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martedì 29 novembre 2022

SIMPLE MINDS - DIRECTION OF THE HEART (BMG, 2022)

 


In copertina, una maschera antigas adornata di fiori e farfalle: un’immagine forte, che colpisce immediatamente lo sguardo e che inizialmente perplime. Il messaggio, però, è solo apparentemente straniante e contraddittorio, perché in Direction Of The Heart, diciottesima fatica degli scozzesi Simple Minds, convivono i due opposti così ben raffigurati: il dolore di questi giorni tristi, in cui imperversano la pandemia e la guerra, e la gioia di continuare a fare musica, un veicolo di speranza e di pace, che unisce, quando tutto il mondo appare sempre più diviso da un odio ingiustificato.

Un sfida decisamente vinta da parte di una band che, dopo un decennio di gloria, quello degli anni ’80, aveva perso l’ispirazione dei giorni migliori, vedendo progressivamente scemare la propria fama e l’esposizione mediatica. Taormina, dove Jim Kerr risiede ormai da tempo, sembra aver progressivamente restituito ispirazione alle “menti semplici”, che da Big Music (2014) in poi, pur non toccando più i vertici di autentici capolavori come New Gold Dream e Sparkle In The Rain, hanno ritrovato continuità e non hanno più sbagliato un disco, compreso questo.

E proprio in Sicilia ha visto la luce la maggior parte del materiale di questo Direction Of The Heart, che vede ancora saldamente al comando il cuore pulsante della band (oltre a Jim Kerr, il fedelissimo Charlie Burchill) e che ha trovato nuova linfa vitale grazie all’effervescente contributo di musicisti di livello quali Gordon Goudie alla chitarra, Cherisse Osei alla batteria, Berenice Scott alle tastiere, Sarah Brown ai cori e Ged Grimes, ex Danny Wilson, al basso.

Intendiamoci, in Direction Of The Heart non c'è nulla che faccia sobbalzare dalla sedia, ma è un disco vivo e scalciante (per citare una grande hit del gruppo), forte di un sound energico e ottimista, con qualche eco del lontano passato e alcuni riff di Burchill che ci ricordano il motivo per il quale, la band scozzese, dopo ben 45 anni di attività, è ancora lontana dalla pensione.

Tutto funziona bene all’interno di una scaletta coesa nei suoni, in cui Kerr e soci, pur guardando alla deriva di un’umanità sempre più sconsolata e impaurita (la tensione che pervade "Who Killed Truth?", brano sul tema dell’informazione e delle fake news, ne è un esempio lampante), trovano quasi sempre una spinta melodica irresistibile, capace di far battere il piede, anche grazie a una pompatissima sezione ritmica. Una positività che riesce letteralmente a pulsare fin dall’iniziale "Vision Thing", omaggio al papà di Kerr, morto nel 2019, o nella successiva "First You Jump", una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, a quegli anni in cui Simple Minds e “i rivali” U2 riempivano le arene e apparivano sulle prime pagine di tutte le riviste musicali.

Un’effervescenza pop che scuote la luminosa "Human Traffic", in cui compare un cameo di Russell Mael degli Sparks, e che diventa addirittura irresistibile in "Act Of Love" (un brano scritto nel lontano 1977), una tirata ritmatissima che sfocia in un ritornello di quelli da cantare a squarciagola sotto il palco. Che questa sia musica che potrà funzionare maledettamente bene dal vivo, lo si comprende anche da "Solstice Kiss", in cui il mood celtico iniziale si gonfia progressivamente di potenza da stadio, in un crescendo che evoca brani celebri come "Belfast Child" e "Alive And Kicking".

Un altro brano ripreso dal passato è la conclusiva "The Walls Came Down", una cover dal repertorio dei Call, scritta nel 1983 con riferimento alla guerra fredda e alle politiche della Thatcher e di Reagan, e oggi riadattata per raccontare gli anni della Brexit, di Farage, di Trump e di Orban, anime nere che vogliono costruire muri (fisici o ideali) per dividere l’umanità tra privilegiati e diseredati.

Dopo quarantacinque anni di carriera, e alcuni dischi non proprio centrati, i Simple Minds sono riusciti a riprendere in mano il timone della loro arte e a tracciare una nuova rotta, che sembra più sicura e solida che mai. Per farlo, non hanno dovuto inventarsi nulla di incredibile, hanno riproposto il loro suono, riuscendo però a riaggionarlo, voltando le spalle alla nostalgia e piantando i piedi nel presente. Non sposteranno più il baricentro della scena musicale, certo, ma restano ancora credibili e affidabili, meritandosi nuovamente la stima e l’amore incondizionato che i fan della prima ora non smetteranno mai di tributare loro.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, martedì 29/11/2022

lunedì 28 novembre 2022

SKID ROW - THE GANG'S ALL HERE (earMusic, 2022)

 


Quando s’invecchia, la nostalgia diventa una brutta bestia da tenere sotto controllo. Così, per chi ci è stato, ripensare a quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, produce inevitabili languori malinconici, e una lacrimuccia scende, quando tornano in mente le straordinarie band hair/glam metal che tenevano saldamente in pugno la scena musicale del tempo, dalla California fino alle propaggini più estreme dell’Europa del nord.

Per cinque anni, grazie a una tripletta di dischi straordinaria (l’esordio mainstream del 1989, e i più duri Slave To The Grind del 1991 e Subhuman Race del 1995) sembrava che gli Skid Row avessero il mondo ai loro piedi e fossero a un passo per entrare nella leggenda. E invece, arrivò lo tsunami del grunge che spazzò via ogni altra forma vivente dal pianeta rock. Ritornati, poi, sulle scene negli anni ’00, con due dischi francamente prescindibili, la band originaria del New Jersey sembrava destinata ad imboccare il viale del tramonto di un’anonima mediocrità.

Le cose, però, cambiano, il tempo passa, e si presentano nuove possibilità. Così, oggi, gli Skid Row sono tornati più affamati che mai e, come recita il titolo di questo sesto album in studio, The Gang’s All Here. Senza Sebastian Bach, che ha mollato nel 1996 (sostituito dal compianto Johnny Solinger), ma con la nuova entrata nella line up del cantante Erik Gronwall (H.E.A.T.), un’ugola straordinaria per potenza ed estensione, capace di non far rimpiangere l’iconico frontman, e autentico propellente delle dieci, quasi tutte tiratissime, canzoni in scaletta.

La prima metà del disco riesuma la potenza incendiaria di "Slave To The Grind", una sorta di dichiarazione d’intenti su come fermare il tempo ai giorni di gloria: “Siamo tornati e siamo più incendiari di prima!”. "Hell Or High Water" è una partenza con l’acceleratore a tavoletta e ti ricorda all'istante perché, un tempo, amavi così tanto gli Skid Row: un tripudio di riff con il coltello fra i denti, la sezione ritmica che mena usque ad finem, grandi ritornelli, e fin dall'inizio, uno strepitoso Gronwall, che fa sentire la sua presenza, inserendosi nel meccanismo come se ne avesse sempre fatto parte. L'attitudine punk di "Not Dead Yet" scortica la pelle, mentre le linee di chitarra tonitruanti di "Resurrected", ci ricordano che anni fa gli Skid Row se la giocavano ad armi pari con autentiche istituzioni come Guns n’ Roses e Iron Maiden. Il passo minaccioso di "Time Bomb", sorretta da una vigorosa linea di basso che sfocia in un ritornello irresistibile, e la sferragliante velocità della title track, completano un cinquina di canzoni da urlo.

La seconda metà del disco, pur rimanendo su ottimi livelli, suona un po' meno affilata, e vede gli Skid Row staccarsi un po' dal loro passato, con tre brani comunque trascinanti come "Nowhere Fast", "Tear It Down" e "World On Fire", e il glam metal di "When the Lights Come On", con quel giro di basso che ti perfora le tempie e ti conduce a fare una passeggiata lungo la Sunset Strip di Los Angeles a fine anni '80 (la performance di Gronwall, qui, è da standing ovation). C’è anche un grande lento, "October’s Song", la classica ballata che rallenta i giri del motore e che sotto il palco accenderà centinaia di accendini nella notte, come merita ogni rituale rock che si rispetti.

