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martedì 31 gennaio 2023

ENUFF Z'NUFF - FINER THAN SIN (Frontiers, 2022)

 


Gli Enuff Z’Nuff hanno subito così tanti cambi di formazione, che a tenere il conto c’è da farsi girare la testa; eppure, ciò nonostante, se c’è una band che, caparbiamente, continua ad andare per la sua strada, sono proprio loro, grazie all’uomo che ha dato inizio a tutto, il bassista, e dal 2016, anche cantante, Chip Z'Nuff.

Finer Than Sin è il diciassettesimo album in studio della band, che non molla un colpo dal lontano 1989, anno della pubblicazione dell’omonimo esordio, e continua a dimostrarsi un progetto valido, lontano dalle rotte commerciali, ma sempre in grado di rilasciare album interessanti, forse non più al livello degli anni d’oro (gli anni ’90, per intenderci), ma sicuramente di valore artistico indiscutibile.

Questo nuovo album testimonia la longevità e, soprattutto, la tenuta artistica della band, come già era evidente nelle ultime pubblicazioni in ordine di tempo, e cioè gli ottimi Brainwashed Generation (2020), album decisamente più pop, e Hardrock Nite (2021), il disco interamente dedicato a cover di brani dei Beatles.

Le ombre oscure nella musica e nei testi di ZNuff restano un marchio di fabbrica, come la voce di Chip, che in "Catastrophe", affronta il tema della droga attraverso parole che sembrano essere rivolte all’ex vocalist della band, Donnie Vie. Un tocco crepuscolare che non manca anche all’atonale e inquieta "Steal the Light", mentre altrove il sognwriting si fa più brillante, come in "Intoxicated", la cui elegante melodia, costruita su una splendida linea di basso discendente, richiama alla mente i migliori Cheap Trick.

Gli Enuff Z’Nuff continuano a fare con consapevolezza il proprio lavoro, e la miscela di glam, hard rock, power pop e psichedelia, per quanto risaputa, è ancora capace di risultare intrigante, senza mostrare la corda dovuta ai tanti decenni attraversati dalla band. Così, quando parte "Hurricane", con il suo carico di psichedelia pop guidata da archi sintetizzati e dal dolce suono dell’armonium, i vecchi leoni riescono ancora a stupire, dimostrando un’invidiabile forma e una scrittura che centra il bersaglio con disarmante semplicità.

L’aspetto migliore di questo lavoro risiede, in buona parte, anche in un’ottima produzione, che consente a Finer Than Sin di scostarsi dal suono prevedibile di tanti dischi di rock melodico, anche se, alla fine, tuttavia, qualche brano più rock e grintoso avrebbe giovato alla causa. In scaletta, anche la cover di "God Save The Queen" (omaggio alla defunta regina?) dei Sex Pistols, che, comunque, non aggiunge o toglie alcunchè a una prova più che dignitosa.

VOTO: 6,5

Genere: rock

 


 

 

Blackswan, martedì 31/01/2023

lunedì 30 gennaio 2023

THE JORGENSENS - AMERICANA SOUL (Paramour Records, 2022)

 


L’inizio della storia dei The Jorgensens risale al 2014, l’anno in cui la cantante e songwriter, Brianna Tagg, incontra il chitarrista e produttore, Kurt Jorgensen, nella città di St. Paul, in Minnesota. Fra i due scocca immediatamente una scintilla artistica che li ha porta a collaborare, a scrivere canzoni insieme per registrare un album come duo. Entrambi, inoltre, escono da un complicato periodo di dipendenza dall’alcool, circostanza, questa, che rafforza il loro legame affettivo, culminato, prima, in una relazione, poi, nel matrimonio. Un rapporto solidissimo, come quello che, talvolta, si instaura fra anime gemelle, e che è diventato il carburante nobile che ha alimentato la scrittura delle loro canzoni e le successive esibizioni dal vivo.

Strada facendo, poi, hanno ampliato il loro duo trasformandolo in una vera e propria band, arruolando alla causa Andra Lee Suchy (voce), Brenda Lee King (basso), Jeff King (sassofono, clarinetti), Jeff Levine (tromba), Mark O'Day (batteria) e C Harris (percussioni). Il risultato è una compagine dinamica e agile, in grado di giocare con stili e ritmi diversi, dimostrando quanto possa essere avvincente e creativa la musica roots contemporanea, se sei abile a giocare con il groove, a creare armonie vocali seducenti, e se, oltre a ottime canzoni, riversi nei solchi, tanto, tanto entusiasmo.

Guidata dalle performance vocali dei due coniugi Jorgensen, la band, in Americana Soul, ha creato un’accattivante miscela delle diverse influenze dei suoi componenti, in un progetto levigato con cura artigianale e armonizzato dalla freschezza di chi si diverte a suonare la musica che ama. Il risultato è una scaletta breve ma appassionata, in cui confluiscono blues, rock, country e jazz, convivendo in un modo naturale e spontaneo, che riesce a enfatizzare le connessioni fra i vari generi, senza che l’insieme risulti pretenzioso o ridondante.

