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domenica 31 maggio 2020

BODY COUNT - CARNIVORE (Century Media Records, 2020)

A sessantadue anni suonati, Ice-T continua a mulinare la durlindana con rinnovato furore, senza mostrare cedimenti di fronte al tempo che passa o cedere alle lusinghe delle mode. Una musica risoluta e senza compromessi, quella dei Body Count, dai toni violenti e sfrontati, capaci di coniugare l'hip hop più estremo e politicizzato, di cui Ice –T straordinario interprete in dischi come Rhyme Pays (1987) e O.G. Original Gangster (1991), a un metal feroce di derivazione thrash e speed, portato in eredità dal sodale di sempre, il chitarrista Ernie C.
Un crossover dirompente, che abbina perfettamente una potenza di tiro pazzesca a testi al vetriolo, cinici e irriverenti, talvolta declinati ai limiti del codice penale (la celeberrima Cop Killer, tratta dal loro album d’esordio del 1992, scatenò negli States un vero e proprio casus belli), ma capaci anche di tratteggiare con intelligenza temi politici e sociali.
Il nuovo Carnivore (titolo che ammicca a una precedente querelle innescata con vegani e vegetariani) ripercorre con efficacia la strada già battuta dai due precedenti e ottimi Manslaughter (2014) e Bloodlust (2017), senza che l’attitudine della band a non fare prigionieri venga meno. Si potrà dire che il canovaccio è un po' frusto, che le idee sono più o meno le stesse di sempre, che l’impatto sonoro è tanto sferragliante quanto prevedibile. Tutte considerazioni, queste, che non farebbero una grinza, se non fosse che con i Body Count riescono comunque a centrare il bersaglio, grazie a una buona dose di sincerità, che rende questi assalti all’arma bianca credibili ed esplosivi.
Chitarre abrasive, ritmica brutale, ospiti di livello (Jello Biafra, Dave Lombardo, Will Putney, Jamey Jasta, Amy Lee e Riley Gale) e il rap sventagliato ad altezza uomo di Ice-T sono tutto ciò che serve alla band per sigillare un disco che si ascolta e riascolta volentieri, regolando il volume dello stereo sul massimo possibile. La brevità della scaletta (solo trentasei minuti) contribuisce, poi, a dare maggior efficacia alle dieci canzoni che compongo il disco: una buona cover di un classico come Ace Of Spades dei Motorhead, una rilettura in chiave moderna di un classico di Ice-T (Colors 2020), le consuete randellate sugli stinchi sferrate sotto le insegne di un thrash metal di derivazione Slayer (Point The Finger e Thee Critical Beatdown) e qualche brano in cui prevale invece la metrica rap (Another Level).
Strano a dirsi, c’è anche spazio per spiccioli di melodia, si far per dire, con la mesta When I’m Gone, disarmata riflessione sulla perdita delle persone care, dedicata al rapper Nipsey Hussle, assassinato a Los Angeles lo scorso anno, e interpretata in duetto con Amy Lee, cantante degli Evanescence.
 
Voto: 7





Blackswan, domenica 31/05/2020 

venerdì 29 maggio 2020

PREVIEW




Liela Moss annuncia il nuovo album solista Who The Power in uscita il 07 agosto su Bella Union [PIAS].
Con l'annuncio dell'album, Moss condivide il video per "Atoms At Me" diretto dal suo vicino di casa e cantante degli IYEARA, Paul O'Keeffe. 
Così come il precedente lavoro in studio My Name Is Safe in Your Mouth, il nuovo album è stato prodotto dal partner Toby Butler. Moss ha scritto e registrato Who The Power nel loro studio nel Somerset, dove vivono con il figlio. Però questa volta è stato diverso; Moss afferma "avevamo il desiderio di creare qualcosa di più tempestivo," che catturasse un senso di rinnovamento, trasmettendo allo stesso tempo un forte senso di disperazione nei confronti della cultura moderna. "Forse quell'energia oscillante viene espressa meglio attraverso le macchine. Abbiamo trascorso molto tempo a suonare synth vintage e drum machine, costruendo una palette più viscerale. Volevo che l'album esprimesse una profondità di campo, che avesse numerosi strati ma che fosse semplice e avesse del groove."





Blackswan, venerdì 29/05/2020

giovedì 28 maggio 2020

WOLFMOTHER - WOLFMOTHER (Modular Recordings, 2020)