Dopo diciotto anni di assenza, viene da chiedersi, è questo il disco che ci potevamo aspettare dagli Skid Row? La risposta, è ovviamente si. Non si tratta di una rivoluzione, certo, e qui non c’è nulla di nuovo che faccia sollevare il sopracciglio per la sorpresa. Tuttavia, un’evoluzione c’è stata (la scintilla che accende il fuoco è senz’altro la presenza di Gronwall), e i fan della prima ora troveranno, in questo ritorno, un pugno di canzoni famigliari senza, che però, suonino datate. Perché, in fin dei conti, non è solo nostalgia quella che suona in The Gang’s All Here. Ben ritrovati, ragazzacci!

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, lunedì 28/11/2022

venerdì 25 novembre 2022

BUDDY HOLLY - WEEZER (DGC, 1994)

 


L’esordio dei Weezer, che come titolo porta il nome della band, ma è anche conosciuto come The Blue Album, è un disco favoloso, di quelli che tutti dovrebbero avere nella propria personale discografia: grandi canzoni, grandi arrangiamenti e una vecchia volpe come Ric Ocasek a indirizzare l’esuberante talento di Rivers Cuomo, autore di tutti i brani in scaletta. Tra questi, tutti degni di nota, a dire il vero, spicca Buddy Holly, quella che tutt’oggi è considerata probabilmente la canzone più celebre della band losangelina.

Il brano, a causa di quei versi “But you know I'm yours, And I know you're mine”, è stata spesso interpretata come una romantica canzone d’amore. In realtà, non è così, e fu lo stesso Cuomo a spiegare che il brano fu scritto come omaggio a una sua amica asiatica, con cui aveva una relazione puramente platonica, che era stata presa in giro, da comuni amici, per il colore della pelle.

La prima demo della canzone era molto più lenta di quella poi registrata ufficialmente, e le liriche non facevano alcun riferimento a Buddy Holly. In seguito, il testo originario, che si concentrava sulla leggendaria coppia Fred & Ginger (“Sembri proprio Ginger Rogers, Io mi muovo proprio come Fred Astaire”) fu cambiato in quello che oggi tutti conosciamo (“sembro proprio come Buddy Holly, e tu sei Mary Tyler Moore"), perché il nome dell’icona rock anni ’50 e quello dell’attrice, diventata famosa per essere stata la protagonista del Dick Van Dyke Show (e successivamente di uno show tutto suo) suonavano decisamente meglio e davano, inoltre, un pizzico di nostalgia alla composizione.

Fa sorridere il fatto che Cuomo non volesse inserire il brano nel disco, perché sosteneva fosse molto distante dalle sonorità che stava inseguendo con il progetto Weezer. Fu Ocasek a schierarsi a fianco della canzone e a insistere perché venisse inserita in scaletta, facendo un martellante lavaggio del cervello a tutti i componenti della band. Leggenda narra, infatti, che quando i membri del gruppo si recavano negli studi Electric Lady di New York per registrare il materiale, ogni mattina trovavano ad attenderli un cartello su cui, a lettere cubitali, il produttore aveva scritto “Vogliamo Buddy Holly!”.

Il video della canzone, che fu diretto da Spike Jonze, attore, sceneggiatore e regista (Her e Essere John Malcovich i suoi film più noti), si aggiudicò ben quattro MTV Video Music Awards. Il motivo è abbastanza semplice: Jonze, infatti, ebbe l’idea di ambientare la canzone all’interno del locale Arnold’s, si, proprio quello di Happy Days, serie tv che è diventata per gli americani, e non solo, una vera e propria istituzione. Nel video, oltre a immagini di repertorio di tutti i protagonisti del telefilm, ha un piccolo cameo anche Al Molinaro, che nella serie interpretava il proprietario del ristorante. Happy Days andò in onda negli anni '70, ma era ambientato negli anni '50, quando Buddy Holly ha lasciato un segno decisivo nella storia della musica rock. Ecco, dunque, il colpo di genio: un video degli anni '90, che fa riferimento a una serie TV degli anni '70, ambientata negli anni '50. Quarant’anni di storia degli Stati Uniti in solo quattro minuti di videoclip.

 


 

 

Blackswan, venerdì 25/11/2022

giovedì 24 novembre 2022

LET MY LOVE OPEN YOUR THE DOOR - PETE TOWNSHEND (ATCO, 1980)

 


A volte capita: scrivere una canzone e finire per detestarla. E’ esattamente quello che successe a Pete Townshend con la sua Let My Love Open The Door, primo singolo estratto dal suo album solista Empty Glass del 1980. In un'intervista rilasciata alla rivista Rolling Stone, subito dopo che la canzone era diventata un successo coommerciale, Townshend, infatti, la definì "solo una canzoncina", e continuò, dicendo che preferiva un'altra canzone di Empty Glass, A Little is Enough, che però raggiunse solo il numero 72 delle classifiche statunitensi. Incredibile ma vero, anche al manager del chitarrista la canzone piaceva poco e cercò a tutti i costi di convince Townshend a non inserirla nel disco, perché aveva uno stile che non rappresentava quello del suo protetto, salvo poi chiedere scusa, quando il brano scalò le classifiche statunitensi, arrivando alla nona piazza.

La canzone, fin dal titolo, sembrerebbe toccare il tema dell’amore di coppia. Il testo, in tal senso, trae immediatamente in inganno: “Quando tutto sembra finito, tutti sembrano scortesi, ti darò un quadrifoglio, togli tutte le preoccupazioni dalla tua mente, lascia che il mio amore apra la porta”. E che la canzone suoni come una dichiarazione d’amore, basta ricordare la toccante sequenza del film del 2007 L’amore Secondo Dan (Dan In Real Life, il titolo originale) in cui Steve Carell e Dane Cook eseguono Let My Love Open The Door per la ragazza di Cook (una radiosa Juliette Binoche), della quale Carell è segretamente innamorato.

In realtà, il brano possiede un’importante valenza spirituale. Tutto il disco Empty Glass, infatti, ha come oggetto i problemi che il chitarrista stava vivendo in quel periodo: l’alcolismo, la dipendenza dall’eroina e il dolore, non ancora sopito, per la morte di Keith Moon, il batterista degli Who. In quel periodo, Townshend si sentiva completamente perso, in balia dei propri fantasmi interiori, incapace di vivere la pienezza della vita e perennemente strafatto. Insomma, i suoi vizi, e non è un modo di dire, lo stavano uccidendo. Il chitarrista, fin dal 1968, era un seguace degli insegnamenti del guru indiano Baba (1894-1969); tuttavia, si stava rendendo conto che quella spiritualità, a cui aveva improntato il proprio stile di vita, stava completamente sparendo dal suo cuore. Let My Love Open The Door, in tal senso, è un atto di devozione nei confronti del suo guru, è l’affermazione, hic et nunc, che l’amore rende liberi e salva la vita. Non solo l’amore fra uomo e donna, ma quello più universale che porta a tendere verso l’assoluto. Strano a dirsi, non solo questa è stata l'unica hit americana da solista di Pete Townshend ad entrare nella Top 10, ma ha raggiunto anche il podio più alto di qualsiasi altra canzone pubblicata dagli Who in America.

Alla fine, il chitarrista cambiò il giudizio sulla quella sua canzone che tanto aveva denigrato. Quando, infatti, gli Who eseguirono il brano durante il loro concerto acustico alla Royal Albert Hall, tenutosi, il 25 marzo 2022 in aiuto del Teenage Cancer Trust, Townshend con orgoglio la presentò, dicendo: "Beh, questa prossima canzone non è sicuramente una hit degli Who, questa è una hit di Pete." Meglio tardi che mai.