Americana Soul è un disco onesto e verace, privo di spocchiose velleità filologiche, ma semplicemente acceso dalla passione di chi vuole onorare la musica roots, dandone una personalissima interpretazione, che riesca a suonare al contempo classica e moderna.

L’opener "Old Black Crow", che è anche il loro primo singolo, indica il percorso con chiarezza: atmosfere blues, sciabolate di chitarra slide, la voce roca di Jorgensen, un brillante tappeto di fiati, un efficace ritornello R&B e un inaspettato groove latin jazz nel finale. Equilibrio perfetto, resa massimale.

La successiva "Miles" è, invece, una road song, di quella da ascoltare a tutto volume con i finestrini dell’auto abbassati e il vento tra i capelli. Brianna si mette al volante dell’auto e conduce la band nel cuore di Memphis con la sua voce sensuale, mentre il marito disegna i consueti arabeschi slide e i fiati pompano energia e divertimento. Il funky "Boom Boom Boom" è spensierato e furbetto, mette in luce le doti vocali di Jorgensen e fonde l’acustica in primo piano con un ottimo lavoro di fiati e di controcanti nelle retrovie.

E siamo solo all’inizio di un pugno di canzoni che si fanno amare fin dal primo ascolto, attraverso un percorso variegato i cui convivono il blues notturno e le fumose atmosfere jazzy di "Hey Baby", il groove trascinate di "Shake It", attraversata da una simbiotica connessione fra banjo e violino, la slide classicissima che insuffla blues e calore in "Leave Your Light On" (con i coniugi a dividersi il microfono) e il folk malinconico della conclusiva "State Line".

Se lo scopo, come richiamato dal titolo dall’album, era quello di fondere la musica nera e bianca statunitense in un tutt’uno che rendesse omaggio e onore alla tradizione, la missione dei Jorgensens può dirsi compiuta. Le diverse influenze si colgono proprio tutte e il bilanciamento con cui vengono accostate è l’elemento che eleva Americana Soul ben oltre gli standard dell’esercizio di stile. In questi solchi troverete passione e consapevolezza, e, soprattutto, quel sorriso divertito che rende, sempre, tutto più bello.

Voto: 8 

Genere: rock, blues, country




Blackswan, lunedì 30/01/2023

venerdì 27 gennaio 2023

ROSANNA - TOTO (Columbia, 1982)

 


Toto IV, uno dei più grandi successi commerciali degli anni ’80 (5 milioni di dichi venduti in tutto il mondo) si portò a casa ben sei Grammy Awards (produzione dell'anno, album dell'anno, migliore tecnica di registrazione), tre dei quali, conquistati grazie al primo singolo Rosanna (registrazione dell’anno, migliore arrangiamento strumentale, miglior arrangiamento vocale), probabilmente la canzone più famosa della band losangelina.

Il brano prese il titolo dal nome dell'attrice Rosanna Arquette (Cercasi Susan Disperatamente, Fuori Orario, Pulp Fiction, Crash, etc.) che all'epoca usciva con il tastierista dei Toto, Steve Porcaro. Tuttavia, non fu Porcaro a scrivere la canzone, bensì il leader David Paich, il quale, tra l’altro, nemmeno si ispirò alla figura della fidanzata dell’amico. Il brano, infatti, fu dedicato da Paich a un suo amore del liceo, una vecchia fiamma, che evidentemente il cantante e tastierista serbava ancora nel cuore come dolcissimo ricordo. Quando occorse scegliere un titolo da dare alla canzone, Paich pensò che Rosanna, la nuova ragazza del suo migliore amico, fosse un titolo musicalmente perfetto per il brano appena concepito, e fu così che la Arquette passò alla storia, dando il nome a una straordinaria hit che, in realtà, parlava di un’altra donna.

Tra l’altro, sul disco, Rosanna venne cantata da Bobby Kimball, e quasi tutti i fan si convinsero che fosse lui ad avere una relazione con la Arquette. Quindi, ricapitolando: la canzone fu scritta da David Paich, ispirato dal nome della ragazza di Steve Porcaro, ma cantata dal cantante Bobby Kimball. Un gran casino, insomma.

Il brano non portò molta fortuna alla coppia Porcaro/Arquette, che si lasciò solo poco tempo dopo la pubblicazione del singolo. La Arquette, peraltro, aveva una vera e propria passione per i musicisti, visto che si legò sentimentalmente, oltre che a Porcaro, anche al compositore e regista Tony Greco, a Peter Gabriel, che scrisse per lei In Your Eyes, e infine a James Newton Howard che, guarda caso, era il direttore della Martyn Ford Orchestra, che compare in alcune tracce proprio di Toto IV. 