Oggi, un disco come quello d’esordio degli australiani Wolfmother, avrebbe probabilmente tutt’altra accoglienza. Da qualche anno, infatti, il rock derivativo e citazionista (soprattutto quello che guarda agli anni ’70) è altamente divisivo, da un lato, apprezzato da schiere di nostalgici (ma anche da tanti giovani che riscoprono quella stagione dorata attraverso epigoni contemporanei), dall’altro, ferocemente avversato da chi vede nel passatismo il peggiore di tutti i mali (vedasi le recenti querelle a proposito dei Greta Van Fleet).
Nel 2005, invece, l’apprezzamento per questo genere di musica era trasversale, la retromania era vista come una possibilità e, vado a memoria, la critica era ben disposta verso gruppi come i Jet (vi ricordate il loro Get Born, disco d’esordio datato 2003), i Datsuns, i Vines, e compagnia cantante, che facevano della nostalgia una bandiera da sventolare orgogliosamente.
I Wolfmother arrivano da Sydney, Australia, sono capitanati da Andrew Stockdale, riccioluto padre padrone del marchio, e coltivano un amore viscerale verso l’hard rock anni ’60 e ’70, riletto, però, con un gusto prevalentemente stoner. Dopo un primo Ep (2004), che in patria ottiene un discreto successo di vendite e l’attenzione di pubblico e media, la band si trasferisce a Los Angeles, dove registra e mixa l’omonimo disco d’esordio, che verrà pubblicato ad aprile per il mercato inglese ed europeo e a maggio per quello americano. L’album, in poco tempo, crea un fragoroso clamore mediatico: vende un milione e mezzo di copie, i singoli scalano le classifiche e Rolling Stone si abbandona a sperticati elogi, indicando la band come la new sensation da tenere d’occhio da qui all’eternità.
D’altra parte, a prescindere dalla bontà delle canzoni, l’istrionico Stockdale è personaggio a tutto tondo che attira facilmente l’attenzione della stampa, e il terzetto, nonostante la giovane età dei componenti (oltre a Stockdale, ci sono il bassista e tastierista Chris Ross e il batterista Myles Heskett) sa il fatto suo, suona alla grande e dà vita a infuocatissimi live act (li vidi nel 2006 al Rolling Stone di Milano e posso assicurarvi che fu uno show coi fiocchi), tanto intensi da meritare ai Wolfmother di aprire i concerti dei Pearl Jam. Mica pizza e fichi.
In scaletta, tredici canzoni che tradiscono fin da subito le fonti d’ispirazione: ci sono gli immancabili Led Zeppelin (le bordate iniziali di Dimension e White Unicorn, con Stockdale nei panni di un novello Plant), i Deep Purple (il singolo bomba Woman), i Black Sabbath (Colossal), qualche apertura al prog (la bellissima Mind’s Eyes) e anche una tiratissima sfuriata punk blues (Apple Tree).
Insomma, materiale così classico che più classico non si può. Tuttavia, i Wolfmother sono bravi a scartare dall’ovvio, citano ma non plagiano, e insufflano le loro canzoni di debordante energia e qualche suono preso in prestito dal presente, giusto per dimostrare che di anni ne hanno venti e non sessanta. Un disco vintage da morire, ma accattivante, palpitante e, cosa che non guasta mai, suonato benissimo.
Nemmeno il tempo di assaporare il successo e Stockdale fa le bizze: caccia gli altri due, che evidentemente si sentono imprigionati dai dictat del capo, vuole sciogliere la band, poi ci ripensa, arruola altri musicisti e trasforma il power trio in un quartetto. Passano quattro anni ed esce Cosmic Egg (2009), altro disco vincente, ricco di brani che puntano la classifica, e contenete almeno una ballata (Far Away), da mandare a memoria. Il picco di gloria, però, è già passato, e quello che verrà dopo, non così ispirato come i primi due full lenght, è materia solo per fan della prima ora.







Blackswan, giovedì 28/05/2020

mercoledì 27 maggio 2020

PREVIEW




Dopo quattro anni di silenzio, l’enigmatico outsider losangelino Alex Izenberg è tornano a fine marzo con la ballata d’amore spensierata Disraeli Woman. Oggi Izenberg annuncia il secondo album Caravan Château in uscita il 31 luglio su Weird World/Domino e presenta il nuovo singolo “Sister Jade” accompagnato da un video diretto da Giraffe Studios.
In Caravan Château – una riflessione sulla casa degli specchi che è l’amore – Izenberg crea un mondo sofisticato, dove brani che vengono in qualche modo minimizzati ma dall'aspetto sfarzoso, mappano gli imprevisti dei nostri cuori indecisi nel modo in cui le rughe raccontano una vita di esperienze.
Con l’aiuto di una serie di collaboratori tra cui Chris Taylor (Grizzly Bear), Jonathan Rado (Foxygen, Whitney, Lemon Twigs), Ari Balouzian (Tobias Jesso Jr) e altri, Izenberg crea brani che si amano facilmente ma che si fa fatica a definire. Le canzoni argute di Izenberg sono l’esca che ti porta ad ascoltare Caravan Château, ma è quella ambiguità intenzionale ciò che ti porta indietro ripetutamente, sperando di stuzzicare gli indovinelli dentro a questi meravigliosi brani.





Blackswan, mercoledì 27/05/2020

martedì 26 maggio 2020

SELAH SUE - BEDROOM EP (Because Music, 2020)

Belga, talentuosa e bella, Selah Sue ha fatto dell’ecclettismo l’elemento fondante della propria proposta musicale. Due soli dischi all’attivo (l’omonimo fulminante esordio del 2011 e, l’altrettanto bello, Reason del 2015) e un pugno di Ep, diluiti in dieci anni di carriera, sono un piccolo scrigno di autentici gioielli, cangianti per forme e colori, e attraversati da una complessa eterogeneità di suoni e da un’urgenza comunicativa che irrora di freschezza tutto il repertorio.
Un retroterra da cui attingere assai vario, quello della trentunenne songwriter: Selah Sue, infatti, non spinge il piede solo sull’acceleratore del soul, di cui mastica il verbo con nera attitudine, ma imbocca anche strade diverse, che portano ai suoni giovani dell’hip-hop e della dance hall, alla ballata folk, all’intuizione elettronica folgorante, alla tradizione rivisitata del blues e del gospel.
A distanza di ben cinque anni dall’ultima uscita discografica, Selah Sue torna con un Ep, contenente solo cinque canzoni, che rappresenta un unicum rispetto a ciò che abbiamo ascoltato fino ad oggi. In primo luogo, perché si tratta di un pugno di brani scritti per celebrare la nascita del suo primo figlio, a cui viene dedicato il singolo You, dolce narrazione delle gioie della maternità (You are all I need, you are all I want”). Inoltre, è un album interamente acustico e composto nell’intimità della camera da letto della giovane artista, la quale, per la prima volta in dieci anni, si autoproduce con l’aiuto del collega inglese Kwes (Kelela, Solange, Tirzah).
Un disco delicato, morbido, ovattato, a partire dalle trame diafane della ninnananna di In A Heartbeat e dal fingerpicking svolazzante della citata You. Se You’re My Heart è poco più di un bozzetto strumentale, posto a metà scaletta, le successive Always-Cosmo, a cui il tappeto di tastiere conferisce un pizzico di tensione drammatica, e la conclusiva I Would Rather, onirica ballata dall’anima soul, sono i due brani più riusciti e interessanti del lotto.
Niente sobbalzi sulla sedia, questa volta, ma un discreto lavoro, appetibile soprattutto dai fan. Per tutti gli altri, non certo un’uscita irrinunciabile, anche perché anomala rispetto ai precedenti episodi e, quindi non particolarmente significativa per comprendere la caratura artistica della ragazza belga. La cui voce, leggermente roca e così incredibilmente espressiva, è il vero motivo per dedicarsi a questo breve (solo quindici minuti) e curioso ascolto.

