Sono
 tanti i gufetti che continuano a dirci che il rock è morto e che le 
chitarre elettriche sono ormai sparite dalla musica. Così, a recensire 
questo nuovo disco dei Rival Sons, si prova doppia soddisfazione. In 
primis, perché è un discone, e poi perché fa un po' più di chiarezza 
sullo stato dell’arte, mettendo a tacere chi ormai da tempo celebra 
esequie non richieste.
Se Feral Roots
 fosse, infatti, un bollettino medico o l’esito del check up di un 
moribondo dato per spacciato, molti si sorprenderebbero a scoprire che 
il rock gode, non di buona, ma di ottima salute. Basta mettere sul 
piatto il disco e farsi asfaltare dalla sequenza dei primi tre brani: la
 ferocia anthemica di Do Your Worst, il tambureggiare spasmodico di Sugar On The Bone e lo schianto metallico di Back In The Woods,
 selvaggia e arrembante come una carica di cavalleria, sono i classici 
tre indizi che forniscono una prova grossa come una casa.
Un
 inizio potente, rumoroso, martellante, roba che se non si sta attenti 
al volume delle casse si rischiano denunce penali dai vicini di casa. Il
 rock sta benissimo, allora, e proprio grazie a band come i Rival Sons, 
che continuano a fare del loro meglio affinché il sacro fuoco non si 
spenga mai. Giunti al sesto album in studio, dopo oltre dieci anni di 
attività, la band di Long Beach è ormai una macchina da guerra 
collaudatissima, con un proprio suono e una propria identità, tanto che 
pigri paragoni con grandi band del passato, Led Zeppelin su tutte, sono 
ormai solo meri esercizi di stile giornalistico che non hanno (quasi) 
più ragione d’essere.
In cabina di regia torna nuovamente Dave “Re Mida”
 Cobb, che anche fuori dagli steccati dell’americana, si trova 
meravigliosamente a suo agio. Nello specifico, mette lo zampino anche in
 alcune delle composizioni, e soprattutto, forgia un suono dal tiro 
pazzesco, secco, pulito e letale come un colpo di mazza ferrata sullo 
zigomo. Il resto ce lo mettono questi quattro ragazzi, che non solo non 
hanno perso un briciolo dell’entusiasmo degli esordi, ma sono anche 
cresciuti notevolmente a livello di songwriting.
Se
 il filotto iniziale a cui abbiamo accennato suona come una fucilata che
 mette le cose subito in chiaro, i brani successivi, pur avendo sempre 
un impatto poderoso, vantano una struttura più complessa e una maggior 
stratificazione dei suoni. Look Away si apre con umori psych 
folk che sfociano nell’irruenza hard rock di un brano che non 
sfigurerebbe in un disco dei Black Country Communion, Stood By Me parte in sgommata e derapa verso il funky, le chitarre acustiche della title track
 ammiccano agli Zeppelin, in chiave Zep III, per poi evaporare in un 
riff elettrico dalla presa immediata e appena levigato di psichedelia, 
mentre Too Bad (magistrale la prova di Scott Holiday alla sei 
corde), possiede passo pesante di sabbathiana memoria e una palpitante 
anima blues.
Chiudono la scaletta End Of Forever, forse la meno riuscita del lotto, che in un breve passaggio cita, quasi per assonanza (casualità?), In The End dei Linkin Park, e Shooting Stars,
 virile rock gospel conclusivo, che sfodera un coro da singalong a 
oltranza, buono per fine concerto. Un disco gagliardo e perfettamente 
centrato, che pone i Rival Sons nel novero dei migliori interpreti del 
genere, e che farà la felicità di tanti appassionati. Qui decibel, air 
guitar e headbagging sono garantiti per quarantacinque minuti di 
sanguigno e voluttuoso rock. Con buona pace dei detrattori e del 
vicinato tutto.
VOTO: 8
Blackswan, mercoledì 30/01/2019 

Grandi Rival Sons.
RispondiEliminaLi sono andati a vedere quest'estate al Carroponte a Sesto San Giovanni, saremo stati in cento e loro ci hanno dato dentro come se fossero stati al Madison con un tutto esaurito.
E vogliamo dire qualcosa del gruppo di fate che si intravvede di spalle a 3'10?
Rock 'n roll!!!
Grandissimo ritorno, con un disco che suona ancora meglio degli altri!
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