La verve dell’incipit e il ritornello orecchiabile sembrano adattarsi a un’euforica canzone d’amore, così come anche la prima strofa lascerebbe intendere: “Tutto quello che voglio fare quando mi sveglio la mattina è guardarti negli occhi”. In realtà, il brano racconta di un amore finito. Lei, infatti, se n’è andata da quasi un anno perché insoddisfatta della relazione (“Non sapevo che stavi cercando più di quanto potessi mai essere io”) e lui, nonostante il tempo passato, soffre ancora tantissimo (“Non avrei mai pensato che perderti potesse far male così tanto”). Ecco, dunque, un altro esempio di canzone che pur suonando leggera e orecchiabile, nasconde fra i suoi solchi il più classico dei terremoti sentimentali.

Rosanna, oltre che dall’incantevole melodia, fu trainata al successo anche dalla videoclip diretta dal regista Steve Barron, e interpretata dalla sensuale Cynthia Rhodes, che altri non è se non Penny Johnson, la protagonista femminile di Dirty Dancing (1987). E, vedi un po’ i casi della vita, nel video compare anche Patrick Swayze, anche se è molto meno visibile. Se guardate con attenzione, però, potreste individuarlo: è lui che indossa la giacca rossa tra i corteggiatori di Rosanna.

Una curiosità. I primi sette album dei Toto contengono ognuno almeno una canzone con il nome di una ragazza nel titolo. La maggior parte di queste canzoni sono state scritte da David Paich, che lo ha fatto come una sorta di tributo a suo padre, Marty Paich, che ha arrangiato l'album di Ray Charles, Dedicated to You, un disco in cui ogni brano aveva il nome di una ragazza nel titolo.

 


 

 

Blackswan, venerdì 27/01/2023

giovedì 26 gennaio 2023

THUNDERSTRUCK - AC/DC (Atlantic, 1990)

 


Thunderstruck non è solo una grande canzone rock, ma una vera e propria iniezione di adrenalina, una botta di energia ad alto voltaggio, una ricarica per quando si ha necessità di un surplus di vitalità. E non è affatto un caso, quindi, che sia una delle canzoni più ascoltate prima di una competizione sportiva (è ad esempio, utilizzata dalla Juventus nel riscaldamento che precede la partita).

Leggenda vuole che la canzone sia stata scritta da Angus Young dopo un turbolento viaggio in aereo, durante il quale un fulmine avrebbe colpito la carlinga del mezzo, facendo quasi precipitare il velivolo. In realtà, la genesi del brano è molto più prosaica: la canzone nacque quando Angus, strimpellando la chitarra, tirò fuori casualmente un abbozzo di riff e lo fece ascoltare al fratello Mal, che si mise a lavorare sulla ritmica.

I due impiegarono mesi a completare il brano che, a dispetto, della primordiale potenza, ha una struttura assai complessa. Il celebre intro di chitarra, infatti, è di una difficoltà tecnica mostruosa ed è suonato a velocità supersonica. Non per tutti, insomma. Tanto che lo stesso Young, forse esagerando un po', in un’intervista di un paio di anni fa, disse che prima di eseguirlo dal vivo, si sedeva un’ora ad allenarsi con la chitarra, per essere sicuro di salire sul palco con le mani già molto calde. Il classico suono della chitarra, inoltre, è ottenuto suonando tutte le corde, tranne quella del si. Questa particolare tecnica, Angus l’aveva appressa dal fratello maggiore, George Young, anch’egli chitarrista, leader degli Easybeats e produttore di alcuni dischi degli Ac/Dc.

Thunderstruck ha segnato un ritorno al successo della band australiana, che nel decennio precedente non era più riuscita a piazzare un disco in vetta alle classifiche. Per raggiungere questo obiettivo, la band mise molta attenzione anche nel trovare un titolo adeguato alla canzone di punta, che sarebbe stata lanciata come singolo, e all’intero album. Il titolo Thunderstruck, fu scelto per rievocare altre celebri canzoni degli Ac/Dc, come Powerage e Highway To Hell, e per suggerire un’equazione semplice, ma efficacissima: AC/DC = Potenza. Da qui, anche il titolo dell’album, il cui scopo era quello di abbinarsi perfettamente al singolo ed evocare la furia degli elementi. Gli australiani, infatti, hanno un modo del tutto particolare per indicare quelle nuvole nere e gonfie di pioggia, che preludono a una tempesta: le chiamano the razor’s edge, ovvero "il filo del rasoio".

Anche il video che accompagnò l’uscita di Thunderstruck fu accuratamente elaborato a tavolino. Alla regia fu chiamato David Mallet, che aveva già diretto il video di You Shook Me All Night Long. L’idea di Mallet era quella di creare un video che immortalasse la “performance definitiva", in modo da mostrare tutta l'energia sprigionata dal vivo dalla band australiana. Per ottenere tale risultato, il video fu girato alla Brixton Academy di Londra, utilizzando alcuni innovativi accorgimenti tecnici: Angus che cammina sul plexiglass, venne filmato anche da sotto, e delle piccolissime telecamere furono posizionate anche sulla sua chitarra e sulle bacchette del batterista.