VOTO: 6,5





Blackswan, martedì 26/05/2020

lunedì 25 maggio 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO



Siamo entrati ufficialmente nella fase 2, quella del “fase” come vi pare. Per dirla tutta, doveva essere (o meglio, avrebbe dovuto essere) un timido passaggio da una restrizione a una ripresa della normalità, pardon, di una nuova normalità. E come sempre, gli insofferenti alle regole danno il meglio di se’. Nuova normalità non equivale a un chissenefrega. E non mi riferisco solo agli adolescenti (non tutti) che sfidano la sorte, ma anche a una consistente platea di cosiddetti adulti che, aperte le gabbie, si buttano a mo’di pecore matte affollando bar, bistrot o che sgomitano nei dedali di stradine dell’alto bergamasco per lo shopping compulsivo. 
Tutti, o quasi, rigorosamente con la mascherina sotto il mento o sotto il naso, come detta la moda del momento, alla faccia del virus che circola indisturbato e che non ha ancora smontato le tende. E questi deficienti, spesso, beneficiano di una sorta di ammenda da parte di certi psicologi dell’ultima ora che derubricano il fenomeno di questa socialità disordinata a una comprensibile reazione umana. Certo, politicamente parlando, si è passati dalla rigorosità al fate un po’ come vi pare. 
Del resto, il profitto prevale sul diritto alla salute come è successo per l’ex Ilva di Taranto. Ma quella è un’altra dolorosa storia di cui un paese civile dovrebbe vergognarsi. Ora, spetta alla responsabilità del singolo dare prova di maturità. Grande concetto, belle parole. Specie quando assisti interdetto a imbarazzanti risse in Parlamento da parte di onorevoli dal temperamento, per così dire, sanguigno. Tutti rigorosamente con mascherina abbassata o senza. Anche questa è socialità disordinata?
Cleopatra, lunedì 25/05/2020




sabato 23 maggio 2020

PREVIEW




Serpentine Prison, l’album di debutto solista di Matt Berninger – frontman dell’acclamata band The National – esce il 02 ottobre. L’album è stato prodotto dal polistrumentista Booker T. Jones (dei Booker T. & The MG’s) e verrà pubblicato su Book Records, una nuova divisione creata da Berninger e Jones connessa a Concord Records/Caroline International, distribuzione Universal.
Per celebrare l’imminente pubblicazione – la prima sulla nuova sottoetichetta – Berninger condivide il video per la title track. Diretto, girato e montato da Tom Berninger e Chris Sgroi, il video è stato filmato all’Earthstar Creation Center a Venice, CA.
Il brano ‘Serpentine Prison’ è stato scritto nel dicembre 2018, una settimana dopo aver registrato I Am Easy To Find con The National” afferma Berninger“Per molto tempo ho scritto brani per film e musical e altri progetti dove dovevo entrare nella testa di qualcun’altro per trasmettere i sentimenti di un’altra persona. Mi piaceva farlo, ma ero pronto a scavare nella mia e questa è la prima cosa che è venuta fuori.”
Berninger continua, “il titolo si ispira ad un tubo di scarico serpeggiante che sfocia nell'oceano vicino all'aeroporto di Los Angeles. C’è una rete di protezione sul tubo per impedire alle persone di arrampicarsi verso il mare. Ho lavorato al brano con Sean O’Brien e Harrison Whitford e l’ho registrato sei mesi dopo con Booker T. Jones alla produzione. Sembra un epilogo, quindi ho chiamato l’album come il brano e l’ho messo per ultimo.”
L’album vede il contributo di molti artisti tra cui Matt Barrick (The Walkmen, Jonathan Fire*Eater), Andrew BirdMike BrewerHayden DesserScott Devendorf (The National), Gail Ann Dorsey (David Bowie, Lenny Kravitz), Booker T. JonesTeddy JonesBrent Knopf (EL VY, Menomena), Ben Lanz (The National, Beirut), Walter Martin (The Walkmen, Jonathan Fire*Eater), Sean O'BrienMickey Raphael (Willie Nelson, Bob Dylan), Kyle Resnick (The National, Beirut), Matt Sheehy (EL VY, Lost Lander) eHarrison Whitford (Phoebe Bridgers). Alla produzione ha collaborato anche Sean O’Brien.
Oltre al suo lavoro con The National (con i quali ha vinto un GRAMMY nella categoria Best Alternativa Music Album con Sleep Well Beast del 2017), Berninger ha anche collaborato con Brent Knopf sotto il moniker di EL VY pubblicando nel 2015 Return to the Moon. Nel 2019 Berninger è apparso in Between Two Ferns: The Movie e ha affiancato Phoebe Bridgers nel brano “Walking on a String” per la soundtrack del film.





Blackswan, sabato 23/05/2020

venerdì 22 maggio 2020

JASON ISBELL & 400 UNIT - REUNIONS (Southeastern Records, 2020)

