in una caccia all'uomo dalla quale nessuno uscirà uguale a prima.

Qualcosa non convince nella lettura di Redenzione, esordio sulla lunga distanza di Smith Henderson e romanzo incensato da buona parte della stampa americana. Le premesse erano più che accattivanti: una trama originale, la possibilità di abbracciare registri di narrazione diversa (il thriller, l’introspezione psicologica, il tema sociale), un’ambientazione che vede protagonista l’America rurale, quella però degradata e violenta, che mi ha ricordato Un Gelido Inverno, film per la regia di Debra Granick e interpretato da una splendida Jennifer Lawrence.
Eppure, c’è qualcosa che non quadra, qualcosa che a fine lettura ci fa pensare più a un’occasione perduta che a un romanzo da tener in serbo fra le migliori letture dell’anno. La prosa di Henderson, infatti, talvolta manca di fluidità, come se la necessità primaria dello scrittore fosse quella di stupire a tutti i costi e di esibire un lessico (forzatamente) ricercato; così come il cambio di prospettiva (l’alternarsi fra la narrazione che vede Pete protagonista e l’altra, in cui è centrale la figura della figlia), disorienta il lettore, invece di avvincerlo.
La lunghezza eccessiva del romanzo, poi, e l’attenzione quasi maniacale alla descrizione degli ambienti, toglie pathos a una trama che non è priva di colpi di scena, ma che in realtà non riesce mai a decollare veramente. E poi c’è l’intreccio narrativo, complesso, certo, ma talvolta un po' confuso, come se Henderson avesse tanta carne da mettere al fuoco ma poca pazienza per poterla cucinare adeguatamente (certe strade vengono imboccate, ma mai percorse fino in fondo: l’alcolismo del protagonista, la sua storia d’amore con la bella assistente sociale, etc.).
Il risultato finale è un libro che alterna momenti eccellenti ad altri non propriamente indimenticabili, e se è vero che alcune figure (l’invasato Pearl, l’irrequieta Rose/Rachel) sono tratteggiate con partecipazione e buona introspezione psicologica, nel complesso il romanzo non raggiunge mai i vertici di epicità di Ruggine Americana, capolavoro di Philipp Meyer, a cui qualcuno, inopinatamente, ha voluto paragonare Redenzione.

Blackswan, mercoledì 21/02/2018


martedì 20 febbraio 2018

MGMT - LITTLE DARK AGE (Columbia, 2018)