Intorno alla canzone, inoltre, ruotano alcuni gustosi aneddoti. Un musicista americano, Matt MacMillan, ha registrato, per un intero anno, le risatine e i gemiti del proprio figlioletto neonato Ryan, e li ha arrangiati in modo da riprodurre una bizzarra versione della canzone degli Ac/Dc. Questa stranissima cover la trovate su Youtube, dove ha raggiunto oltre cinque milioni di visualizzazioni. Sempre su youtube, trovate il video della musicista cinese Moyun che reinterpreta Thunderstruck, utilizzando il guzheng, una cetra cinese tradizionale, la cui origine risale al 475 A.C. Dateci un occhio, perché è veramente uno spettacolo.

E per finire, per un’intera notte, nel luglio del 2012, gli Ac/Dc hanno messo sotto scacco l’Iran. Un virus informatico, infatti, ha infettato gli stabilimenti nucleari iraniani e uno degli effetti del baco è stato che i pc continuavano incessantemente a riprodurre a tutto volume proprio Thunderstruck. Quali conseguenze il mondo abbia rischiato in quel frangente, molto probabilmente, nessuno lo saprà mai.

 


 

 

Blackswan, giovedì 26/01/2023

martedì 24 gennaio 2023

MARGO PRICE - STRAYS (Loma Vista, 2023)

 


Basta dare un‘occhiata alla biografia di Margo Price, per rendersi conto di come la songwriter originaria dell’Illinois sia l’archetipo della musicista country. E’ cresciuta nella piccola cittadina di Aledo, dove ha svolto lavori umili per foraggiare i suoi sogni di musicista, la sua famiglia ha perso la fattoria, ha dovuto impegnare la sua fede nuziale, ha conosciuto la prigione e la dipendenza dall’alcool: la sua vita, insomma, somiglia molto da vicino al canovaccio di tante canzoni country, genere che è stato l’ossatura dei suoi primi due album.

La Price, però, da spirito inquieto qual è, sentiva il roots come punto di partenza e non di arrivo, e il desiderio di esplorare l’ha spinta a cercare nuove forme espressive. That’s How Rumors Get Started, uscito nel 2020, se non fosse per quel timbro di voce immediatamente riconoscibile, sembrava il parto di un’altra musicista, era una raccolta di canzoni lontana mille miglia da quel suono che avevamo conosciuto nei suoi due primi lavori, Midwest Farmer’s Daugther del 2016 e All American Made del 2017. Le dieci canzoni di quella scaletta, infatti, suonavano prevalentemente pop rock, strizzavano l’occhio, almeno in alcuni casi, a sonorità radiofoniche, e si scrollano di dosso la polvere del country old style dei due predecessori, pur mantenendo nella declinazione un vellutato accento sudista.

Con Strays, un titolo che ammicca al suo girovagare musicale, la Price opta per una scelta di assoluta libertà, spostando ancora più in là i suoi confini espressivi. E non è un caso che le prime parole del disco siano una ferma dichiarazione d’intenti: “I Got Nothin’ To Prove” (“non ho più niente da dimostrare”), come a voler suggerire all’ascoltatore un approccio musicale ormai svincolato da ogni altrui aspettativa. Quando parte l’opener "Been To The Mountain", introdotta da inquieti synth e sorretta da una fumosa linea di chitarra, è chiaro che la Price ha fatto un ulteriore passo in avanti: il brano è un rock ipnotico, psichedelico, a cui sottende Patti Smith (ascoltate il tappeto di synth, le chitarre acide e il cantato della seconda parte del brano) e che è animato da un’urgenza espressiva palpabile e vibrante. Un inizio esplosivo che mette subito le cose in chiaro: posso fare quello che voglio e ho una voglia incredibile di sbrigliare tutte le mie fantasie. E se è vero, come si dice, che alla base di queste composizioni ci sia stata una psichedelica dieta a base di funghi magici, condivisa con il marito Jeremy Ivey (coautore di alcuni brani in scaletta) questo brano iniziale ne è la prova più eclatante.  

La successiva "Light Me Up" è un altro pezzo da sballo, parte morbida e acustica, e poi rotola via veloce trainata dalla chitarra di Mike Campbell (Tom Petty), che crea un’atmosfera settantiana, spingendo forte sul pedale wah wah. Tutto splendido, tutto incredibilmente eccitante. La Price, però, è musicista volubile, e cambia subito le carte in tavola, sperimentando con l’amica Sharon Van Etten nell’anomala "Radio", un brano che fonde elettronica, country e melodia mainstream. Nemmeno tre minuti, e si riparte con il rock blues cadenzato di "Change Of Heart", brano muscolare e melodia orecchiabilissima, seguito, poi, da una delle gemme dell’album, l’emozionante ballata pianistica "County Road", un brano che riporta alle atmosfere di "That’s How Rumors Get Started", i Fleetwood Mac a ispirare e un pathos malinconico e struggente che attraversa sei minuti capaci di spappolare anche un cuore di pietra (ascoltate, poi, quanto sono eleganti gli arrangiamenti di Jonathan Wilson, qui in veste di produttore).

