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mercoledì 30 ottobre 2019

PEARL JAM - IMMORTALITY (Epic, 1994)




Pur essendo una band ad alto contenuto energetico e dall’impatto live formidabile, i Pearl Jam hanno sempre inserito nei loro dischi qualche pregevole ballata. A partire da Ten (1991), in cui spiccava per bellezza e intensità l’ormai leggendaria Black, ogni disco del combo originario di Seattle, è punteggiato da uno o più lenti attraversati da vibrante emotività.
Un brano come Just Breath da Backspacer (2009), ad esempio, ci porta in una volatile dimensione folk che fluttua a mezz’aria tra languori nostalgici. Così come avviene nella ballata elettroacustica di Presente Tense da No Code (1996), uno dei vertici del songwriting del chitarrista Mike McCready. E l’elenco potrebbe allungarsi a dismisura.
Nessuna dei brani citati, tuttavia, riesce a toccare i vertici intensi e depressi raggiunti dalla cupa Immortality, canzone che compare in Vitalogy (1994) e venne pubblicata come singolo, il secondo tratto dall’album, l’anno successivo.
In realtà è tutto Vitalogy a essere un disco dai contenuti assai drammatici: il raggiungimento della fama e il malessere che ne deriva (Not For You e Corduroy, in tal senso, sono due canzoni simbolo), oltre ai consueti temi tratti dall’analisi della caotica società americana (il razzismo, la fine dell’istituzione famiglia, la violenza e le armi da fuoco) forgiano un suono ruvido, anticommerciale, ostico e lontano da ogni compromesso o ammiccamento al mercato.
Ballata elettroacustica dall’incedere dolente, Immortality possiede un testo ambiguo e di non facile comprensione, che parla di studenti che marinano la scuola, e che negli intenti di Eddie Vedder dovrebbe “aiutarti a capire le pressioni su qualcuno che è su un treno parallelo...”. E’ evidente, tuttavia, che qualunque sia il significato recondito della canzone, il messaggio lanciato da Vedder è tutto tranne che conciliante: “Cannot find the comfort in this world” e “But there's a trapdoor in the sun” rappresentano un’esplicita dichiarazione di pessimismo e di inadeguatezza al mondo, che non ammette repliche.
Diversamente da quello che generalmente si pensa, la canzone non fu scritta per omaggiare Kurt Cobain, morto l’anno precedente, anche se la chiosa fulminante, “some die just to live” (qualcuno muore solo per vivere), farebbe pensare tutto il contrario. Di certo, questo verso icastico e puntuto suona perfetto per ricordare la figura di Cobain, anche perché in linea con uno dei temi cardine del disco, i cui testi sono spesso incentrati sul peso e sulle implicazioni derivanti dal successo.
Così il messaggio diviene più comprensibile, soprattutto oggi, visto che negli ultimi anni il suicidio delle rockstar sembra diventato un macabro rituale: la morte è il prezzo da pagare perché la fama, per sua stessa natura precaria e destabilizzante, diventi immortalità, e trasformi il musicista, cristallizzato nella sua giovinezza, in un’icona senza tempo. Un tema classico del rock, mutuato dal ”muore giovane chi è caro agli dei” del commediografo greco Menandro, e che trent’anni prima, nel 1965, gli Who inserirono in quel verso leggendario di My Generation che recita: “I hope I die before I get old”.





Blackswan, mercoledì 30/10/2019

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