La storia di Jason Isbell è la storia di una resurrezione, l’apologo di un uomo che, grazie all’amore (di Amanda Shires) e all’affetto di tanti amici, ha riportato tutto a casa, è tornato ad apprezzare il gusto di vivere, ha scoperto le gioie della paternità e ha ritrovato la musica. La sua musica.
Dal 2013, quando uscì il magnifico Southeastern, confessione col cuore in mano dei giorni della dipendenza e della ritrovata sobrietà, Isbell, in solitaria o con la backing band dei 400 Unit, ha inanellato un filotto di dischi memorabili, apprezzati dalla critica e in grado di scalare le impervie charts americane e britanniche fino alle prime piazze (vedasi l’exploit di The Nashville Sound nel 2017).
Soprattutto, il songwriter e chitarrista originario dell’Alabama, ha creato con i fan un vincolo di sangue di springsteeniana memoria, motivo principale di un successo che forse nemmeno lui si aspettava. Come Springsteen, sempre a fianco degli ultimi, dei diseredati e di chi cerca nella fuga il riscatto a un’esistenza mediocre, anche Jason è il protagonista di una narrazione universale, che usa parole semplici e una prosa sincera per arrivare al cuore della gente. Il racconto di Isbell è il racconto di un perdente che ce l’ha fatta, di una speranza che ha colto nel segno, di una felicità che ha trovato la strada ed è arrivata a destinazione. Non c’è, però, l’epica rock di Born To Run, bensì l’intima riflessione di Darkness On The Edge Of Town: mettere a nudo le proprie debolezze, essere consapevoli dei propri errori, constatare che la vita è insidiosa come un campo minato, sapere che il baratro è proprio lì, a due passi da te, ma avere comunque la forza di andare avanti, per cercare la felicità, che esiste, anche se è la dirimpettaia più prossima dell’inferno.
Questa la sensazione che si prova, ascoltando le dieci canzoni di Reunions: che Isbell sia uno di noi, e che come noi abbia mangiato croste di pan duro e provato sprofondi nerissimi, prima di rivedere la luce. Non sono solo grandi canzoni, quelle in scaletta, scritte e suonate benissimo; sono, soprattutto, istanti di vita, raccontati senza filtri, senza rinnegare i tormenti del passato, esibendo, semmai, con disarmante schiettezza, le fragilità, i dubbi, il tormento della caducità dell’attimo. E’ questa capacità di superare le barriere che separano musicista e fan, vita e arte, questa visione realista e priva di edulcorazione, ma al contempo non scevra da appassionato lirismo e attraversata da un dilacerante Sturm und Drang di matrice romantica, a rendere Isbell uno dei più grandi songwriter americani contemporanei.
Se nella copertina di Southeastern, Jason guardava in faccia il mondo, senza paura, come a dire, sono ancora qui, sono tornato e sono pulito, dopo sette anni, la cover di Reunions ci restituisce l’immagine di un uomo che guarda l’orizzonte con speranza, certo, ma che fondamentalmente, e a dispetto del titolo, è e rimane solo, perso nei suoi pensieri, alle prese con i fallimenti e le frustrazioni, consapevole, fino in fondo, delle lezioni del proprio passato.
Prodotto da Dave Cobb, ormai membro aggiunto della band, e suonato dagli affiatatissimi 400 Unit, Reunions coagula in dieci canzoni i temi esistenziali cari al songwriter e la sua idea di americana, in bilico fra incedere meditabondo e improvvise accelerazioni per chitarra, a volte sovrapposti nella stessa canzone.
Aprono i quasi sette minuti di What've I Done To Help (con il cameo dell’amico David Crosby), lungo brano rock con anima gospel, in cui emergono con urgenza tutti gli interrogativi legati al proprio passato. Un brano emblematico del livello di scrittura a cui è giunto Isbell, capace di scavare in profondità e di toccare il cuore, attraverso liriche di spessore e una linea melodica semplice, immediata.
Una veracità e un’immediatezza che sono la forza trainante della scaletta, sia quando il songwriter accende il motore della sua chitarra in vibranti momenti di matrice decisamente rock (i fremiti della springsteeniana Overseas, l’urlo liberatorio e anthemico di Be Afraid) sia quando si adagia su un tappeto di morbide tastiere (la struggente e malinconica Only Children), tratteggia vividamente, per piano, violino e chitarre, agrodolci ricordi d’infanzia (Dreamsicle) o pesca dal cilindro disarmanti metafore esistenziali (Running With Our Eyes Closed).
Ricco di sfumature, che vanno colte attraverso reiterati ascolti, Reunions è il disco attraverso cui Isbell prosegue la narrazione iniziata con Southeastern, con sette anni di vita in più sulle spalle, e uno sguardo che non è più solo quello del miracolato, ma di chi, invece, ha fatto tesoro del miracolo, riflettendo a fondo su un impervio percorso di vita e sulla precarietà del tutto.
Non un punto di arrivo, ma una sorta di ulteriore ripartenza. Jason Isbell continua a non fare sconti a se stesso, non molla la presa, si pone domande, cerca ancora il senso, scava nella propria anima e indaga, in un processo di immedesimazione col pubblico che, come lui, ogni giorno lotta e soffre per tornare a vedere la luce.

VOTO: 9





Blackswan, venerdì 22/05/2020

giovedì 21 maggio 2020



SOHN condivide il secondo brano dall'imminente live album Live with the Metropole Orkest “Artefice” - tratto dall'album del 2014 Tremors.
Alla fine dell’anno scorso il produttore e cantautore britannico ha condiviso il palco con la Metropole Orkest vincitrice di un GRAMMY e con il direttore d’orchestra Hans Ek per la serata di apertura dell’Amsterdam Music Event. Unendo l’elettronica glaciale di SOHN con un’orchestra di 54 elementi, la performance alla celebre venue olandese Melkweg ha portato in vita i brani più amati di SOHN come “The Wheel”, “Conrad” e “Artifice”.
Alle ore 20.30 di venerdì 22 maggio sarà possibile vedere l’intera esibizione per una sola volta su Youtube. Connettiti QUI.
SOHN afferma, “È stata un’incredibile opportunità poter lavorare con la Metropole per creare una serata così speciale ad Amsterdam – gli arrangiamenti hanno elevato i brani ad un’altra dimensione, e fortunatamente abbiamo registrato tutto...Alla fine questo lavoro non è solo un live album per me, è una sorta di ibrido tra elettronica asciutta e orchestrazioni ricche e sono davvero contento del risultato.”
Live with the Metropole Orkest sarà disponibile in digitale e su doppio vinile dal 05 giugno 2020.





