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mercoledì 9 aprile 2025

O.R.k. - Firehose Of Falsehoods (Kscope, 2025)

 


Sono poche le band in circolazione che mi fanno perdere la brocca come gli O.R.k., quartetto cosmopolita composto da quattro musicisti di nobilissimo pedigree: Lorenzo Esposito Fornasari, più noto come LEF (cantante, produttore e compositore), Carmelo Pipitone alla chitarra (Marta Sui Tubi), Pat Mastellotto alla batteria (King Crimson) e Colin Edwin al basso (Porcupine Tree).

Non è, però, solo la caratura tecnica di una band che ha pochi eguali al mondo, e che potremmo chiamare supergruppo, se solo questa definizione non suggerisse il concetto di estemporaneità (il progetto giunto al quinto album è, invece, solidissimo) e fosse accostato spesso a fenomeni dal grande appeal mediatico ma dalla rilevanza artistica inconsistente.

A fare la differenza è soprattutto la capacità con cui quattro musicisti di diversa estrazione e nazionalità sono riusciti a trovare un terreno comune su cui fiorisce una musica che è passione e urgenza, e si sente a ogni nota, ma anche consapevolezza e ispirazione. Canzoni che hanno un’anima e un suono distintivo, che anche se pescano dal passato, coniugando gli strappi rabbiosi del grunge e la veemenza di certe bordate metal alla sensibilità alt rock anni ’90 e alla complessità espressiva di un approccio prevalentemente prog, mantengono una propria moderna identità.

Tutto brilla di luce propria in Firehose Of Falsehoods, la scrittura, gli arrangiamenti, la precisa dizione strumentale, e tutto fluttua, tra nostalgie passate e un hic et nunc in grado di stemperare l’urgenza emotiva, a volte addirittura impetuosa, con il suono avvolgente di melodie che intercettano il cuore delle canzoni con improvvisa trasversalità.

In un panorama musicale, come quello odierno, in cui le qualità tecniche dei musicisti, sembrano non interessare più a nessuno, con gli O.R.k. il virtuosismo torna a essere un elemento importante della musica. Non si tratta però di virtuosismo fine a se stesso, di pura esibizione di maestria, anticamera di un suono pomposo e barocco, ma di precisione, pulizia, dell’equilibrio fra spinta propulsiva e fraseggio, tanto ritmico, quanto melodico.

Il risultato è una scaletta sia arrembante che fantasiosa, in cui anche i brani più immediati trovano sempre uno scarto di direzione o un momento catartico che tiene lontano il prevedibile, l’ovvio.

D’innanzi a canzoni come "Hello Mother" o "The Other Side" l’ascoltatore viene catturato da un vortice temporale che risucchia nei solchi di "Badmotorfinger" dei Soundgarden, tanto il timbro di LEF rievoca, per estensione e potenza, quello di Chris Cornell. E se anche "Seven Arms", con una rilettura decisamente moderna, gira dalle parti di Seattle, trovando il perfetto punto di fusione fra cupo sprofondo alla Alice In Chains e la foga tutta ardore e furia dei Soundgarden, brani come la magnifica "16.000 Days" e "Putfp" sembrano omaggiare nella complessa tessitura emotiva il compianto Jeff Buckley.

Chiude la scaletta la lunga "Dive In", quattordici minuti che si riconnettono all’anima prog della band, aprendo le porte a un lungo viaggio sonoro dalle mille sfaccettature, tra momenti di lirismo e improvvise accelerazioni, che non dispiacerebbero ai fan dei Tool.

Se il tema che informa le liriche di Firehose Of Falsehoods è quello di rappresentare un mondo in cui il bombardamento mediatico incide, con il suo carico di falsità ed effimero, sulle vite degli esseri umani, la bellezza della musica è, per converso, come ogni forma d’arte, anelito di speranza e abbrivio di salvezza. Allora, basta mettere sul piatto questo disco per riconnettersi a un mondo autentico, lontano dalla vacuità che ci circonda e dagli strepiti del megafono social, e perdersi, felici, nell’emozione pura di canzoni che fanno tremare le vene dei polsi.