Quello che sorprende ascoltando un disco degli MGMT è che riesca a suonare sempre così dannatamente moderno. Fin da quel strabiliante esordio intitolato Oracular Spectacular (2007), infatti, il duo newyorkese ha rimasticato e frullato tutto lo scibile musicale, dal pop al rock, dal soul al progressive, dal funky alla psichedelia, citando alternativamente mostri sacri come David Bowie, Neil Young, Yes, Beach Boys (la lista sarebbe interminabile), senza mai perdere la propria identità, senza venir meno al proprio credo o perdere di vista il quadro d’insieme.
E anche quando l’ispirazione ha lasciato a desiderare (vedi il deludente MGMT del 2013), e le canzoni risultavano pasticciate e prive di mordente e originalità, quel suono, quella predisposizione a essere calati nella contemporaneità guardando con slancio al futuro, non è mai venuto meno.
Nell’agenda di Andrew VanWyngarden e Benjamin Goldwasser gli appunti che riguardano gli anni ’80 e il synth pop sono sempre stati presenti, ma con questo nuovo Little Dark Age la narrazione si fa meno estemporanea e più strutturata. L’ennesimo viaggio nel tempo, dunque, e una sorta di ritorno al futuro verso suoni datatissimi che però nelle mani del duo trovano nuova linfa e giocosa freschezza.
Canzoni che prendono forma dal consueto caos organizzato (a co-produrre c’è Dave Fridmann già con Mercury Rev e Flaming Lips), in cui l’accavallarsi di sequencer, strumenti elettronici e acustici, ritmiche quadrate o follemente astruse, possiede una sfrontatezza spiazzante, la cui logica si comprende dopo qualche ascolto, quando melodie invero mai così accattivanti emergono in tutto il loro splendore.
Sono gli Mgmt al meglio, quelli dal suono immediatamente riconoscibile, fantasiosi e lucidi al contempo, come probabilmente non li abbiamo più ascoltati dai tempi del loro esordio sotto questa ragione sociale; eppure, nonostante l’immediata riconoscibilità del marchio di fabbrica, è piacevole, soprattutto per chi gli anni ’80 li ha vissuti in prima persona, trovare fra le pieghe del disco riferimenti agli eroi di quella stagione tanto, e spesso a torto, vituperata.
La tiitle track così smaccatamente new wave e sottilmente goth cita con gusto autoironico i Cure (vedasi il video che accompagna la canzone), Me And Michael tira in ballo addirittura il movimento new romantic, ed è impossibile non ripescare dal passato nomi come Visage o The Human Legue, solo per citarne un paio. Due episodi, questi, che sono emblematici per raccontare un disco in cui il synth pop, nelle sue diverse accezioni, è il collante della scaletta: declinato in veste dance nella bellissima One Thing Left To Try, con accenti dream nella conclusiva Hand It Over o psichedelici come nella nebulosa evanescenza di James.
Un album clamorosamente derivativo ma i cui riferimenti stilistici sono plasmati con tanta maestria e modernità da far apparire ogni canzone come fosse nuova di zecca. Abbiamo dovuto aspettare cinque anni, un tempo lunghissimo, e forse nemmeno ce lo saremmo più aspettato, ma gli Mgtm sono tornati ai livelli di ispirazione di Oracular Spectacular: una notizia bellissima per chi ama la musica di qualità.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 20/02/2018

lunedì 19 febbraio 2018

IL MEGLIO DEL PEGGIO





"I 5 Stelle ci fanno tutte le volte la morale, ci accusano di avere gli impresentabili, ma se guardiamo la storia dei rimborsi che cresce ogni giorno, vediamo che sono diventati l'arca di Noè, dove stanno salendo truffatori, scrocconi, riciclati di altri partiti politici e massoni".
Matteo Renzi non ci delude mai. Anzichè tenere un profilo basso come si converrebbe a un segretario accorto il cui partito crolla vistosamente nei sondaggi e mostrare una certa cautela, visto che lo spauracchio del 20% nei consensi degli elettori non è più tanto irrealistico, l'ex Premier dei Miracoli rilancia e rintuzza con quel solito piglio da strafottente. Non solo: si allinea a quella malaugurata consuetudine di mettere la polvere sotto il tappeto. E' la storiella del bue che dice cornuto all'asino, tanto per buttarla sul faceto. Ora, ammettiamo anche che i 5 Stelle possano non brillare per coerenza e competenza, ma viene da ridere a crepapelle se si pensa alla "competenza" e "coerenza" di Maria Elena Boschi (quella del "se perdo, lascio la politica") o di Valeria Fedeli, la ministra dell'Università senza laurea e, a quanto sembra, senza diploma di scuola superiore. Per non parlare del capacissimo Angelino Alfano, il diversamente berlusconiano, il cicisbeo passato dalla corte di Re Silvietto a quella di Matteo Il Magnifico. Questo ineguagliabile portento della politica italiana (tra i tanti fiori all'occhiello del competente Angelino ricordo il caso Shalabayeva), è passato dal Viminale (grazie all'alleanza- stampella con il PD) per poi approdare alla Farnesina con il governo Gentiloni. Quando si dice che competenza e meritocrazia pagano. E la galleria degli orrori si allunga a dismisura (Silvio Berlusconi, in testa) se pensiamo a tutti quei riciclati, scrocconi e poltronisti della politica che hanno la faccia tosta di apostrofare il Movimento 5 Stelle come male assoluto. Per quanto stiamo vedendo in questa sgangherata e sguaiatissima campagna elettorale in cui il competente Matteo Salvini si candida a Premier, la stupidità ha fatto progressi enormi e i cretini sono pieni di idee. Ennio Flaiano docet.  

Cleopatra, lunedì 19/02/2018