 


 

 

Blackswan, giovedì 24/11/2022

martedì 22 novembre 2022

PLAINS - I WALKED WITH YOU A WAYS (anti-, 2022)

 


Le radici e la terra. Il desiderio di fuga. Basta leggere il testo di "Abilene", quarta traccia di I Walked With You A Ways, album di debutto del duo composto da Jess Williamson e Katie Crutchfield, alias Waxahatchee, per comprendere quale sarà il cuore della narrazione delle due songwriter. Sono i luoghi della nostalgia, quelli che evocano ricordi, quelle immagini che restano chiarissime nella memoria, qualunque cosa accada: “Piangendo in autostrada con i finestrini abbassati, Sarei rimasta lì per sempre, finché morte non ci separi. Texas nel mio retrovisore, pianura nel mio cuore”. Un verso bellissimo e sofferto, che ci prende per mano e ci porta in giro per le lunghe e tortuose strade del Texas, in un mondo dal sapore antico, in cui sono le piccole cose a pungolare la malinconia: una caffetteria, un negozio di liquori, le verande su giardini di erba secca da annaffiare, i panni appesi a uno stendibiancheria con mollette arrugginite, gli spazi immensi, i cieli stellati, miglia e miglia di solitudine e silenzio.

Un racconto che è quasi un tiro alla fune tra il dolore di lasciare indietro le proprie radici e l’ambizione di una vita che ti porta lontano, a cercare un futuro migliore in luoghi che non siano persi per sempre in un immutabile immobilismo. "Il Texas nel mio retrovisore, pianura in il mio cuore": in questo verso, convivono il triste omaggio alla cultura e alla tradizione che vengono lasciate alle spalle, e un inno di vibrante speranza per un futuro che aspetta, là, in fondo all’orizzonte.

Una duplicità emotiva che trova esposizione cristallina grazie alle tipiche formule espressive dell’alt country e dell’americana, che in I Walked With You A Ways, però, si scuotono di dosso la polvere dell’usura e stanche declinazioni, e appaiono ringiovanite e pimpanti. Tra Jess Williamson e Katie Crutchfield l’intesa è totale, sincronizzata, oserei dire, e la capacità di essere immerse nella tradizione senza replicare stanchi canovacci è figlia di due sensibilità che non rinnegano il proprio dna, ma che sono anche strettamente connesse al presente, tanto da poter replicare i truismi melodrammatici della musica country senza perdere un briciolo di credibilità. Il risultato è una raccolta ariosa di brillanti canzoni, capaci di evocare, attraverso colorate istantanee della vita del sud: in "No Record of Wrongs", è una "sigaretta in una pianta in vaso", sono “fichi maturi” in "Summer Sun" e “le notti calde” a Beaumont in "Bellafatima". In queste fotografie, puoi sentire il vento che soffia attraverso le note, un senso libertà, fresco e appagante.

Come è succcesso in passato per album l’esordio delle Highwomen, il supergruppo country composto da Brandi Carlile, Natalie Hemby, Maren Morris e Amanda Shires, I Walked with You a Ways si pone come uno spazio speciale dove due artiste, che di solito operano separatamente, possono allungare le gambe insieme. E lo fanno con tanta convinzione che questo disco è molto di più della somma delle due parti. Che sia l'inizio di una bella amicizia musicale o solo un fuoco di paglia, questo esordio resta, in ogni caso, uno dei dischi country dell’anno, un album suggestivo e ricco di fascino, la dimostrazione che quando due musicisti ci mettono il cuore, le distanze si azzerano, e il punto di contatto può produrre grande musica.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, martedì 22/11/2022

lunedì 21 novembre 2022

a-ha - TRUE NORTH (Sony Music/Rca, 2022)


 

In un anno che ha visto il ritorno in grande stile di alcune band che avevano segnato indelebilmente la musica degli anni ’80 (Tears For Fears, The Cult, etc), compaiono a sorpresa anche i norvegesi A-ha, dopo uno iato durato sette anni, intervallato solo dallo splendido Mtv Unplugged Summer Solstice (2017).

La band, composta Pål Waaktaar-Savoy (chitarra), Magne Furuholmen (tastiere/chitarra) e Morten Harket (voce), non ha mai smesso, in realtà, di produrre ottima musica, anche se, a onor del vero, scemata l’eco mediatica degli anni d’oro di Hunting High And Low (1985) e Scoundrel Days (1986), è un po’ scomparsa dai radar, assestandosi nelle retrovie del panorama musicale e continuando a mietere successi solo in patria. Gli A-ha, nel corso dei decenni, hanno, poi, cambiato pelle, trasformando il synth pop degli esordi in un pop adulto e sofisticato, levigato da una maestria tecnica cresciuta di disco in disco, e innervato da quella vena malinconica, che da sempre ha dato calore a queste canzoni concepite e create nelle fredde terre del nord.

E proprio True North si intitola quest’ultima fatica, registrata a Bodø, un comune nella contea di Nordland, in Norvegia, a soli 90 chilometri dal Polo Nord, insieme alla Norwegian Arctic Philharmonic, la vera protagonista di un disco che, come detto, è lontano anni luce da quel suono, cito per tutte "Take On Me", che aveva loro aperto la strada della fama planetaria. True North, meglio precisarlo subito, è un lavoro che va ascoltato tante volte. Non perché sia un album particolarmente complesso, ma perché è necessario entrare profondamente in un mood agli antipodi rispetto a quello amato dai fan della prima ora.  I primi ascolti, infatti, posso essere spiazzanti e lasciare un senso di fastidio per una produzione esageratamente sovraesposta, e arrangiamenti che, al primo impatto, suonano stucchevoli in modo esagerato.

La percezione iniziale, insomma, può essere disorientante: da un lato, un pugno di canzoni che rivelano la consueta maestria della band nel creare melodie immediatamente assimilabili e partiture eleganti, che si dipanano sulla voce di velluto di Morten Harket, il cui timbro, meno brillante di un tempo, si è fatto però caldo, morbido e avvolgente; dall’altro, arrangiamenti, che sfoggiano un profluvio di violini, fiati e tastiere, e che sembrano togliere slancio ai brani in scaletta, appesantendoli e offuscando una bellezza che, spogliata d’orpelli, sarebbe risuonata cristallina.

Poi, dopo qualche ascolto, le cose cambiano e ci si abbandona alla rigogliosa pienezza di questo pop orchestrale, coerente per tutta la durata del disco. Si comprende, cioè, che le dodici canzoni in scaletta possiedono un’anima che in una veste diversa non sarebbe mai emersa. Così, il disco, lentamente, s’insinua sotto pelle, ed emoziona, svelando le sue trame sonore articolate, eleganti, ricche di suggestioni emotive. Anche perché True North, pur nella sua coerenza espositiva, testimonia di un gruppo capace di declinare la materia con accenti diversi, coraggiosa nell’evitare citazioni autoreferenziali, addirittura ardita nello sviluppare idee, che nessun fan della prima ora avrebbe mai immaginato.

La scaletta è aperta dal singolo "I’m In" ed è subito un tuffo al cuore. Questo è il brano più lineare del lotto, la melodia è semplice e si canticchia fin da subito; eppure, il pathos è palpabile, la malinconia stringe la gola, e il falsetto delicato di Harket sfiora il cuore come una carezza. Le cose già cambiano con "Hunter In The Hills", la vera chiave di lettura dell’album, il cui scintillante abito orchestrale chiama in causa addirittura Burt Bacharach, tanto che verrebbe voglia di giocare con le parole e definirlo un brano alla Bacharaca-ha. Un vero e proprio gioiello di melodia, incastonato in un’intricata trama sonora in cui confluiscono lo scintillio dei fiati, il velluto degli archi e il liquido srotolarsi dei sintetizzatori.

Lo stesso approccio orchestrale eccita i languori della malinconicissima "Bumblebee", una di quelle canzoni che a ogni ascolto svela qualcosa di nuovo, una suggestione, un suono che era sfuggito, un palpito del cuore, e dona leggerezza alla conclusiva "Oh My Word", una soffice ballata, ingentilita da poche note di pianoforte e dalla voce appassionata di Harket, in abiti da crooner (se prima cannibalizzava le canzoni, ora sembra quasi entrarvi in punta di piedi. E lo fa con una classe immensa).

Come si diceva poc’anzi, pur nella sua coerenza formale, il disco risulta composito nella declinazione della lingua pop, offrendo altre inaspettate gemme, come la salmodiante "Forrest For The Trees", che sembra uscita da un disco di Morrissey, la ballata "Bluest of Blue", che si accende di colori in un intreccio vocale che riporta la memoria ai Beach Boys, o gli echi synth pop che emergono nel repentino scatto dance di "Make Me Understand". E alla fine, si può perdonare anche l’eccesso zuccherino del secondo singolo "You Have What I Takes", perché la melodia è talmente centrata, che tutto il resto passa in secondo piano.

