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martedì 13 luglio 2021

EVA CASSIDY - LIVE AT BLUES ALLEY/NIGHTBIRD (Blix Street Records, 1997)

 



Eva Cassidy se ne è andata prestissimo, a soli trentatre anni, proprio quando il fiore del suo luminoso talento stava sbocciando in tutta la sua rigogliosa meraviglia. I greci antichi dicevano che chi muore giovane è caro agli Dei: affermazione, questa, che se da un lato aveva un intento consolatorio verso chi aveva prematuramente perso un affetto, dall’altro sottintendeva qualcosa di più importante. L’idea, cioè, che una bella morte in giovane età (la valenza del gesto estetico, peraltro, contribuiva all’accrescimento del mito) strappava l’individuo all’oblio e lo consegnava definitivamente all’eternità del ricordo e della leggenda. Era la poesia degli eroi, che nell’antichità contribuì, ad esempio, a nutrire il mito di Achille, e che, rapportata alla musica rock, ambito nel quale il dato iconografico e la letteratura sono fondamentali, potrebbe valere, ad esempio, per raccontare la fine di uno a caso dei deceduti appartenenti al numeroso club dei 27. Ciò che gli dei riservarono per Eva Cassidy, invece, sembra più il frutto di un ordito malvagio, che il desiderio di consacrare un immenso talento artistico a fama imperitura. Eva nasce a Washington il due febbraio 1963 e, come molto spesso accade, è spinta alla musica dal padre, con cui iniziò a esibirsi molto giovane in piccoli club della città. L’asticella, però, si alzò solo più tardi (1986), quando la Cassidy fu notata dal produttore Chris Biondo, il primo a intravvedere in lei doti interpretative non comuni. Il gruppo con cui esordì, la Eva Cassidy Band, la collaborazione con un mito del funk, Chuck Brown, e un disco, The Other Side, con lui realizzato nel 1992, furono il trampolino di lanciò per una carriera che, però, stentò a decollare. Tanto che la Cassidy, come succede a molti musicisti alle prime armi, non smise di esercitare la professione di infermiera, che le consentiva di sbarcare il lunario. Poi, sul finire del 1995, arriva la svolta che, davvero, potrebbe cambiare il corso degli eventi. Eva molla il lavoro e con l’aiuto di Biondo, organizza due serate al Blues Alley di Washington (il 2 e il 3 gennaio del 1996), un piccolo localino jazz, che, nonostante le feste natalizie, rimase aperto per l’occasione. 

 L’intenzione è quella di pubblicare un disco con il meglio tratto dalle due esibizioni. Il fato, tuttavia, si accanisce con la Cassidy: la registrazione della prima serata va perduta per problemi tecnici; quella della seconda serata, che confluirà in Live At Blues Alley, vede, invece, la Cassidy non in perfette condizioni fisiche, causa un fastidioso raffreddamento. Sarà. Ma quando Eva sale sul palco e inizia a cantare si aprono le porte del Paradiso. Perché la Cassidy, come più di un critico non ha avuto esitazioni ad affermare, è stata la più grande cantante di tutti i tempi. Basta ascoltare questo unico, e sfortunatissimo esordio (il disco fu, ai tempi, un flop commerciale), per rendersi conto di quanta duttilità fosse dotata la sua voce impossibile, capace di rileggere e interpretare senza tentennamenti e con gusto originale ballate soul da svenimento (People Get Ready di Curtis Mayfield), standard jazz già passati attraverso ugole importanti (Autunm Leaves, Check To Check, What A Wonderful World) e hit del pop contemporaneo, come Fields Of Gold di Sting. Eccola lì sul palco, Eva, infreddolita e intabarrata, chitarra acustica o elettrica tra le braccia, e una voce possente che cerca con forza lo spazio circostante fino a riempirlo tutto, raggiungendo un’estensione concessa solo alle più grandi di sempre. E non è un caso, a tal proposito, che la Cassidy venga spesso paragonata a Aretha Franklin, anche se, per lo straordinario eclettismo e il triste epilogo della propria vita, azzarderei un accostamento con un’altra straordinaria cantante americana, Laura Nyro, la quale, guarda caso, morì nel 1997, proprio l’anno successivo la dipartita della Cassidy. Già, perché Eva Cassidy, se ne andò per un melanoma nel 1996, senza riuscire a vedere la pubblicazione dell’album che, sperava, avrebbe potuto finalmente farla entrare nel firmamento luminoso dello star system. 


Tre anni dopo, è il 1999, gli Dei, forse pentitisi del grande torto fatta alla musica e a quella povera e appassionata cantante, decisero nuovamente di mettere mano al destino e di cambiare il corso degli eventi. E da qui, nasce un’altra storia, una storia a cui nessuno crederebbe, se non ci fossero inoppugnabili dati alla mano a dimostrarlo. E’ una fredda mattina di novembre, quando Fred Taylor, proprietario dello Scullers Club, un locale dove si suona musica jazz dal vivo, mentre sistema le sue cose, mette sul piatto Songbird, uno raccolta postuma della Cassidy, pubblicata l’anno prima. Ascolta la prima delle canzoni in scaletta, la cover di Fields Of Gold di Sting, e quasi sviene dall’emozione. “Stavo lì a studiare le mie carte e sono rimasto incantato - racconta Taylor al Boston Globe - mi sono fermato, ho mandato indietro il pezzo e ho ascoltato con attenzione tutto il disco, traccia per traccia. Me ne innamorai e decisi che dovevo assolutamente trovarla per farla suonare nel mio locale". Eva però non c’era più, era scomparsa tre anni prima, senza essere riuscita a portare la propria musica fuori dagli angusti confini di Washington. "Quando mi dissero che era morta nel '96 mi disperai - ricorda Taylor - pensai che nella mia carriera mi avevano entusiasmato molti artisti, avevo scoperto anche qualche talento, ma 'Autumn Leaves' come la cantava lei, mi dava delle emozioni mai provate prima". Taylor allora chiamò un amico che lavorava alla WBOS-FM, una radio locale di Boston, consigliandogli il disco, e fu così che Songbird trovò spazio con sempre più frequenza nelle programmazioni radiofoniche, suscitando fra gli ascoltatori un incontenibile entusiasmo. Il nome di Eva Cassidy cominciò allora a circolare negli ambienti che contano e Songbird scalò le classifiche di mezzo mondo, raggiungendo la prima piazza delle charts britanniche e preparando terreno fertile all’ascesa di quel fenomeno planetario che prenderà il nome di Amy Winehouse. 

A fine 2015, è uscito l’ennesimo disco postumo (Nightbird) che, però, a differenza di tanti altri pubblicati dopo il successo di Songbird (pecunia non olet), ha il merito filologico di recuperare l’intero concerto tenuto nel 1996 dalla Cassidy al Blues Alley. Le canzoni, originariamente dodici, diventano quindi trentuno, e gli inediti assoluti sono ben otto (nel box set è contenuto anche un artigianale dvd in bianco e nero che documenta la serata). Il livello di questi brani, recuperati dall’oblio, resta comunque mostruoso, come testimoniano la cover di Something’s Got A Hold On Me di Etta James e un’incredibile Ain’t No Sunshine di Bill Whiters, solo per citarne alcune. Cresce così il rimpianto di non aver visto all’opera questa straordinaria soul woman morta prematuramente, che oggi avrebbe solo cinquantadue anni e sarebbe stata in grado di mettere in fila tutte le Adele del pianeta. Vallo a spiegare agli Dei cosa ci siamo persi.

 


 

 

Blackswan, martedì 13/07/2021

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