Voto: 8

Genere: Grunge, Alt Rock, Prog




Blackswan, mercoledì 09/04/2025

martedì 8 aprile 2025

Bonfire - Higher Ground (Frontiers, 2025)

 


Quando i tedeschi Bonfire iniziarono la loro carriera, era il 1972, è molto probabile che la maggior parte dei nostri lettori, compreso il sottoscritto, portasse i calzoncini corti o manco fosse nato. Se sommiamo gli anni in cui la band è stata attiva sotto il nome di Cacumen e poi, sotto quello attuale di Bonfire, allora il gruppo è in circolazione da ben cinquantatré anni. Inevitabile, quindi, definire il quintetto teutonico come una vera e propria leggenda, quanto meno per l’importante dato anagrafico e la straordinaria longevità.

Questo nuovo Higher Ground è, tenetevi forti, l'incredibile ventisettesimo disco pubblicato dal gruppo, l’ultimo di una carriera segnata da numerosi cambi di line up (il membro anziano, presente dal 1985, è il chitarrista Johann Ziller, oggi sessantaseienne), e da una discografia fortemente radicata nel metal, ma aperta ad esperimenti (l'opera rock The Räuber basata sulla pièce teatrale The Robbers del drammaturgo Friedrich Schiller), e a un paio di fuori menù (un doppio album di cover intitolato Legends e un doppio album quasi completamente unplugged intitolato Roots). La band, come accennato, è tuttavia più nota per il suo mix di heavy metal melodico e hard rock ad alto contenuto energetico, ispirato in particolare a sonorità derivate dagli anni Settanta e Ottanta.

I Bonfire, a dire il vero, sembravano aver esaurito le energie in alcune pubblicazioni del passato recente, ma, alla fine, hanno sempre tenuto duro, riuscendo in qualche modo a mantenere un discreto livello qualitativo e a produrre album, alcuni decenti, altri decisamente buoni. Higher Ground è quello che potremmo definire un buon album rock, senza particolari picchi creativi, ma suonato, comunque, da una band che conosce il mestiere a menadito e capace di rendere credibili e divertenti anche i ricorrenti deja vù: oltre al citato chitarrista Johann Ziller, la line up presenta il bassista americano Ronnie Parkes, un tempo membro dei Seven Witches, il chitarrista tedesco Frank Pané, il batterista italiano Fabio Alessandrini, noto per le sue scorribande con i giganti canadesi del thrash metal Annihilator, e il bravissimo cantante greco Kostas Matziaris.

Una formazione composta da musicisti di diversa estrazione, che, tuttavia, in meno di tre anni sono riusciti a creare un solido collante che rende la performance armoniosa e ispirata.

Prova immediata è il primo singolo "I Died Tonight" che in realtà esprime l'opposto del suo titolo e suona fresco, energico e, soprattutto, incredibilmente in linea coi tempi. Il secondo singolo "I Will Rise" apre il disco in modo simile, ed è una bella botta, che offre tutto ciò che i fan del melodic metal e del rock potrebbero desiderare, dal suono di chitarra catchy ai passaggi di basso pompanti, dai pattern di batteria diversificati a una bella voce potente e squillante.

Due episodi che sottolineano come i Bonfire abbiano mantenuto inalterato lo spirito delle loro origini, riuscendo a suonare più vitali di molte band più giovani.

In scaletta, altri sono i momenti riusciti, come la power ballad "When Love Comes Down", che parte morbida prima di evolversi in un epico hard rock, "Fallin'", che attiva la macchina del tempo per tornare direttamente agli anni ottanta, con un mix melodico a metà tra l'heavy metal di ispirazione commerciale e l’Aor, e la rilettura conclusiva, in chiave più decisamente pop, della loro "Rock'n'Roll Survivor”, già pubblicata nel 2020.

