Da
 anni mi aspetto che i Black Stone Cherry facciano un definitivo salto 
di qualità e, invece, a ogni nuova uscita resto (parzialmente) deluso. 
Figli nerboruti dell’hard rock anni ’70, scorticato però dai coltellacci
 southern dei rangers del Kentuky, Chris Robertson e soci hanno infatti 
sempre diluito la propria energica proposta facendo largo uso di ganci 
melodici, più consoni a passaggi radiofonici in FM che a un raduno di 
veterani appassionati di rock sudista.
I
 precedenti cinque album alternavano, così, momenti derivativi, ma tutto
 sommato riusciti, ad altri impastoiati dalle logiche di un appeal buono
 per le radio ma spesso privo di genuinità. Insomma, hard rock spiccio e
 muscolare, sentore di salsa barbecue, piede pigiato sull’acceleratore e
 riffoni pesi usati come specchietto per le allodole di un suono che, in
 realtà, disperdeva i kilowatt in ritornelli troppo catchy per rendere 
il risultato finale credibile.
Con Family Tree,
 sesto disco di una carriera iniziata dodici anni fa, qualcosa però è 
cambiato. Non è certo l’originalità il fiore all’occhiello del combo del
 Kentucky, ma almeno questo nuovo disco è solido, compatto, martellante,
 di facile presa, certo, ma senza artifici melodici che diluiscono un 
potenziale energetico immenso. I tredici pezzi in scaletta, quindi, 
suonano più grezzi e ruspanti del solito e vanno dritti al centro del 
bersaglio, in una cavalcata rumorosa per oltre cinquanta minuti di hard 
rock sudista che spesso sconfina in territori heavy metal.
Il riff claptoniano e la morsa d’acciaio di basso e batteria aprono velocissimi le danze con Bad Habit, i cui concetti vengono ribaditi nell’incedere pesante e quadrato di Burnin’.
 L’albero genealogico sudista e la consanguineità, in questo caso 
soprattutto, coi Black Crowes vengono sfoggiati nelle pimpanti Carry Me On Down The Road e My Last Breath,
 entrambe risultato di una sour mash fermentation in botti di rovere. 
Finalmente, retrogusto bourbon e un Sud più verace, meno da cartolina.
L’album trova il suo vertice esattamente a metà, con l’hard rock blues di Dancin’ In The Rain,
 che vede alla voce e alla chitarra miagolante niente meno che Warren 
Haynes (Gov’t Mule), e prosegue, poi, fino alla fine che un buon filotto
 di canzoni, che scorrono rapide tra riff e assoli, regalandoci almeno 
altri due momenti di grande impatto, quali James Brown, groove funky vestito di corazza metallica, e la title track,
 la più melodica del lotto, ma attraversata anche dall’assolo di una 
chitarra che suona come un’aspirapolvere atomica, risucchiando note e 
pathos.
Family Tree
 è, dunque, un disco riuscito, che pur muovendosi su coordinate risapute
 e ribadendo concetti arcinoti, regala la miglior performance di sempre 
dei Black Stone Cherry, grazie una potenza finalmente dispiegata senza 
troppi filtri. A volume esagerato, l’effetto bomba è garantito.
VOTO: 7
Blackswan, domenica 29/04/2018 

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