Che la libertà espressiva sia la chiave di lettura di Strays, lo si comprende dalla successiva "Time Machine", che cambia rotta verso il puro divertissement punteggiato da delicate armonie per piano e synth, per poi virare nuovamente verso la ballata in mid tempo di "Hell In The Heartland", il cui tappeto melodico è creato da pedal steeel e resofonica, come a ribadire l’antico legame della Price con la tradizione. Una scaletta ricca di grandi canzoni, la cui varietà produce, brano dopo brano, un avvincente effetto sorpresa, come avviene in "Anytime You Call", ospiti le Lucius, ballata dai forti accenti lennoniani, e "Landfill", dolcissimo commiato avvolto da una nuvola di pedal steel e trasognati riverberi, che conduce l’ascoltatore a fluttuare a mezz’aria, come immerso in un estatico liquido amniotico.

Lascio per ultima "Lydia", l’unica canzone scritta da Margo Price senza alcun contributo esterno, un brano talmente intenso da cannibalizzare l’intera, già splendida, scaletta. Chitarra acustica, voce e dissonante arrangiamento d’archi, per raccontare la storia di una donna travolta da un’esistenza senza speranza, tra droghe, aborto, un’infanzia livida di dolore e un presente che affonda nel cuore come un pungolo che non dà tregua: “Alla clinica, mi domando come sarebbe la tua faccia, Il mascara mi sanguina negli occhi, Legata come un cane a una catena con una crisi di mezza età e un ex marito, Furtivamente fumo una Marlboro Ultra Light che ho rubato a un'infermiera là fuori nel vicolo. A metà strada è dove si trova il cuore e io sono a metà strada.” Impossibile non commuoversi di fronte a tanta intensità, figlia del talento di un’artista che sa osserva il mondo che la circonda, per poi raccontarlo, con passione, certo, ma anche con uno sguardo asciutto, disilluso e impietoso.

Senza nulla togliere a tutti i tre dischi che l’hanno preceduto, Strays è di certo il miglior album di Margo Price, un’artista che, pur senza rinnegare il proprio passato e le proprie origini, ha avuto il coraggio di uscire dalla comfort zone, per esplorare nuovi territori, trovando il meritato successo commerciale, ma soprattutto, una nuova, più consapevole identità.

Voto: 8,5

Genere: rock, americana

 


 

 

Blackswan, martedì 24/01/2023

lunedì 23 gennaio 2023

OAK- THE QUIET RIBELLION OF COMPROMISE (Karisma Records, 2022)

 


The Quiet Rebellion Of Compromise è il bellissimo titolo del terzo album dei norvegesi Oak, quartetto che, nella patria del metal estremo, sceglie di imboccare una strada diversa, concependo una miscela affascinante fra elettronica, pop, progressive e post rock, in cui si possono cogliere echi di Ulver, Archive, Porcupine Tree e, per restare sul classico, anche Pink Floyd.

Il disco è una sorta di concept album dedicato al tema delicatissimo dei disturbi mentali, della depressione e delle tendenze suicide, argomento, questo, affrontato nelle liriche scritte dal cantante Simen Valldal Johannesen (baritono profondo e carico di vibrato), dopo un periodo di studio e di approfondimento sulla materia. Che la molla di queste profonde riflessioni sia stato il periodo buio della pandemia e dell’isolamento, foriero di riflessioni esistenziali e di uno sguardo pessimistico sul mondo, è un dato di fatto, così come lo è il mood oscuro, crepuscolare e fortemente malinconico che attraversa le sette canzoni in scaletta.

Le quali, avvolte in una plumbea coltre di fascinosa tristezza, trovano il loro punto di forza nel perfetto equilibrio fra strumenti acustici, alcuni vibranti riff di chitarra (patrimonio genetico della nativa Norvegia) e un intelligente uso di pulsante elettronica, che conferisce al suono dell’album una raffinata versatilità ed è elemento vitale per la resa finale di ogni composizione.

Il drumming di Sigbjørn Reiakvam è basato sul connubio seducente fra batteria e programmazione, e questo mix di percussioni è la vera ossatura di tutto l’album, così come i synth, dal sapore atmosferico e spesso alternati al pianoforte (che è un suggestivo elemento post rock) permeano tutte le tracce, acquisendo un ruolo determinante in brani come "Quiet Rebellion", creando un disturbante sottofondo di dissonanza come quello sottostante lo straniante (e stupendo) assolo di sax di "Sunday 8AM", o seducendo con i toni bassi, carnosi e vibranti di "Dreamless Sleep", un brano pulsante che richiama alla memoria gli Ulver.  

L’uso dell’elettronica, tuttavia, non esclude aperture di prog classico o l’uso della strumentazione tradizionale, che restano elementi importanti in tutta la durata del disco. Ciò avviene, ad esempio, nell’impetuoso riff di chitarra, contrappuntato da poche note di pianoforte, che attraversa "Demagogue Communion", evaporando in una pausa orchestrale su cui sfarfalla un delizioso intreccio vocale a la Yes, fino a un convulso finale post rock, o nell’epica "Paperwings", quattordici minuti a incastro, che si aprono con inquietanti atmosfere trip hop, per poi proseguire tra momenti contemplativi di malinconica desolazione, oscuri intrecci vocali, sferraglianti crescendo post rock, echi pinkfloydiani  e l’naspettato finale ai confini del metal in cui compare, come fulmine a ciel sereno, un destabilizzante cantato growl.