Higher Ground non è certo un disco indimenticabile e, a ben vedere, ripete spesso alcuni tropi del genere che andavano per la maggiore negli anni settanta e ottanta. Tuttavia, l’album è godibilissimo, la carica energetica non è mai messa in discussione, e il quintetto non fa altro che suonare con passione una musica che conosce alla perfezione, rispettandola e offrendola ai fan nella miglior veste possibile.

Voto: 7

Genere: Hard Rock

 


 

 

Blackswan, martedì 08/04/2025 

lunedì 7 aprile 2025

Angel - Sarah McLachlan (Nettwerk, 1887)

 


La canzone che Sarah McLachlan ama di più, quella che amano di più i suoi fan. La classica signature song, quella che identifica la storia di un artista, un successo clamoroso, che spinse l’album da cui è tratta, Surfacing (1997), fino alla prima piazza delle classifiche canadesi, vendendo, poi, nei soli Stati Uniti ben otto milioni di copie (disco di platino).

Una canzone scritta di getto, in poche ore, in un momento, come talvolta capita, in cui la felicità di sentirsi vivi e musicisti riesce a compiere autentici miracoli. Eppure, questa canzone, nata in un momento di assoluta felicità, tratta un tema dolorosissimo. La McLachlan, infatti, scrisse Angel per raccontare la lotta di un tossicodipendente con il mondo che lo circonda, mentre l’angelo, che non ha nulla di spirituale, simboleggia le droghe a cui il tossicodipendente si arrende ripetutamente.

Il brano fu ispirato al tastierista degli Smashing Pumpkins, Jonathan Melvoin, che andò in overdose di eroina e morì nel 1996. McLachlan non lo conosceva personalmente, ma quando lesse della sua morte su Rolling Stone, sentì una forte connessione, dato che era appena uscita da due anni on the road in cui "non c'è nulla di costante ma tutto diventa uguale". La musicista canadese affermò che quella canzone nacque per cercare di comprendere quali fossero i motivi che spingono un essere umano a diventare dipendente dall’eroina: “Anch'io sono stata così con le spalle al muro e fottutamente persa da non sapere più chi ero, ti senti sperduta, ed è allora che cerchi una via di fuga. Non sono mai ricorsa all'eroina, ma a tante altre cose nel tentativo di scappare"

La canzone ha avuto una popolarità duratura, perché, oltre a essere bellissima, nel corso degli anni è stata utilizzata in molti modi diversi, sia nelle colonne sonore di film (City Of Angels del 1998) e di serie tv, che in programmi per bambini, ai funerali o ai matrimoni, tutte occasioni in cui il senso della canzone è stato completamente frainteso. Alla McLachlan questa circostanza non è mai importata e non si è mai risentita del fatto che un brano sulla droga potesse essere utilizzato in contesti agli antipodi del suo effettivo significato: “Penso che una volta che un artista pubblica una canzone”, ebbe a dire, “questa diventa aperta all'interpretazione, e lascio di proposito una certa ambiguità nelle canzoni in modo che le persone possano mettere in relazione le canzoni con se stesse e con le loro storie".

Non c’è da stupirsi, allora, se Angel, negli Stati Uniti, sia diventata la sigla degli spot pubblicitari dell'ASPCA (American Society for the Prevention of Cruelty to Animals) che hanno iniziato a circolare nel 2007. Queste pubblicità, grazie alla canzone, si sono rivelate incredibilmente efficaci, generando donazioni per oltre trenta milioni di dollari, e hanno collegato indissolubilmente McLachlan alla difesa dei cani e dei gatti maltrattati.

Angel, inoltre, è stata anche una canzone molto importante per il rapper dei Run-DMC, DMC, che l'ha ascoltata più e più volte mentre combatteva contro la dipendenza e la depressione. "Non poteva liberarmi dalle ferite, ma 'Angel' era come un salvagente lanciatomi durante una tempesta", ha scritto nel suo libro di memorie del 2016, Ten Ways Not To Commit Suicide. "Non mi ha tirato fuori dall'acqua, ma mi ha aiutato a rimanere a galla finché non è arrivato altro aiuto." Potere della musica. 