Blackswan, giovedì 21/05/2020

mercoledì 20 maggio 2020

JOAN AS POLICE WOMAN - COVER TWO (Sweet Police, 2020)

Due mani che stringono un fondo schiena era l’esplicita immagine di copertina del primo album di cover a firma Joan As Police Woman, datato 2010. A distanza di dieci anni, il fondo schiena torna, ma è avviluppato in un paio di pantaloni di pelle rossa molto sensuali. E ci sono anche le mani, che questa volta non stringono, ma fanno un segno, la cui interpretazione è lasciata all’immaginazione dell’ascoltatore. Un due, o una semplice scaramanzia, o forse, quelle dita incrociate, evocano il gesto che si faceva da bambini, mentre si stava raccontando una bugia. Magari, Joan Wasser sta, invece, chiamando uno schema, come fanno i giocatori di football o di basket per non essere visti dall’avversario. Uno schema che spiazza, una variabile imprevedibile e impazzita che, in un momento di gioco delicato, è in grado di dare una svolta alla partita e raggiungere l’agognata vittoria.
E’ così che la nostra poliziotta preferita riesce, con Cover Two, a portarsi a casa il punteggio pieno: spiazzando l’ascoltatore. Dieci cover di altrettante canzoni, alcune famosissime, rilette però in un modo che non ti aspetti, lontano da risaputi clichè o da mere operazioni di copia incolla. Reinterpretare la musica altrui è un’arte sopraffina, che però richiede sensibilità e intelligenza. Si può mettere in nuova luce l’anima della canzone oppure cambiarla completamente, come se quel brano rinascesse a nuova vita.
E’ questa la strada imboccata dalla Wasser, che sovverte le regole del gioco, togliendo forma e sostanza all’originale, per aggiungere nuovi elementi tratti dal proprio bagaglio culturale ed emotivo. Così, queste dieci canzoni vengono stravolte, rivoltate come un calzino, plasmate attraverso le intuizioni e l’eclettismo dell’estrosa artista newyorkese. Che mai sceglie la strada più facile, che si prende rischi, che si assume il coraggio e la responsabilità di mettere mano là, dove solo pochi avrebbero osato, riuscendo peraltro a non fare pasticci (Prince, Neil Young, Talk Talk).
E’ probabile che alcuni troveranno queste cover troppo lontane dalla matrice iniziale per poterle amare come riflesso della canzone da cui hanno preso vita, che qualcuno storcerà il naso e abdicherà di fronte a questi inusuali (e azzardati) arrangiamenti. Ma il languore sensuale che avviluppa la reinterpretazione di Kiss (già presente nella raccolta Joanthology), il passo lento e cadenzato fra le brume jazzate di On The Beach, gli sbuffi romantici di Out Of Time dei Blur o le rarefazioni che stravolgono la dolcezza naif di Not The Way di Cass McCombs, sono i numeri del fuoriclasse che con la giocata imprevedibile vince da solo la partita. Fuori dagli schemi, inafferrabile, coraggiosa, semplicemente Joan.

VOTO: 7





Blackswan, mercoledì 20/05/2020

martedì 19 maggio 2020

PREVIEW




Con Sun Piano, Laraaji soddisfa l’ambizione di una vita: tornare al suo primo strumento, che ha imparato a suonare negli anni ’50 mentre cresceva nel New Jersey. Lontane dalle jam di cetra cosmica impregnate di effetti speciali, queste eleganti miniature rivelano abbastanza personalità e luce interiore da essere chiaramente identificabili come “Laraaji Music”. L’album è stato registrato in una chiesa di Brooklyn da Jeff Zeigler (Kurt Vile, The War On Drugs, Mary Lattimore).
Questa pubblicazione è l’ultimo passo della rinascita in tarda carriera del musicista e mistico di New York. Arrivò per la prima volta all’attenzione del pubblico verso la fine degli anni ’70 grazie alla sua partecipazione alla leggendaria serie di album ambient di Brian Eno in Ambient 3: Day Of Radiance. Negli ultimi anni la sua musica è stata riscoperta da un’intera nuova generazione di fan attraversi ristampe per etichette del calibro di Numero Group, Light In The Attic e Leaving Records; nuove collaborazioni con musicisti underground come Dallas Acid e Sun Araw; una presenza live rivitalizzata che lo ha visto condividere palcoscenici in tutto il mondo con artisti come Solange e Jonathan Wilson; e un’ampia copertura mediatica: dalla discussione del suo amore per i vestiti arancioni su Vogue alla dimostrazione dei benefici della musica trascendentale su BBC4.
Sun Piano uscirà il 17 luglio su All Saints Records. Si tratta della prima uscita di una trilogia registrata nella stessa sessione. Un LP gemello, Moon Piano, e un EP esteso di duetti piano/autoharp seguiranno entro la fine del 2020.





Blackswan, martedì 19/05/2020

lunedì 18 maggio 2020

FOGHAT - LIVE (Bearsville Records, 1977)