The Quiet Rebellion Of Compromise è un album complesso ma non cervellotico, meditabondo e struggente, che punta sull’omogeneità della proposta, evitando scelte compiacenti (manca un singolo di lancio), alla ricerca, semmai, di un perfetto equilibrio tra sonorità all’apparenza confliggenti. Ci vuole qualche ascolto per cogliere le diverse sfumature di un disco sofferto, reso ancora più ostico dalla voce scorbutica di Simen Valldal Johannesen, respingente, forse, a un primo impatto, ma perfetta per raccontare le inquietudini della mente umana. I testi, belli e ispirati, sono il valore aggiunto di un disco consigliato a chi cerca la perfetta colonna sonora per un giorno di pioggia o per le proprie tempeste interiori.

VOTO: 8

Genere: Elettronica, Progressive, Post Rock

 


 

 

Blackswan, lunedì 23/01/2023

giovedì 19 gennaio 2023

WALKING IN MEMPHIS - MARC COHN (Atlantic, 1991)

 


Nato a Cleveland, classe 1959, Marc Cohn è un musicista molto apprezzato negli Stati Uniti, ma praticamente sconosciuto fuori dai confini patri. Ispirato da artisti come Joni Mitchell, Jackson Browne, Carly Simon e Van Morrison, Cohn a partire dagli anni ’90 si è mosso attraverso territori folk rock con eleganza artigianale, salendo alla ribalta con il suo omonimo primo album (datato1991), che, l’anno successivo, gli valse un Grammy Award quale miglior artista esordiente. A spingere le vendite del disco e ad accendere l’attenzione dei media, fu il primo singolo estratto dal disco, Walking In Memphis, che si piazzò alla tredicesima piazza Billboard Hot 100 (e arrivò alla ventiduesima nel Regno Unito), restando a tutt’oggi il suo maggior successo commerciale del musicista.

Il brano, fortemente autobiografico, fu scritto da Cohn, nel 1985, dopo un viaggio a Memphis, dove si era recato per visitare Graceland, la leggendaria dimora di Elvis Presley, e quelle terre, tra il Tennessee e il Mississippi, che tanto stimolavano il suo immaginario di musicista. Mentre stava percorrendo la Highway 61, in una zona semi deserta nei pressi Delta, vide un cartello che recitava "Hollywood". Nulla a che vedere, ovviamente, con la città californiana; si trattava, invece, dell’insegna di un piccolo ristorante, chiamato Hollywood Cafè, situato nella contea di Tunica, Mississippi.  Attratto dal delizioso profumo del pesce gatto che proveniva dalle cucine del locale, Cohn si fermò a mangiare nel ristorantino, dove una donna di colore sulla settantina, di nome Muriel, stava suonando al pianoforte. Dopo aver guardare Muriel suonare un’incredibile varietà di spiritual e alcune canzoni di Hoagy Carmichael, Cohn, durante una pausa, si avvicinò alla donna con l’intenzione di fare quattro chiacchiere.

Il ventiseienne musicista aveva alle spalle una vita tristissima, che lo aveva provato psicologicamente, gravandogli sull’anima e impedendogli di essere davvero felice. La madre di Cohn, infatti, morì quando lui aveva solo 2 anni e, il padre, dieci anni dopo, quando Marc era dodicenne. Questi due lutti lo segnarono profondamente, tanto che, seduto davanti a Muriel, il suo dolore era ancora tangibile, quasi palpabile. Strano a dirsi, ma all’anziana donna bastò un semplice sguardo per comprendere la tragedia che albergava nel cuore del ragazzo. I due iniziarono a parlare fittamente, e il musicista, come un fiume in piena, raccontò a Muriel tutta la sua vita: la morte dei genitori, l’infanzia difficile, i suoi sogni di songwriter alla ricerca di un contratto discografico.

Poi, saranno state circa le due del mattino, da donna chiese a Marc di cantare insieme a lei, e anche se le canzoni del suo repertorio erano completamente sconosciute a Cohn, fra i due si creò una magica alchimia. Dopo un’ora, mentre il pubblico presente applaudiva la performance della coppia, Muriel si chinò sul ragazzo e gli sussurrò all'orecchio: “Devi lasciare andare tua madre, baby, lei è dove deve essere e tu sei dove devi essere. E’ ora di andare avanti".

L'Hollywood Cafe è ancora lì, esattamente dove lo incrociò Marc nel suo viaggio. Fra Muriel e Cohn nacque un’amicizia profonda, e i due rimasero in contatto anche dopo quella notte magica. Lei partecipò al matrimonio di Marc a New York, e Cohn la vide di nuovo, quando si recò da lei per farle ascoltare quelle che sarebbe state le canzoni che sarebbero confluite nel album d’esordio.