True North è un disco che va assaporato lentamente, necessita tempo per entrare in circolo e, superato un primo impatto che può infastidire a causa del rigoglioso apparato sonoro, finisce per conquistare grazie a un susseguirsi di melodie tutte risplendenti. E’ un disco pop, è mainstream ed è anche un po' ruffiano, certo. Tuttavia, tanto di cappello a una band che è stata in grado di rigenerarsi, evitando di guardarsi alle spalle, per cercare il compiacimento onanista dell’autocitazione. Ascoltatelo e riascoltatelo, perché ve ne innamorerete.

VOTO: 8

 


 


Blackswan, lunedì 21/11/2022

venerdì 18 novembre 2022

MAMMA MIA - ABBA (Dig-it, 1975)

 


Per Bjorn Ulvaeus, chitarrista degli Abba, scrivere i testi delle canzoni era un vero e proprio supplizio. Conosceva poco l’inglese e non riusciva a mettere insieme liriche che lo soddisfacessero. Queste difficoltà nell’utilizzo della lingua anglosassone si protrassero per i primi due album rilasciati dalla band svedese, quando la composizione testuale veniva considerata dai quattro un male necessario, un’attività ovviamente indispensabile, ma che era comunque una parte risibile del processo creativo. L’idea di base, infatti, era quella di trovare un hook e poi di costruirci intorno qualcosa, non importa quanto senso avesse, purchè fosse cantabile. Fu solo dal terzo album in avanti, quando la conoscenza dell’inglese di Ulvaeus migliorò, grazie al fatto che la band aveva iniziato a viaggiare molto, che le cose cambiarono e i testi divennero una parte importante delle loro canzoni.

Accadeva spesso, poi, che quando la musica era pronta, il manager della band, Stig Anderson, si inventava titoli che suggeriva a Bjorn Ulvaeus e Benny Andersson, i quali iniziavano a scrivere le liriche partendo proprio da quella idea iniziale. Mamma Mia è il perfetto esempio di come lavoravano gli Abba in quel periodo: un titolo, scelto da Anderson, in lingua italiana (una frase che noi usiamo spesso per esprimere sorpresa), su cui la band ci ricamò sopra.

Il risultato fu un incredibile esempio di dissonanza lirica: una melodia contagiosa e orecchiabile, ma delle liriche tristissime, che parlano della fine di un amore e del dolore di dover lasciare andar via qualcuno che vorresti invece trattenere. Una donna che è stata tradita (“Sono stata ingannata da te”, “Sono stata arrabbiata e triste per le cose che fai”) e che è decisa a chiudere quella relazione che tanto la fa soffrire (“quindi ho deciso, deve finire”), anche se, poi, la lontananza fa ancora più male (“Sì, ho il cuore spezzato dal giorno in cui ci siamo lasciati. Perché, perché ti ho lasciato andare?”) e il rapporto diventa un tira e molla, un continuo prendersi e lasciarsi senza soluzione di continuità (“Non riesco a contare tutte le volte che ti ho detto che abbiamo finito. E quando te ne vai, quando sbatti la porta, Penso che tu sappia che non starai via troppo a lungo. Sai che non sono così forte”).  Perché spesso, anche un amore tossico ha un potere invincibile, che tiene stritolati in una morsa, liberarsi dalla quale è drammaticamente difficile. Quindi, ogni volta che cantiamo questa canzone a squarciagola, giustamente pervasi da una dose generosa di energia positiva, in realtà stiamo pronunciando parole tristissime, che sgorgano dal cuore di una donna ferita, prigioniera di un irresolubile dolore.

Meritano una menzione un paio di curiosità legate alla canzone. Nel 2010, il Partito popolare danese (destra xenofoba) ha rielaborato il testo di Mamma Mia in onore del capo dell'organizzazione, la signora Pia Kjaersgaard. La loro versione rivista è stata suonata spesso alle manifestazioni del partito, ma dopo che Benny Andersson e Bjorn Ulvaeus hanno minacciato di citare in giudizio il partito, è stato raggiunto un accordo extragiudiziale, con cui i danesi hanno rinunciato a usare il brano.La canzone, poi, ebbe un notevole successo commerciale in tutta Europa, arrivando nella top ten di numerosi paesi e, addirittura, fino alla seconda piazza delle chart inglesi. A rubarle il primato, fu, però, Bohemian Rhapsody dei Queen, che, guarda caso, nel testo contiene proprio l’esclamazione: Mamma mia!  




Blackswan, Venerdì, 18/11/2022

giovedì 17 novembre 2022

THE CULT - UNDER THE MIDNIGHT SUN (Black Hill Records, 2022)

 


Dopo sei anni di assenza (l’ultimo disco pubblicato è Hidden City del 2016), i Cult sono tornati, e questa è una bellissima notizia per tutti quei nostalgici fan (compreso il sottoscritto), che non hanno mai smesso di amarli, nonostante siano passati quasi quarant’anni dal loro esordio. Se distribuissero ricompense per la perseveranza, non c'è dubbio che il cantante Ian Astbury e il chitarrista Billy Duffy, membri storici della band, sarebbero tra i principali contendenti del premio. C’è infatti una lunghissima storia alle loro spalle e, tra alti e bassi, una longevità che non può lasciare indifferenti.

La band aveva sfondato commercialmente con il loro secondo album del 1985, Love, che includeva "She Sells Sanctuary" e “Rain”, due delle canzoni hard rock più memorabili di quell'anno (e forse del decennio). Da lì in avanti, la meritata fama, consolidata grazie ad altri due album notevolissimi, Electric (1987) e Sonic Temple (1989), che ampliarono l’esposizione mediatica dei Cult. Una musica, la loro, che era evidentemente ispirata ai gruppi rock classici degli anni '70, come i Led Zeppelin, ma che trovava nella voce profonda e cattiva di Asbury, nella chitarra rombante di Duffy, e in un mood spesso tenebroso, le peculiarità che ne elevavano la caratura, nonostante l’approccio derivativo.

Formatisi nel 1983 a Bradford, West Yorkshire, Inghilterra, il duo non ha mollato ed è sopravvissuto a due scioglimenti, che ne avevano messo a rischio l’esistenza in vita. Oggi, invece, tornano, più pimpanti che mai, con una formazione che comprende il batterista John Tempesta, entrato a far parte del gruppo nel 2006, il tastierista e chitarrista ritmico Damon Fox, che si è unito alla line up nel 2015, e il nuovo bassista Charlie Jones. La band ha lavorato a questo undicesimo album in studio, con le modalità che spesso hanno segnato i dischi nati nel periodo della pandemia, quattro quinti della formazione chiusi nei Rockfield Studios in Galles, dove i The Cult avevano registrato il loro album di debutto, e Astbury da remoto, a Los Angeles, negli studi dal produttore Tom Dalgety (Pixies, Ghost).

Niente di nuovo sul fronte occidentale: i Cult non hanno inventato nulla, e le otto canzoni in scaletta possiedono il potente suono hard rock degli inizi. Un marchio di fabbrica, insomma: sempre i Cult, ma nella loro versione migliore. Il disco si apre con il ritmo trascinante di "Mirror", batteria solida e un grande suono di chitarra, mentre cantano "we own the night", seguito da un ritornello che proclama "love, love, love". Un tuffo del cuore nelle nostalgiche acque del passato. "A Cut Inside" si apre con squillanti accordi di chitarra, mentre il basso e la batteria riempiono lo spazio aperto con un groove rimbombante, prima che tutto si sincronizzi in un solido ritornello, lasciando spazio a un grandioso assolo di chitarra di Duffy. E così via, in modo affidabile, traccia dopo traccia, sviluppando cliché hard rock con piglio potente e robusto, che conquistano l’ascoltatore senza se e senza ma.