E’ il 1970, quando il cantante/chitarrista "Lonesome" Dave Peverett, il bassista Tony Stevens, e il batterista Roger Earl lasciano la band dei Savoy Brown (una sorta di porto di mare in cui decine di musicisti entrano e escono alla velocità della luce), subito dopo la pubblicazione del fortunato Looking It.
I tre, a cui si aggiunge ben presto il chitarrista Rod Price, hanno le idee ben chiare: mettere a frutto l’importante esperienza appena vissuta e fare propria la lezione hard blues mandata a memoria durante la militanza alla corte di Kim Simmonds. E visto che quella musica, pur derivante da una solida tradizione anglosassone, aveva radici negli Stati Uniti, Peverett e soci attraversano l’oceano per firmare un contratto con la Bearsville Records, nuova etichetta gestita da Albert Grossman.
E fanno benissimo, perché il loro primo, omonimo disco, pubblicato nel 1972, se in patria passa completamente inosservato, negli States, grazie a un paio di cover azzeccatissime e alla lucida produzione di Dave Edmunds, entra in classifica e attira l’attenzione mediatica sulla band. Che da quel momento in avanti comincia a scalare le charts statunitensi e si crea un cospicuo parterre di aficionados, che perdono letteralmente la testa, per quella musica grezza e istintiva, che invece fa tanto storcere il naso alla critica specializzata. Un disco d’oro in bacheca è il viatico per un successo che, di li’a breve, porterà ai Foghat fama e denaro, grazie a un filotto di sei album, tutti vendutissimi.
La formula non è particolarmente originale, e anzi, ogni disco è un po' la fotocopia degli altri: un boogie rock dritto e diretto, senza fronzoli, potente e selvaggio, che tira a cento all’ora sul rombo assordante delle chitarre. I ragazzi, però, ci sanno fare, sono affiatati, suonano da Dio, e dal vivo non risparmiano sangue e sudore.
Caratteristiche, queste, che sono al contempo un limite invalicabile e un merito straordinario. Un limite, perché, quando a fine anni ’70 il mondo della musica viene azzerato dallo tsunami punk e lo scenario, tanto inglese quanto americano, si apre a nuovi suoni, l’immutabile formula dei Foghat appare immediatamente superata e anacronistica; un merito, perché la bravura della band dal vivo e la capacità di rinnovare sul palco la veridicità di un rituale tenacemente rockista, rende leggendarie le loro performance live e li consegna alla leggenda, grazie proprio a un disco dal vivo.
Foghat Live, pubblicato nell’agosto del 1977, li spinse, infatti, fino all’undicesimo posto di Billboard 200, e vendette, in poco tempo, più di due milioni di copie. Il disco, uscito nel 2019 in versione rimasterizzata, è la fotografia nitida della potenza di tiro di una band agguerritissima. Solo sei canzoni, per la durata complessiva di trentanove minuti, che non fanno prigionieri, grazie a una sezione ritmica martellante e al tiro incrociato di due chitarre che sputano fuoco senza soluzione di continuità.
In scaletta, ovviamente, non potevano mancare, Slow Ride, il loro singolo di maggior successo, che raggiunse la ventesima piazza delle classifiche americane, I Just Want To Make Love To You, furibonda cover presa in prestito dal songbook di Willie Dixon, e, per citarne un’altra, l’indiavolata Honey Hush, anfetaminica tirata hard rock, che vede la sezione ritmica viaggiare a velocità supersonica sulle folate chitarristiche di Price e Peverett.
Sull’onda del successo di Live, i Foghat piazzarono ai vertici delle classifiche anche il successivo Stone Blue (1978), poi, negli anni ’80, il nulla o quasi. Ciò nonostante, tra cambi di nome e di line up, e dolorose dipartite (Peverett morì per cancro nel 2000, Price per un infarto nel 2005), la band è ancora in piedi e continua a pubblicare dischi, l’ultimo dei quali, Slow Ride, uscito nel 2018.





Blackswan, lunedì 18/05/2020

sabato 16 maggio 2020

ELTON JOHN with RAY COOPER (Universal UMC, 2020)

Imperdibile per i fan di Elton John e indispensabile pagina di storia per tutti gli appassionati, questo Live From Moscow era stato stampato in edizione limitata, lo scorso anno, per il Record Store Day, andando esaurito in pochissimo tempo. Nel gennaio del 2020, ha visto la luce la ristampa di quell’uscita estemporanea, così da soddisfare le richieste di tanti che erano rimasti a bocca asciutta e non avevano potuto acquistare questa gemma di rilucente bellezza.
L’album, composto di due cd, contiene la registrazione del concerto tenutosi il 28 maggio 1979 alla Rossiya Hall di Mosca, e l’audio della registrazione del live, che ai tempi venne trasmesso in diretta da BBC Radio 1, è stato ora rimasterizzato ottimamente da Bob Ludwig.  
Si tratta di una testimonianza storica, oltre che musicale, di grande importanza: Elton, infatti, fu il primo grande artista occidentale a esibirsi oltre la cortina di ferro, e il suo A Single Man, full lenght in studio pubblicato nel 1978, è stato il primo disco pop pubblicato ufficialmente in Unione Sovietica.
Oltre alla Storia, con la esse maiuscola, c’è però anche la storia personale dell’artista, che vive in quegli anni un momento delicato: John ha appena fondato la sua etichetta (la Rocket), ha sciolto il sodalizio con Bernie Taupin, ha diradato le sue esibizioni dal vivo e ha scelto di mostrarsi al grande pubblico attraverso un profilo meno glamour. A Single Man, da cui il A Single Man Tour di cui parliamo, è anche l’ultimo ottimo disco, prima di quel decennio, gli anni ’80, in cui Elton smarrirà l’ispirazione, dando alle stampe un unico lavoro decente (Too Low For Zero del 1983) e tanto, tantissimo ciarpame.
Furono otto le esibizioni di Elton John di fronte al pubblico sovietico: quattro ebbero luogo dal 21 al 24 maggio e si tennero alla BKZ Oktyabrski di San Pietroburgo, e quattro, dal 25 al 28 maggio, alla Rossiya Hall di Mosca.
Due cd, dicevamo, che racchiudono quasi tutto il live act del 28 maggio (mancano canzoni straordinarie come Tiny Dancer, Your Song o la recente, per i tempi di allora, Song For Guy), e che testimoniano le due parti ben distinte che strutturavano il concerto. La prima, che vede Elton John da solo al pianoforte ad eseguire alcuni dei suoi maggiori successi (Candle In The Wind, Daniel, Rocket Man, etc.), oltre a una lunghissima cover di I Heard It Through The Grapevine, la seconda, invece, che vede il percussionista Ray Cooper affiancare l’artista in un filotto di brani che sfocia nel medley beatlesiano di Get Back e Back In U.S.S.R. (canzone eseguita nonostante il divieto delle autorità sovietiche).
Grande valenza storica, dicevamo, ma soprattutto concerto vibrante e bellissimo, riportato alla luce nella sua intensità grazie al certosino lavoro di masterizzazione operato dal citato Bob Ludwig. Non solo per fan.