Walking In Memphis, una vibrante ballata dal sapore springsteeniano e dagli echi gospel, è una canzone catartica, che parla di come la vita può improvvisamente prendere una direzione diversa e cambiare, e lo stesso Cohn la definì “come un brano che non riguarda solo un luogo, ma racconta una sorta di risveglio spirituale, uno di quei viaggi che, quando vai via, sei cambiato”.  

Fu il primo singolo pubblicato dal songwriter dell’Ohio, la cui carriera iniziò grazie a Carly Simon, che lo scoprì, a metà degli anni ’80, quando Marc faceva parte di una band di 14 elementi chiamata The Supreme Court. L’Atlantic Records gli fece firmare un contratto nel 1989, ma i primi tentativi di registrare il suo album di debutto con il produttore di Tracy Chapman, David Kerschenbaum, fallirono miseramente, per incompatibilità artistica fra i due. Dieci mesi dopo, Cohn tornò alla carica, producendo lui stesso il set con l'aiuto dell’amico Ben Wisch, che lo aveva aiutato a registrare i suoi primi demo. Finalmente pubblicato nel 1991, quando Cohn aveva 31 anni, il suo omonimo album di debutto fu un enorme successo, grazie, come dicevamo, all’acclamata Walking In Memphis, che fu anche l’unico, grande exploit della sua carriera.

Muriel è morta nel 1990, senza poter ascoltare il disco d’esordio del suo giovane amico, ma è consolante sapere che vivrà, per sempre, fra le note di quella canzone che aveva involontariamente ispirato.

 


 

Blackswan, giovedì 19/01/2022

martedì 17 gennaio 2023

THE HARLEM GOSPEL TRAVELERS - LOOK UP! (Colemine Records, 2022)

 


Ci sono dischi che portano con sè un'irresistibile carica di allegria, una scossa che ti costringe ad alzarti in piedi, a cantare e a ballare. Il secondo album dei terzetto newyorkese degli Harlem Gospel Travelers, è uno di questi, un'opera la cui scaletta porta in dote la vibrante passione di undici canzoni di puro divertimento, che spaziano, in chiave retrò, tra r'n'b, gospel, funky, soul e blaxploitation. A santificare e produrre, la blue-eyed soul star Eli “Paperboy” Reed, che suona anche la chitarra elettrica.  

Il sophomore di questi giovani newyorkesi (nessuno, a dispetto del nome, però, è originario di Harlem), che da quartetto sono passati a trio (Thomas Gatling, George Marage e Dennis Bailey), conferma, se mai che ce ne fosse bisogno, che il 2022 è stato un anno di grande uscite, sia in generale, sia per coloro che amano la black music.

L'album è stato preceduto da un paio di singoli, che avevano subito lasciato intendere le qualità della band: "Look Up!" (la title track dell'album) e "Hold Your Head Up", la prima pervasa da contagiosa allegrezza e costruita su scintillanti intrecci vocali, la seconda spinta da un energico groove funky e caratterizzata da una splendida linea melodica discendente, entrambe fortemente connesse alla tradizione eppure incredibilmente e totalmente contemporanee.

Per cui, si potrebbe senza dubbio parlare di retrofilia, se non fosse che Look Up! riesce a suonare attualissimo, se non fosse altro per alcune, ancora tristemente necessarie, posizioni sui diritti civili ("Fight On!"). In queste undici canzoni, quindi, troverete un approccio moderno, ma anche rispetto filologico per il passato del genere, call and response, handclapping e numerosi richiami religiosi tipici del gospel (la ballata con sermone incorporato di "God Will Take Care Of You" e la scatenata "God’s In Control").

Come dicevamo a inizio articolo, Look Up! è un disco irresistibile, di quelli che portano allegria e che scorrono rapidi come impetuosi ruscelli di montagna, capaci di rendere brioso e spumeggiante anche un panorama decisamente famigliare come questo. Impossibile resistere, allora, a "Help Me To Understand", una ballata luccicante che tocca il cuore con inusitata leggerezza, al giocoso soul di "That’s The Reason", ai travolgenti accenni northern del r’n’b della conclusiva "I’m Grateful" o agli accenni psycho soul/blaxploitation di "Fight On!", che, come si diceva, è un brano fortemente connotato da intenti politici.

Look Up! è un disco i cui sottesi religiosi, molto sentiti fra la comunità afroamericana degli States, saranno decisamente marginali per gli ascoltatori italiani. I quali, tuttavia, troveranno in questa raccolta vintage di black music, un motivo in più per celebrare il 2022 come l’anno in cui sono usciti una valanga di dischi davvero belli. Quindi, se amate il genere, l’ascolto degli Harlem Gospel Travelers è fortemente consigliato: impossibile non emozionarsi per l'energia, la passione e il corroborante assalto sonoro di queste undici scoppiettanti canzoni.