Con intelligenza, i Cult cercano anche di cambiare ritmo e velocità, per evitare che la scaletta finisca per essere troppo ridondante. Così "Knife Through Butterfly Heart" ammorbidisce i toni con una commovente intro di basso, e Astbury riduce la sua voce a un semplice sussurro, creando una tensione melodrammatica magnificamente orchestrata, mentre la conclusiva title track, è una ballata cupa e malinconica, probabilmente una delle canzoni più belle mai scritta dalla band.

Anche se non ci sono hit clamorose come in passato, Under The Midnight Sun suona solido e ispirato, e ci restituisce una band in palla, che sembra aver ancora molto da dire. Un disco, è il caso di sottolinearlo, che spiega molto bene per quale motivo molti giovani amino ancora il rock, anche se i loro eroi hanno ormai sessant’anni e più. Per i “vecchietti” all’ascolto, invece, questo è semplicemente un ritorno a casa, a quegli affetti profondi che durano una vita.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, giovedì 17/11/2022

martedì 15 novembre 2022

SLEEPING SATELLITE - TASMIN ARCHER (EMI, 1992)


 

La carriera di Tasmin Archer, cantante inglese di origini indiane occidentali, è stata improntata su un profilo bassissimo. Understatement, lo chiamano gli inglesi, una scelta fortemente voluta dalla songwriter, che del successo e dell’esposizione mediatica, proprio non voleva saperne nulla. E non è un caso che il titolo suo disco d’esordio, Great Expectations, ispirato dall’omonimo romanzo di Charles Dickens (la cui morale è che i soldi non danno la felicità) suonasse come un promemoria per restare coi piedi per terra.

Il successo, tuttavia, arrivò lo stesso, grazie a Sleeping Satellite, primo singolo estratto dall’album, ma la Archer non cavalcò mai l’onda della fama, cercando sempre più spesso la penombra rispetto alla luce abbagliante dei riflettori. Dopo l’esordio, non pubblicò altro materiale fino al 1994, quando rilasciò uno splendido EP intitolato Shipbuilding, composto di sole quattro cover di Elvis Costello e alcune versioni live o alternative delle canzoni del suo primo album. Il suo disco successivo, Bloom (1996), seppur di buon livello qualitativo, non riuscì a entrare in classifica, il contratto con la Emi venne sciolto, e la Archer si prese qualche anno di pausa dalla musica, per tornare un decennio dopo con On, un lavoro passato totalmente sotto silenzio.

Sleeping Satellite, però, le regalò un ottimo ritorno di vendite e quella visibilità che, nelle interviste, continuava a ripetere che non vedeva l’ora finisse. Il brano fu scritto nel 1988 dalla Archer insieme a John Beck e John Hughes, un musicista che aveva incontrato mentre lavorava ai Flexible Response Studios di Bradford, in Inghilterra. I tre si legarono da una stretta amicizia, e sia Beck che Hughes diventarono membri stabili della sua backing band e coautori dei suoi brani: ogni canzone del suo primo album, infatti, è stata scritta a sei mani. All'inizio, il trio si faceva chiamare The Archers, ma la denominazione non faceva breccia nell’immaginario delle case discografiche. Fu così che Tasmin si presentò come solista, e nel 1990 ottenne un contratto con la Emi, con cui registrò, dopo un anno di lavoro, il proprio esordio. L’impatto su pubblico e critica fu estremamente positivo, grazie, come detto, al traino del singolo, Sleeping Satellite, che in quell’anno fini per intasare l’etere radiofonico di numerosi passaggi, Italia compresa.

Questo brano, così evocativo, suona come se parlasse di una relazione d’amore finita, bruscamente interrotta; in realtà, il suo significato è più letterale. Il "satellite dormiente" è la Luna, e la canzone parla di come gli esseri umani abbiano smesso di volerla raggiungere. Una volta che la "corsa allo spazio" fu vinta dagli Stati Uniti, che fecero sbarcare un uomo sulla luna nel 1969, con la missione Apollo 11, l'interesse per l'esplorazione lunare diminuì: per molti si trattava più di competizione che di scoperta. “Siamo volati sulla Luna troppo presto? Abbiamo sprecato l'occasione, nella fretta della gara”, canta la Archer. E ancora: “Abbiamo perso ciò che serve per avanzare? Abbiamo raggiunto il picco troppo presto? Se il mondo è così verde, allora perché urla sotto una luna blu?”.

Questi ultimi versi, poi, sottendono un significato ancora più profondo, e si riferiscono al modo in cui gli umani trattano il pianeta terra, la loro casa. Il riscaldamento globale non era una grande preoccupazione nel 1992, ma gli ambientalisti hanno avvertito che avremmo affrontato delle conseguenze se avessimo continuato a inquinare il pianeta. Inoltre, qualsiasi pensiero di colonizzare la Luna è stato a lungo dimenticato, lasciandoci tutti bloccati sulla Terra, ma allo stesso tempo predisposti a distruggerla. Pochi stavano pensando a queste cose in quel momento, motivo per cui il significato della canzone è rimasto latente, ma decenni dopo il messaggio si è rivelato preveggente, poiché la minaccia del cambiamento climatico si è rivelata molto reale.

Sleeping Satellite è una brillante canzone pop soul dalla bellezza ipnotica, ambigua perchè ricca di significati, e sorretta da un ritmo silenziosamente propulsivo che la rende tanto potente quanto seducente. Strano a dirsi, ma In America il brano ha ottenuto un modesto posizionamento in classifica, arrivando solo alla trentaduesima piazza, pur suonando per anni su molte stazioni radio, ben oltre la data di pubblicazione. Altra storia in Europa, dove in molti paesi raggiunse la top ten (in Italia si classificò terza), mentre in Inghilterra conquistò la prima piazza e valse alla Archer il premio come miglior esordiente britannico ai BRIT Awards nel 1993.

Curiosità. Dopo la pubblicazione del brano, si è creato uno stretto legame fra la ESA (Agenzia Spaziale Europea) e la cantante, che, di tanto in tanto, viene invitata a cantare per gli astronauti in missione per l’agenzia.

 


 

 

Blackswan, martedì 15/11/2022

lunedì 14 novembre 2022

BRUCE SPRINGSTEEN - ONLY THE STRONG SURVIVE (Columbia, 2022)

 


Sedici anni dopo We Shall Overcome: The Seeger Sessions, Bruce Springsteen torna con un nuovo disco di cover, questa volta dedicato a grandi classici soul e r’n’b. E come per il tributo a Pete Seeger, il primo pensiero è che questa sia stata una scelta dettata dall’amore per le proprie radici, per quella musica che da sempre fa parte del dna del Boss. Basta, infatti, spulciare fra la sua discografia live, ufficiale e non, per rendersi conto di quante volte questo genere abbia trovato spazio nelle infinite scalette di Springsteen. Perché questa è la musica della sua giovinezza, sono le canzoni con cui è cresciuto, è il suono più strettamente imparentato con la sua idea di rock’n’roll. D’altra parte la musica soul, come genere, è da sempre la più adatta a parlare il linguaggio dell’amore, della passione e degli struggimenti che ne derivano, e si sposa alla perfezione con la veracità di un musicista che ha sempre raccontato, affrontandole di petto, le emozioni, le sofferenze della vita di tutti i giorni, e quelle esistenze di piccolo cabotaggio di eroi del quotidiano, i cui patimenti si identificano col soul quasi per antonomasia.  

Come dicevamo, nel corso della sua carriera, l'affetto di Springsteen per questo genere è sempre stato evidente e gran parte del suo approccio musicale e vocale è stato forgiato sulle qualità distintive della musica nera d’antan. Considerato tutto questo, la sua scelta non sorprende più di tanto, come non sorprende la qualità di un disco, il ventunesimo della sua carriera, che trabocca passione.

Only The Strong Survive è un progetto nato da un grande amore, è una raccolta di lettere di ringraziamento spedite a ritroso nel tempo per omaggiare artisti che sono stati fondamentali nella formazione musicale di Springsteen, e che, troppo spesso, sono stati dimenticati, vivi solo nella memoria e nella discografia di qualche appassionato. In Tal senso, Only The Strong Survive, al netto della sua cristallina bellezza, è un disco volutamente divulgativo, l’invito ai fan e, soprattutto, alle nuove generazioni, di tornare a scoprire autentiche gemme, che meritano una sorte migliore dell’oblio.