VOTO: 8





Blackswan, sabato 16/05/2020

venerdì 15 maggio 2020

PREVIEW



Sophie Hunger annuncia il nuovo album Halluzinationen in uscita il 28 agosto su Caroline International, distribuzione Universal. Prodotto da Dan Carey (Kate Tempest, Fontaines D.C.), produttore britannico dell’anno secondo MPG – presente nell'album anche come musicista – Halluzinationen è il settimo album della cantante, pluristrumentista e compositrice svizzera di base a Berlino.
Con l’annuncio dell’album oggi Sophie presenta il nuovo singolo “Everything Is Good”.
 
 
 
 
 
Blackswan, venerdì 15/05/2020

giovedì 14 maggio 2020

DREDG - LIVE AT THE FILLMORE (Interscope,2006)

Ci sono gruppi che, nonostante (o forse proprio per quello) la qualità altissima della proposta, restano sempre oggetto di culto, patrimonio di una ristretta cerchia di appassionati che hanno avuto la fortuna di incontrarli, magari casualmente, altre volte grazie al passaparola. E’ il caso dei californiani Dredg, che, almeno qui in Italia (negli States, da cui provengono, è tutta un’altra storia) vivono nel sottobosco di un anonimato pressochè totale. E questo, nonostante siano circolazione da quasi vent’anni e abbiano all’attivo cinque dischi in studio (oltre a questo live) uno più bello dell’altro.
La band (il cui nome deriva dall’acronimo delle iniziali dei suoi componenti: [D] Drew [R] Roulette [E] Engels [D] Dino [G] Gavin) si forma a Los Gatos nel 1993, e inizia suonando un potente nu metal, dal quale abdica fin dal primo full lenght, intitolato Leitmotif e pubblicato nel 1998. Da questo momento in avanti, le cose cambiano radicalmente: band colta, aperta alla multimedialità e a una visione più ampia possibile della propria arte, che li porta a scrivere liriche profonde e a creare veri e propri concept album, i Dredg inanellano un breve filotto di dischi (che trova il suo vertice ne El Cielo del 2002, album di ostica bellezza), in cui il livello di ispirazione è sempre altissimo, anche quando la proposta vira più decisamente verso la melodia (cosa che avviene a partire dal superbo Catch Without Arms, opera del 2005 che conquista la prima piazza di Us Heat).
Il loro alternative rock chitarristico coagula la vibrante intensità degli esordi metal, la visione sperimentale e la complessità del prog e una lacerante vena malinconica di derivazione emo. Live At The Fillmore fotografa al meglio questa miscela musicale esplosiva e testimonia di una band che dal vivo sa essere efficace come e, forse, anche meglio che in studio, grazie alle doti tecniche dei suoi componenti: le imprevedibili linee di basso di Drew Roulette, la prima mente pensante del gruppo, il drumming secco, nervoso, spesso dispari, di Dino Campanella, la chitarra eclettica di Mark Engels, capace al contempo di leggere pennellate e di rumorose aggressioni, e la voce disperata di Gavin Hayes, una sorta di crocevia della lacrima, a metà strada fra Adam Duritz dei Counting Crows e Robert Smith dei Cure.
In scaletta, ben diciannove brani tratti dai precedenti dischi in studio (ad eccezione di Stone By Stone, comparsa solo come B side del singolo Catch Without Arms), rinvigoriti nel suono anche dalla presenza sul palco dall’amico Chi Cheng, bassista dei Deftones. Un live splendido, palpitante, costruito sul saliscendi di emozioni che nascono dalla contrapposizione fra melodie malinconicissime, la voce Hayes, che trasmette costantemente un senso di imminente tragedia, e gli improvvisi e densi muri di chitarra di Engels, artefice di un vigoroso wall of sound.
Canzoni che sembrano sul punto di spezzarsi in due per la commozione, che camminano in bilico su un dirupo emotivo, che guardano l’orizzonte in attesa del crepuscolo. Canzoni dirette al cuore, che conquistano con l’immediatezza melodica di un ritornello, che fondono il passo meditabondo del soliloquio interiore al fremente respiro dell’epica, e che al contempo trovano complessità espositiva in una struttura spesso imprevedibile e mai lineare.
In scaletta, si alternano così la veemente sfuriata di Ode To The Sun, con la voce Hayes tirata al limite dell’estensione, la combustione della drammatica Whoa Is Me, portata al parossismo nel ritornello, gli stop and go del progressive aggiornato di Triangle, l’epos romantico di Stone By Stone, l’ariosa melodia di Catch Without Arms, il beat elettronico e lo sfarfallio di tastiere dell’irresistibile Sang Real, e la bordata strumentale della conclusiva 90 Hour Sleep.
Un’ora e un quarto senza un calo di tensione, in cui i Dredg sfoderano tutto il meglio di un repertorio che troverà nuova linfa nei due successivi The Pariah, The Parrott, The Delusion (2009), ispirato all’opera di Salman Rushdie e dedicato all’amico Chi Cheng che morirà durante la lavorazione del disco, e Chuckles and Mr Squeezy (2011), al momento capitolo finale di una discografia impeccabile.
La band, infatti, si è presa una lunga pausa di riflessione, che sembra essersi interrotta solo nel 2018, quando i Dredg hanno annunciato che sono iniziate le registrazioni per un nuovo album. Che al momento, tuttavia, ancora non ha visto la luce.