Blackswan, lunedì 07/04/2025

giovedì 3 aprile 2025

Dirty Honey - Mayhem and Revelry Live (Dirt Records, 2025)

 


Oggi, essere giovani e suonare classic rock è quasi un atto rivoluzionario, una scelta coraggiosa e ostinata che non guarda le classifiche, non si piega all’hype e alle mode, che sceglie la nicchia e la qualità invece di puntare al successo commerciale. I Dirty Honey sono, in tal senso, la testimonianza che oltre alle truppe indie, trap e hip hop, esiste anche una gioventù alternativa, che suona, che suda, che restituisce vigore a un genere troppo stesso dato per autoreferenziale e incapace di rinnovarsi.

Potremmo definire i Dirty Honey “la salvezza del rock’n’roll”, se non fosse, questa, una locuzione frusta e troppo spesso abusata. E se non fosse che il rock, a dispetto del tempo che passa e di mode che spingono verso altri territori musicali, resta tutto sommato in buona salute, rappresentando l’unica musica ancora in grado di fare da collante fra le generazioni.

La band losangelina ha pubblicato solo due dischi in studio (oltre a singoli ed EP), ma ha già dimostrato di avere tutte le carte in regola per costruire un futuro luminoso, iniziando a spron battuto la scalata verso l’aristocrazia musicale che annovera i più grandi di sempre: un songwriting fresco e ispirato, un’urgenza espressiva travolgente e doti tecniche di livello.

Non è un caso, dunque, che, con una certa spavalderia, i Dirty Honey siano arrivati a pubblicare il loro primo album live dopo soli quattro anni di carriera, dimostrando che anche sul palco se la possono giocare ad armi pari con tutti.

Mayhem and Revelry Live contiene materiale registrato sui palchi del Nord America, del Regno Unito e dell’Europa (Italia compresa) durante il Can't Find the Brakes World Tour 2023-24. In scaletta, sedici canzoni che ben documentano (anche per chi non avesse avuto modo di assistere a un loro spettacolo) la forza travolgente di una band che dal vivo non fa prigionieri.

Si accendono i motori con "Won't Take Me Alive", ed è subito evidente che il frontman Marc LaBelle possiede delle capacità vocali che reggono il confronto con vecchi e nuovi eroi del genere, oltre a una consumata attitudine da mattatore, capace di coinvolgere il pubblico, che, finalmente, oserei dire, si sente, non come un rumore di sottofondo, ma come parte attiva dello show.

E’ tutta la band, comunque, a girare a mille. I riff di chitarra di John Notto in "California Dreamin'" e "Rollin' 7's" indicano che è stato innegabilmente influenzato da gente come Joe Perry e Rich Robinson, ma il suo talento distintivo risplende in tutto il disco, tra riff impetuosi, fraseggi coraggiosi e assoli pirotecnici. Nella nostalgica "Coming Home", una morbida pausa acustica piazzata tra tante sciabolate, Notto dimostra anche la sua abilità nella slide, mettendosi al servizio della magistrale prova vocale di LaBelle.

La sezione ritmica grintosa composta da Justin Smolian (basso) e Jaydon Bean (batteria) è il vero collante della band, e si sente benissimo in canzoni come "Don't Put Out the Fire" e "Scars", in cui i due esibiscono una coesione da manuale creando groove dalla qualità contagiosa.

La prima parte è composta da registrazioni prese da show tenutisi negli States e vanno segnalate almeno due grintosi highlight, "Heartbreaker" e "Dirty Mind", eseguiti a Cleveland, Ohio, che sono i momenti più intensi del primo disco. Il secondo disco include, invece, registrazioni effettuate nel Regno Unito e in Europa, tra cui merita di essere citata la conclusiva "You Make It Alright", registrata a Parigi.

Mayhem and Revelry Live fotografa i Dirty Honey alle prese con il meglio del loro repertorio, in un momento in cui la band sta spingendo forte sull’acceleratore per arrivare il più lontano possibile. Il risultato è un disco da ascoltare a tutto volume, diretto e asciutto, innervato di elettricità e adrenalina, e privo di riempitivi inutili: nessuna improvvisazione senza meta, nessun assolo di batteria gratuito, nessuna esasperazione tecnica fine a se stessa.