C’è eleganza e classe infinita, in queste riletture, e un tocco di consapevole ironia nella mise en place che replica lo stile e i colori di quei gloriosi anni (i video, il packaging del supporto, e quel mezzo sorriso beffardo sulla copertina, che sembra dire: “guardate un po’ cosa vi ho combinato!”); ma, come da sua abitudine, quando si tratta di eseguire cover di canzoni di altri artisti, Springsteen non cerca mai di imitare pedissequamente gli originali, prova, semmai, a onorare i brani dandogli una nuova incarnazione. Nessun manierismo, dunque: il Boss maneggia le quindici canzoni in scaletta con rispetto filologico, ma vestendole con i propri abiti di scena, e con quel timbro vocale inconfondibile, capace al contempo di scartavetrare i passaggi più morbidi e di sfiorare l’anima con il calore di languide carezze.

Ciò che colpisce maggiormente, nonostante gli arrangiamenti raffinati (in cabina di regia c’è Ron Aniello, che aveva già messo mano ai precedenti dischi del Boss) è la spontaneità di un’operazione che si gusta dalla prima all’ultima nota: è palpabile un diffuso senso di dolce nostalgia e, al contempo, la forza dirompente di una coralità divertita, quello stare sugli strumenti e sul microfono con il sorriso sulle labbra e un traboccante entusiasmo nel cuore.

E’ davvero difficile indicare il meglio in un disco in cui ogni episodio brilla di luce propria, ma se proprio bisogna fare una scelta, la title track, Nightshift (il brano con cui i Commodores, nel 1985, omaggiavano due mostri sacri quali Marvin Gaye e Jackie Wilson), The Sun Ain't Gonna Shine Anymore di Frankie Valli (un brano tanto bello che era davvero difficile rendere ancora più bello), la sbarazzina Do I Love You (Indeed I Do) di Frank Wilson e Don't Play That Song (portata al successo da Ben E. King e Aretha Franklin) sono riletture a dir poco scintillanti, canzoni che si lasciano il passato alle spalle, per vivere nel presente, hic et nunc, grazie a una nuova, vibrante anima.

Only The Strong Survive è un regalo che un incomparabile maestro della canzone americana fa a se stesso e ai propri fan, è una celebrazione appassionata del potere della musica e della sua capacità di attraversare i decenni senza perdere un briciolo del suo potere catartico, riuscendo a creare una stretta connessione fra diverse generazioni di ascoltatori. Oggi i dischi di cover sono all’ordine del giorno, ma non è così scontato riuscire a reinterpretare brani altrui, facendoli propri. Con così tanto entusiasmo, con così tanta affettuosa cura. Quindi, lasciate perdere le stupidaggini che ascolterete dalla bocca dei detrattori del Boss, quelli che ne parlano male a prescindere, per supponente snobismo e ignoranza. Abbandonatevi, invece, a questo disco e a tutta l’allegria che porta: è già Natale, e sotto l’albero troverete un dono bellissimo.

VOTO: 8

 


 

 

Blackswan, lunedì 14/11/2022

venerdì 11 novembre 2022

THE BIG MOON - HERE IS EVERYTHING (Fiction Records, 2022)

 


Difficile trovare una copertina che espliciti in modo così inequivocabile i contenuti del disco che racchiude. La foto, infatti, immortala la frontwoman del quartetto londinese delle The Big Moon, Juliette Jackson, che è rimasta incinta e ha dato alla luce il suo primo figlio durante l'incerto e spaventoso primo anno della pandemia. L'ansia della gravidanza, le notti insonni, i problemi dell'allattamento al seno e la preoccupazione che la maternità potesse in qualche modo mettere a rischio la sua carriera di musicista, sono i temi documentati in undici istantanee meravigliosamente poetiche, che, come le pagine di un diario, dischiudono una finestra narrativa sui giorni di una maternità affrontata in uno dei momenti più incerti e inquietanti della storia moderna.

Eppure, il tratto distintivo del terzo album delle The Big Moon è che, nonostante l'argomento specifico, Here Is Everything risulta un disco godibilissimo anche per coloro che non hanno mai visto un bambino in vita loro. Se il punto di partenza è chiaro, è, infatti, altrettanto evidente che la magia delle undici canzoni in scaletta spazi ben oltre il tema della gravidanza, e sia, soprattutto, l’opera collettiva di una band mai così affiatata come oggi.

Se, infatti, inizialmente, a causa delle obbiettive difficoltà (non dimentichiamoci il lockdown), le registrazioni non davano i risultati auspicati, Soph Nathan (chitarra), Fern Ford (batteria) e Celia Archer (voce, basso) non hanno messo mai pressione all’amica Juliette, si sono prese il tempo necessario e hanno lavorato con calma, fino a completare quello che è, probabilmente, il loro disco più intenso. Non solo un disco sulla maternità, quindi, ma anche sull’amicizia e sull’amore incondizionato. Una sorta di diario, dicevamo, ma anche un percorso di consapevolezza, per raccontare sentimenti che spesso si danno per scontati e che, invece, diventano incredibilmente indispensabili nei momenti di difficoltà.

Here Is Everything si apre con "2 Lines," una canzone che parla del risultato positivo al test di gravidanza e di tutti i dubbi che ne conseguono, nella consapevolezza, questa sì, che la vita sta cambiando. E’ anche, però, la prova di quanto bene hanno lavorato le quattro ragazze britanniche, capaci di maneggiare la materia indie pop con una freschezza e un lirismo da autentiche fuoriclasse. Una maestria confermata anche dalla successiva "Wide Eyes", una luccicante canzone indie pop, così perfetta da far venire le lacrime agli occhi. Lo sfarfallio delle tastiere e il nerbo della chitarra acustica strapazzata introducono una melodia accattivante e a presa rapida, sulle cui note la Jackson canta di come sia diverso il mondo visto con gli occhi degli altri, gli occhi del suo bambino, certo, ma anche gli occhi delle sue compagne di avventura, che le hanno permesso di vedere come queste canzoni, in cui lei non riponeva alcuna fiducia, fossero in realtà le migliori scritte fino a oggi.

Così Here Is Evrything finisce per essere un disco che, pur partendo da un’esperienza personale, diventa universale, perché i grandi sentimenti di cui tratta si adattano benissimo a tutti gli ascoltatori. Dal punto di vista sonoro, poi, le undici canzoni in scaletta replicano il marchio di fabbrica della band, sono indie pop al 100%, ma mai, come ora, stratificato e ricco di sfumature: dolci ed essenziali ballate per pianoforte, ("Satellites"), melodie lineari spolverate di americana ("Sucker Punch"), giocosa effervescenza che ammicca al dancefloor ("Daydreaming") e pulsante synth-pop ("Magic") sono solo alcuni degli accenti con cui viene declinata la materia.

Se il debutto della band (Love In The 4th Dimension) suonava come una giocosa festa di innocenza indie, e Walking Like We Do del 2020 esibiva una maggiore maturità, a scapito, forse, dello scintillio dell’esordio, Here Is Everything si pone come un disco creativamente ambizioso, più curato, ma non per questo meno immediato. Semplicemente, spinge il quartetto verso una superiore consapevolezza, con rinnovato senso del divertimento, e senza perdere, soprattutto, un grammo di quella sensibilità che permette alle quattro ragazze britanniche di continuare a scrivere piccole grandi canzoni pop.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, venerdì 11/11/2022

martedì 8 novembre 2022

FOLLOW YOUR ARROW - KACEY MUSGRAVES (Mercury Nashville, 2013)

 


Ci sono canzoni apparentemente innocue, la cui leggerezza è sinonimo di divertimento, che, però, loro malgrado, finiscono nell’occhio del ciclone. Lo sa bene Kacey Musgraves, giovane songwriter texana, sei volte vincitrice ai Grammy, che quando pubblica Follow Your Arrow, uno scanzonato country pop e undicesima traccia del suo album d’esordio, Same Trailer Different Park (2013), viene travolta da un’infinità di polemiche. Con lei se la prendono soprattutto i conservatori e gli appassionati di country, in parte espressione di quell’America bigotta e tradizionalista, che non vede di buon occhio le aperture progressiste di una musicista, che parla spesso di diritti civili e non perde occasione per schierarsi dalla parte delle minoranze.