VOTO: 8

Genere: Soul, R&B, Gospel, Funky

 


 


Blackswan, martedì 17/01/2023

lunedì 16 gennaio 2023

ORK - SCREAMNASIUM (KScope, 2022)

 


Ork è quello che potrebbe definirsi un supergruppo, per quanto questa definizione, di solito affibbiata a uscite estemporaneee, sembrerebbe riduttiva per un progetto solido, arrivato ormai al quarto capitolo discografico della sua storia. Tuttavia, è evidente che il termine “supergruppo” venga quasi spontaneo, una volta che si conoscono i nomi coinvolti in questa brillante avventura: i membri che compongono la line up, infatti, rispondono al nome di Pat Mastellotto (batteria, King Crimson), Carmelo Pipitone (chitarra, Marta Sui Tubi), Colin Edwin (basso, ex Porcupine Tree) e il cantante Lorenzo Esposito Fornasari, aka LEF (uno che, basta dare un’occhiata a Wikipedia, ha collaborato con il mondo intero).

Generalmente, e anche un po’ forzatamente, catalogati nell'ambito del rock progressive, la multinazionale Ork propone, invece, in questo nuovo album, una miscela esplosiva a cavallo fra alternative rock (lo sguardo puntato dritto verso gli anni '90) e metal.

LEF è un cantante strepitoso, il quale, pur mantenendo una propria specifica identità, possiede un timbro (e anche l'estensione) che ricorda alternativamente Chris Cornell e Jeff Buckley. Ed è a questi due artisti che è maggiormente ispirata la musica contenuta nelle dieci canzoni del disco, intitolato Screamnasium (un titolo, un programma). La vibrante As I Leave, che apre il disco, e l’intensa Something Broke sono la fotografia di come suonerebbero oggi i Soundgarden, mentre l’inquieta I Feel Wrong evoca il fantasma di Buckley.

Screamnasium, però, è un disco assai vario che riserva più di una sorpresa. Consequence è un’oscura ballad, in cui LEF duetta con Elisa, decisamente a suo agio anche in queste inedite vesti, mentre Don't Call Me A Joke apre la porta al progressive, grazie a una struttura decisamente più complessa. Chiude le danze Someone Waits, brano in cui compare una sezione d’archi che fa da contrappunto a un’elettrica epicità. Questo quarto capitolo della storia degli Ork è un disco potente e muscolare, che guarda al passato, rievocando un periodo storico che ha fatto breccia nel cuore di molti appassionati, a cui, quasi inevitabilmente, l’ascolto farà battere forte il cuore. Tuttavia, a prescindere da un approccio vigoroso ed energico, Screamnasium, anche nei suoi momenti più pesanti, è suonato con un’esuberanza tecnica seducente e mai fine a se stessa, circostanza, questa, che lo rende un ascolto appetibile anche per palati più raffinati. Da provare.

VOTO: 7

Genere: Alternative, Grunge, Metal

 


 


Blackswan, lunedì 16/01/2022

venerdì 13 gennaio 2023

FIRE FROM THE GODS - SOUL REVOLUTION (Better Noise Music, 2022)

 


Texani di Austin, nati nel 2007, i Fire From The Gods, dopo svariati cambi di line up, giungono al loro terzo album in studio, con una formazione finalmente stabile, capitanata dall’iconico e dotatissimo cantante Aj Channer. A prenderli sotto la propria ala protettrice, oltretutto, è Zoltan Bathory dei Five Finger Death Punch, che è riuscito a inserirli nelle corpose fila della Better Noise Music, etichetta sotto la cui egida suonano numerosi gruppi di rock mainstream americano (tra cui proprio i Five Finger Death Punch).

Ed è proprio al mainstream che si rivolge la proposta dei FFTG, band che non nasconde il proprio amore per il nu metal, il genere che informa l’intera scaletta del disco. I texani, quindi, creano una miscela sonora dalle radici immediatamente riconoscibili, imbastardendo il metal con numerose dosi di hip hop, dance hall, reggae e una spruzzatina di soul. Il risultato è un disco indirizzato soprattutto alle giovani generazioni, in particolar modo quelle che vivono in un limbo posto esattamente a metà strada fra suoni grintosi e melodie di facile presa. Il tutto, per quanto ben fatto, possiede, quindi, un tiro essenzialmente radiofonico, che potrebbe conquistare l’ascoltatore medio, quello che preferisce spigoli arrotondati da ritornelli acchiapponi, ma che, alla fin della fiera, deluderà fortemente tutti quelli che amano il metal in purezza e bordate capaci di lasciare il segno.

Per carità, le dodici canzoni in scaletta palesano un approccio consapevole e mostrano una band che conosce a menadito le regole del gioco: i riff potenti ma tutto sommato innocui, l’uso furbetto della contaminazione, lo sviluppo lineare ed efficace di canzoni che non riservano alcuna sorpresa a un orecchio allenato. In definitiva, l’unica dose di qualità contenuta in questa operazione poggia esclusivamente sulle spalle di Aj Channer, cantante di colore, la cui voce calda e seducente, e l’abilità nel gestire le linee vocali, regala i pochi palpiti di una scaletta che non riserva soprese e che sembra destinata all’anonimato artistico. Così, Soul Revolution resta un disco solido ma prevedibile, ben fatto ma senza pathos, e, quindi, sostanzialmente inutile.

VOTO: 6

 


 

 

Blackswan, venerdì 13/01/2023