Blackswan, giovedì 14/05/2020

mercoledì 13 maggio 2020

PREVIEW




I Remo Drive sono tornati! L’attesissimo nuovo album, A Portrait Of An Ugly Man, uscirà il 26 giugno su Epitaph Records. Con il suo acrobatico lavoro chitarristico, i testi profondamente autoreferenziali e un’energia incontenibile, l’album richiama il suono estremo ed eccentrico che ha aiutato la band a esplodere nella scena underground con il loro debutto del 2017.
Il suono dei Remo Drive si è fatto più robusto che mai e lo si nota già dal primo assaggio, “Star Worship”, primo singolo che parla della necessità di evitare la riverenza verso gli altri e confidare solo in noi stessi. È accompagnato da un video che i due fratelli – Erik (voce, chitarra) e Stephen (basso) - hanno girato nel garage dei genitori per tenersi occupati durante la quarantena.
A Portrait Of An Ugly Man è un disco 100% Remo Drive. Considerato che i Paulson hanno filtrato il loro vivace songwriting attraverso le lenti concise di narratori come Bruce Springsteen e The Killers, l’album è molto più spontaneo, rafforzato dallo stesso fascino e leggerezza che ha reso Greatest Hits del 2017 un tormentone underground.
“Volevo tornare a suonare la chitarra come facevo prima e poi buttarci sopra il songwriting,” dice Erik. “Sull’ultimo album, ho approcciato lo strumento in modo più cantautoriale.”
Autoprodotto e mixato, A Portrait Of An Ugly Man è allo stesso tempo familiare e nuovo. Prendendo forma nel seminterrato dei genitori, si sente il respiro del luogo mentre la libertà delle sessions ha permesso alla band di esplorare l’evoluzione del suono.
Come tale, il set di dieci canzoni punta sia al rock classico con cui i due fratelli sono cresciuti sia a influenze precedentemente non emerse: Erik cita artisti come Queens Of The Stone Age mentre ammette che la colonna sonora de “Il Buon, il Brutto e il Cattivo” e il suo amore per i vecchi film western hanno contributo a forgiare il nuovo sound. Ma questa volta, gli spiriti guida delle loro influenze musicali sono consapevolmente meno palesi.
Il costante senso di autocoscienza è ciò che ha reso i Remo Drive così accattivanti mentre iniziavano a trovare la loro strada a metà degli anni ’10, ma non è mai stato così cristallizzato come in questo nuovo album. La ripugnanza che Paulson esplora in queste tracce riflette sicuramente aspetti meno glamour della sua psiche e di quella degli altri, ma quando entra in gioco la sua arguzia, esse sembrano meno un vero atto di accusa e più un abbraccio a tutta l’assurdità e imperfezione della vita. “Mi stavo abbattendo cercando di essere più serio di quanto io sia,” ammette Erik. “In questo album, volevo scrivere cose che comunicassero ancore idee reali ma con un pizzico di energia spensierata e divertente.”
Nel riportare lo specchio su se stessi, i Remo Drive hanno imparato molto si chi sono veramente: A Portrait of an Ugly Man è un disco che non cerca di minimizzare argomenti importanti come la salute mentale o l’autostima, ma piuttosto accogliergli e accettarli come parte di ciò che significa essere umani.





Blackswan, mercoledì 13/05/2020

martedì 12 maggio 2020

OTHER LIVES - FOR THEIR LOVE (ATO Records, 2020)

Sono passati nove anni da Tamer Animals, secondo album in studio della band originaria dell’Oklahoma, e la sensazione è che gli Other Lives, da quel folk rock orchestrale, attraversato da echi morriconiani e sedotto da derive malinconiche, non abbiano fatto molta strada, perdendosi nel sottobosco indie di quei gruppi di cui ci si ricorda solo al momento dell’uscita di un nuovo disco.
Non che non abbiano provato, per carità. Il successivo Rituals (2015) tentava di arricchire (destrutturandola) la precedente narrazione, aprendosi a uno sperimentalismo dilatato, in cui la formula canzone, con le sue regole e il suo minutaggio, veniva abbandonata nel tentativo coraggioso di allargare gli spazi e rarefare l’impianto sonoro. Un disco difficile e per niente accomodante, poco apprezzato dal pubblico e dalla critica, che aveva finito per interrompere l’ascesa di una band, sul cui futuro, più o meno tutti, dopo la sorpresa di Tamer Animals, avrebbero scommesso a occhi chiusi.
Questo For Their Love è un’inversione di rotta, un ritorno alle origini, una resipiscenza stilistica che riporta la band alle atmosfere dei giorni più fortunati, in cui è di nuovo la canzone a prendersi la scena all’interno di una scaletta abbondantemente ridimensionata nella durata (dieci brani per trentasette minuti di musica). Tuttavia, se Rituals era un tentativo apprezzabile di uscire dalla comfort zone per battere nuove strade con la consapevolezza dell’azzardo, questo nuovo lavoro testimonia di una band che sembra in debito d’ossigeno, castrata nelle velleità di rinnovamento, ma anche incapace di dare lustro agli antichi fasti.
For Their Love suona vicinissimo a Tamer Animals, per la costruzione di paesaggi cinematografici, per l’impianto orchestrale, per la rimodulazione moderna del classico impianto folk rock, tra le cui pieghe si scorgono contiguità ai connazionali Midlake, rivisitato, però, attraverso la prospettiva umbratile dei The National o dei primi Radiohead.
Tuttavia, se la scrittura in Tamer Animals (come evocava la copertina dell’album) era uno sgranato bianco e nero ricco di fascino e di suggestioni malinconiche, For Their Love soffre di un eccesso di cromatismo, ridondante e forzato. Una verbosità chiusa nello spazio stretto di tre minuti, un condensato sonoro in cui l’eccesso di arrangiamento uccide l’impulso melodico di canzoni che girano sempre su se stesse, senza mai imboccare il percorso che porta dalle orecchie al cuore. Come se la scrittura non trovasse ragione d’essere se non nella forma, e la posa e l’enfasi potessero essere di per se veicolo di emozioni. Dieci canzoni che vorrebbero sedurre con un rigoglio di suoni e di colori, e che invece finiscono per ripiegarsi, con respingente freddezza, in un involucro tanto calligrafico quanto anonimo.
E non è un caso che, nemmeno dopo parecchi ascolti, ci sia qualcosa, una melodia, un’intuizione, un palpito, che meriti di essere ricordato. Perché si sa, il confine tra ambizioso e pretenzioso, è labile e sdrucciolevole.

VOTO: 5





Blackswan, martedì 12/05/2020