E pensare che, inizialmente, la Musgraves aveva scritto, quello che successivamente sarebbe diventato il testo della canzone, come una piccola poesia di accompagnamento a un ciondolo a forma di freccia, regalato a un’amica che si stava trasferendo per quattro mesi a Parigi, ed era terrorizzata dall’idea, perché non conosceva la lingua francese. “Segui la tua freccia”, scrisse Kacey, e ancora: “Bacia un sacco di ragazzi!”. Due frasi, queste, che le rimasero impresse e che furono l’abbrivio per completare le liriche di una melodia che le frullava in testa da tempo.

Fu così che la songwriter texana concepì una canzone che fosse una sorta d'invito ai suoi fan di rimanere fedeli a se stessi, di seguire la propria strada e le proprie pulsioni, senza tener conto dell’ipocrisia della società e del giudizio della gente. E lo fece con parole ironiche, brillanti, che trovavano ancora più forza nell’andamento allegro di un brano che si canticchia fin dal primo ascolto.

Quelle parole, però, erano un affronto alla società conservatrice, e a quei valori tradizionali, che l’America puritana fa propri anche attraverso la musica country. Da questo punto di vista, la canzone fece rizzare i capelli sulla testa a mezza Nashville, e non solo. L'intenzione della songwriter era quella di concentrarsi sull'ipocrisia della società, a partire dal suo distico di apertura, che è un attacco frontale all’istituzione del matrimonio: "Se ti risparmi per il matrimonio, sei una noia. Se non ti risparmi per il matrimonio sei una persona orribile".

Lo scopo era quello di mettere in evidenza l’insensatezza dei giudizi delle persone, che ne hanno per tutti, qualunque cosa uno faccia: “Se non vuoi bere, allora sei un puritano. Ma ti chiameranno ubriacone, non appena lo fai. Se non riesci a perdere peso, allora sei solo grasso, ma se ne perdi troppo, allora sei in crack. Sei dannato se lo fai, e sei dannato se non lo fai”. Un circolo vizioso, dunque, dal quale è impossibile uscire. Pertanto, non resta che fregarsene e vivere la propria vita seguendo la direzione indicata dalla freccia del cuore:” Quindi, fai un sacco di rumore, Bacia un sacco di ragazzi, o bacia molte ragazze, se è qualcosa che ti piace… Arrotolati una canna, oppure no, segui la tua freccia, ovunque punti”.

Apriti cielo! In poche righe, un riferimento positivo all'omosessualità e un esplicito invito a fumare cannabis. E’ per questo che la casa discografica della cantante, la Mercury Nashville, si rifiutò inizialmente di pubblicare la canzone come singolo, salvo poi cedere alle insistenze della Musgraves. E quando la canzone fu pubblicata, il tradizionalissimo mondo del country andò in subbuglio, molte radio si rifiutarono di passare il brano e ai Country Music Awards del 2013, la famosa frase "Roll up a joint" venne censurata, perché troppo controversa per essere ascoltata alla televisione in prima serata.

Dopo tante ingiuste critiche, alla fine, la ragazza texana, ebbe però il suo riscatto: Rolling Stone ha inserito il brano alla posizione 39 delle 100 canzoni country più belle di tutti i tempi e Follow Your Arrow è stata nominata canzone dell’anno agli CMA nel 2014. Al momento di salire sul palco per ritirare il premio, la Musgraves disse: “Ragazzi, vi rendete conto di cosa significa questo per la musica country?" Questo premio significa molto, perché il nostro genere è stato costruito su canzoni semplici e buone sulla vita reale, e Follow Your Arrow lo è”.

 


 

 

Blackswan, martedì 08/11/2022

lunedì 7 novembre 2022

TOM CHAPLIN - MIDPOINT (BMG, 2022)

 


Non sono passati nemmeno vent’anni da Hopes And Fears (2004), esordio dei britannici Keane, band appartenente alla seconda ondata del brit pop, il cui suono era caratterizzato dall’assenza delle chitarre. Eppure, sembra passato un secolo. Un po' perché i Keane, pur continuando a fare buona musica, hanno perso un po' del grande appeal che avevano guadagnato quando il fenomeno era all’apice, e un po' perché i componenti della band hanno seguito anche progetti paralleli, che li hanno allontanati periodicamente dalla casa madre.

Il più talentuoso tra i quattro membri è sicuramente il cantante Tom Chaplin, la cui carriera solista, iniziata nel 2016 con la pubblicazione dell’ottimo The Wave, non è mai uscita dall’anonimato della nicchia, tanto che verrebbe da dire che Chaplin è probabilmente uno dei cantanti e interpreti più sottovalutati della sua generazione. Ed è un vero peccato, perché il musicista originario di Battle è un autore sensibile e ispirato, capace di plasmare sublimi melodie pop attraverso una sincerità espressiva unica nel suo genere.

Se The Wave era una potente raccolta di canzoni con cui il songwriter rifletteva a cuore aperto, a volte con dettagli espliciti, sulle sua lotta con la dipendenza, sui conseguenti problemi mentali e le sue turbolente relazioni sentimentali, questo nuovo Midpoint, sotto il profilo dell’intensità e della profondità delle liriche, non è da meno. Si è solo spostato il baricentro della narrazione: dopo essersi messo a nudo e analizzato nel profondo, oggi, Chaplin, che ha compiuto quarantatre anni, si sofferma a riflettere sulla mezza età, lo scorrere del tempo, la nostalgia per il passato e il dolore causato dalla lontananza dagli affetti, unica certezza della sua vita.

Un mood come sempre colloquiale e intimo, che si dipana attraverso tredici canzoni di pop cantautorale, meditabondo, malinconico, aggraziato e dolcissimo. Tra acustica e morbidi inserti di elettronica, Chaplin si racconta nuovamente e con una nuova consapevolezza, esponendo senza filtri dubbi, paure, nevrosi, ma con uno sguardo meno pessimista, che trova forza nella speranza, ed energia nella carica vitale data dagli affetti.

E’ questo il tema cardine del disco, immediatamente sviluppato dalla bellezza volatile dell’opener "All Fall Down", un inizio solo apparentemente di basso profilo, che mostra la straordinaria capacità del cantante di costruire ballate senza tempo. La sua voce si innalza senza sforzo su una semplice melodia accompagnata dal pianoforte e con un cristallino falsetto ricorda all'ascoltatore che "tutti cadiamo giù", ma che vicino a ciascuno c’è chi può rallentare la caduta e mostrare la strada per tornare a casa. Lo sfarfallio celestiale con cui inizia questa canzone prefigura anche ciò che arriverà poi in termini di strumentazione e trame sonore, sempre stratificate, sempre intricate, eppure sempre tanto immediate, da raggiungere il cuore in un lampo.

E’ quasi un miracolo la maestria con cui Chaplin riesce a trasmettere in modo soave messaggi potenti e riflessioni decisive, tenendo sempre l’ascoltatore in bilico sul confine che separa l’estasi dal tormento. E’ il caso, ad esempio, di "Black Hole", una filastrocca che si apre con le risate dei bambini e il canto degli uccelli, e i cui cori estatici avvolgono di dolcezza un brano che parla della vita che inevitabilmente volge al termine, suggerendo di prepararci all’inevitabile, senza paura, perché solo così si può vivere con serenità il tempo che resta. E per dare ulteriore forza a questi pensieri, riesce a incastonare nel finale della canzone, e in perfetta armonia con tutto il resto, un’inaspettata citazione dal "Requiem" di Mozart.

Come sia possibile che un disco di questo livello non se lo sia filato praticamente nessuno, è un mistero. Non c’è uno sbaffo, un virgola fuori posto. E non parlo solo di forma, ma soprattutto di sostanza, di melodia, di canzoni. Tutte belle da spappolare il cuore. Il pianoforte drammatico di "Rise And Fall", che evoca i migliori Radiohead, la tensione magistrale che avviluppa la title track fino a uno struggente finale corale, gli arrangiamenti ariosi e il crescendo, in cui si rincorrono pianoforte e chitarra, del primo singolo "Gravitational", o il velluto sui cui scorre "New Flowers", in cui Chaplin riflette sulla sua età, cantando di voler fare un passo indietro e vedere crescere nuovi fiori, sono autentiche gemme. E proprio "New Flowers" è uno dei (tanti) momenti toccanti del disco, in cui si riesce a coglie il punto di vista di Chaplin, quello di un uomo che ha vissuto una vita veloce e ora ha imparato a fermarsi, e ad apprezzare ciò che ha lasciato alle spalle e ciò che, oggi, riempie i suoi giorni.

Il disco si chiude con "Overshoot", un brano scarno, asciutto, la strumentazione spoglia all’inverosimile, che mostra la potenza vocale di Chaplin, il cui timbro cristallino raggiunge altezze vertiginose. Chaplin canta come se non ci fosse un minuto in più da vivere, come se tutto dipendesse da quella voce che fa tremare i padiglioni auricolari e l’anima. E inevitabilmente il groppo arriva alla gola e le lacrime inumidiscono gli occhi.

Midpoint è un disco molto meno diretto di The Wave, sia dal punto di vista lirico che strumentale, procede lentamente, si prende il suo tempo, trasuda passione, disegna melodie coloratissime che, però, spingono inevitabilmente verso quel mondo, in cui domina il blu della malinconia. Ogni canzone è coinvolgente e lascia con il cuore gonfio d’amore per un cantante, interprete e cantautore che, purtroppo, solo in pochi avranno la fortuna di ascoltare. Se foste tra i fortunati a voler approfondire, non indugiate oltre: prendetevi del tempo, abbandonatevi al flusso delle emozioni e poi raccontatelo in giro. Che questo è uno dei dischi più belli del 2022.  

VOTO: 9




Blackswan, lunedì 07/11/2022

venerdì 4 novembre 2022

MR. BLUE SKY - ELO (Jet Records, 1977)

 


Nel 2020, Mr. Blue Sky degli Elo è stata votata, dagli ascoltatori di Greatest Hits Radio, una delle emittenti radiofoniche più importanti del Regno Unito, come la canzone più allegra di tutti i tempi. Si può essere d’accordo o meno con il sondaggio di GHR, ma è fuor di dubbio che questo piccolo gioiellino pop sia in grado di strappare il sorriso fin dal primo ascolto.

D’altra parte, una canzone che inizia con i versi “Sun is shinin' in the sky, There ain't a cloud in sight, It's stopped rainin' everybody's in the play, And don't you know, It's a beautiful new day” e che si sviluppa su una melodia “beatlesiana” zuccherina come una caramella alla frutta, è realmente in grado di dare una svolta decisiva alla giornata di chi l’ascolta. E’ un tonico, una pozione corroborante e ricostituente, un dolce lenimento alle asprezze della vita.

La canzone, che chiude la prima facciata del secondo disco di cui è composto Out Of The Blue (facciata nota anche con il titolo di Concerto For A Rainy Day), fu composta da Jeff Lynne quando si trovava in Svizzera, paese in cui si era trasferito per trovare l’ispirazione per scrivere il seguito di A New Wolrd Record, sesto album della band, finito nelle top ten di Stati Uniti e nel regno Unito, l’anno precedente, nel 1976.

Lynne e i suoi compagni d’avventura avevano noleggiato gli strumenti in un negozio di Ginevra e, quindi, si erano spostati in un silenzioso chalet di montagna, situato presso un paesino con poche anime e due negozietti in croce, dove nessuno sapeva chi fossero quei capelloni provenienti dall’Inghilterra.

Tuttavia, l’atmosfera incantevole dell’amena località svizzera era resa molto meno bucolica da un tempaccio che non voleva proprio andarsene. Lynne rimase chiuso nello chalet per due settimane, mentre fuori il clima era buio e nebbioso, senza riuscire a scrivere una sola nota. Poi, finalmente, una mattina, ecco splendere il sole, mentre in lontananza lo spettacolo delle Alpi riluceva di un chiarore mozzafiato. Fu quello l’abbrivio per l’ispirazione tanto agognata: in quindici giorni, Lynne scrisse quattordici canzoni, tra cui appunto, Mr. Blue Sky, uno dei più grandi successi di sempre della band.

Una canzone semplice e spensierata, quasi una filastrocca per bambini, in cui le immagini del cielo blu e del sole splendente, trasmettevano un euforico sentimento di vitalità.

Ma c’è di più, perché questa leggerissima canzone nascondeva nel titolo, come per altri brani di Lynne, la passione del musicista per il calcio, in particolare per la sua squadra del cuore, il Birmingham Football Club, di cui era, ed è, tifosissimo. La compagine, infatti, viene chiamata dai propri fan semplicemente “The Blues” (per via del colore delle maglie), e Mr. Blue Sky, negli intenti di Lynne, era anche un modo per omaggiare l’amore calcistico di una vita. Non è un caso, quindi, che il brano degli Elo risuoni dagli altoparlanti dello stadio St.Andrew’s, prima dell’inizio di ogni partita casalinga della squadra.

 


 

 

Blackswan, venerdì 04/11/2022

giovedì 3 novembre 2022

THE DEAD DAISIES - RADIANCE (SVP, 2022)

 


Sesto album in nove anni per i The Dead Daisies, un supergruppo che somiglia tanto a un porto di mare, dal momento che nella line up della band sono transitati (tanti) musicisti straordinari, da Darryl Jones (Rolling Stones) a Dizzy Reed (Guns'n'Roses) e John Corabi (Motley Crue), solo per citarne alcuni. A capo della band, da due dischi a questa parte, è Glenn Hughes (Deep Purple, Trapeze, Black Sabbath), in veste di vocalist e bassista, ulteriore fiore all’occhiello di quello che poteva essere considerato un esperimento estemporaneo e, invece, a dispetto dei continui avvicendamenti, ha dato prova di inusuale stabilità.

Questo Radiance esce dopo l’acclamato Holy Ground (2021) e la formula, un hard rock di matrice settantiana, tutto riff, assoli e potenza, oltre a un importante dose di blues a impacchettare la confezione, resta immutata. Radiance è un lavoro di ottima fattura, tecnicamente ineccepibile, a cui forse manca un filo di originalità, a fronte di un mestiere consolidato e di un songwriting con il pilota automatico innestato. Queste, tuttavia, sono considerazioni risapute, che valgono un po' per tutti gli album che lo hanno preceduto. Quel che manca a questo nuovo lavoro è, semmai, l’ispirazione, quel quid, insomma, che rende un lavoro derivativo credibile ed emozionante.

La caratura dei musicisti, per carità, non si discute: l’accoppiata Aldrich e Lowy alle chitarre è di quelle che non hanno bisogno di presentazioni, la sezione ritmica (oltre Hughes c’è il redivivo Brian Tichy) martella come da canovaccio. L’ex Deep Purple, tuttavia, pur essendo una delle migliori ugole in circolazione, almeno per quanto riguarda il genere, risulta essere un po' sottotono, non all’altezza di precedenti performance, forse a causa delle tonalità basse delle composizioni.

A Radiance, poi, mancano brani che alzino il livello della scaletta, alcuni ritornelli sono fulminanti ("Hypnotize Yourself" e "Shine On"), anche perché questa è una band capace di lanciare ganci melodici irresistibili, ma le canzoni, questa volta, restano nell’ombra di un’anonima prevedibilità e, talvolta, perdono slancio a causa di una struttura che spesso spegne gli assalti in digressioni più lente.

Certo, il suono delle chitarre è magnifico per tutta la durata dell’album (l’assolo in "Courageous" è da capogiro), l’idea di aprire "Kiss The Sun" con l’uso di un talkbox è suggestiva, e la conclusiva "Roll On", un midtempo molto melodico, avvolto in un bel arrangiamento d’archi, è decisamente un bel modo di chiudere la scaletta. Ma è un po' troppo poco per una band che, basta guardarsi dietro, possiede potenzialità enormi. Non c’è nulla di inascoltabile in Radiance, e se siete amanti del genere, l’ascolto resta godurioso, ma dai Dead Daisies bisogna pretendere ben altro e qui, spiace dirlo, siamo appena sopra il minimo sindacale.

VOTO: 6,5

 


 

Blackswan, giovedì 03/11/2022