Eppure, nonostante la sua essenzialità, la scaletta incendiaria rievoca il passato in cui i live non erano un tassello da aggiungere per motivi commerciali alla discografia, ma una vera e propria celebrazione della propria arte in purezza, un rituale per condividere grande musica con il proprio pubblico, in un reciproco scambio di passione e sudore.

Voto: 8

Genere: Classic Rock, Rock, Hard Rock 




Blackswan, giovedì 03/04/2025

martedì 1 aprile 2025

Dust In The Wind - Kansas (Kirshner Records, 1977)

 

 


 

Siamo fragili e transitori, la nostra vita dura un attimo e non esiste bene materiale o denaro che renda più solida la nostra caducità. Siamo destinati a morire, siamo destinati a essere solo polvere nel vento. E’ questo il senso di Dust In The Wind, super hit degli statunitensi Kansas, scritta dal chitarrista Kerry Livgren, dopo aver letto un libro di poesie dei nativi americani, in cui una frase su tutte colpì la sua attenzione: "Perché tutto ciò che siamo è polvere nel vento".

 

Chiudo i miei occhi

Solo per un momento, e il momento è passato

Tutti i miei sogni

Passano davanti ai miei occhi…

Polvere nel vento

Sono solo polvere nel vento”

 

Questo verso spinse il musicista a farsi molte domande sul senso della vita, sul vero valore delle cose materiali e il significato del successo. In quegli anni, la band stava andando molto bene e guadagnava parecchi soldi; tuttavia, Livgren si rese conto che alla fine sarebbe morto proprio come tutti gli altri. Non contano i nostri possedimenti, le nostre ricchezze o i risultati che conseguiamo durante l’esistenza, perché, inevitabilmente, finiamo tutti sotto terra.

 

“Niente dura per sempre tranne la terra e il cielo…

E tutti i tuoi soldi non serviranno a comprare neanche un minuto

Polvere nel vento

Tutto ciò che siamo è polvere nel vento”

 

E’ indubbio che le toccanti liriche della canzone avessero anche un retroterra religioso e spirituale. La frase "polvere nel vento" compare, infatti, anche nella Bibbia: “Polvere sei e in polvere ritornerai” (Genesi, 3:17-19). Scrivere il brano, riflettere sulla natura transitoria della vita fisica, immaginare l’uomo come un pulviscolo di fronte all’immensità dell’universo e alla potenza di Dio, fu l’abbrivio per il chitarrista a convertirsi, visto che tre anni dopo, nel 1980, Livgren sarebbe diventato cristiano evangelico.

Il musicista scrisse questa canzone in un periodo in cui era sotto pressione, perché la casa discografica pretendeva una nuova hit, dopo il successo clamoroso di Carry On Wayward Son. I Kansas avevano quasi finito di scrivere e provare i brani per l'album Point of Know Return, quando il loro produttore, Jeff Glixman, convinto che il materiale non fosse sufficiente a chiudere il disco, chiese se avessero pronte altre canzoni. Livgren, allora, si mise a suonare con la chitarra acustica Dust In the Wind, premettendo, però, che la canzone non sarebbe piaciuta perché non era in linea con il sound dei Kansas.

Con sua grande sorpresa, il resto della band fu entusiasta e insistette per registrarla subito, mentre Livgren si opponeva, perché la canzone era lenta e acustica, e lui amava cose decisamente più movimentate e complesse. Insomma, si mise a combattere, solo contro tutti, contro la sua stessa canzone, e alla fine, fortunatamente per i Kansas, perse la battaglia.

Dust In The Wind, infatti, divenne il secondo più grande successo del gruppo, ed è, tuttora, considerata una delle canzoni rock acustiche più famose di tutti i tempi. Point of Know Return, l’album in cui il brano è contenuto, sarebbe, poi, diventato l'album dei Kansas posizionato più in alto in classifica negli Stati Uniti, raggiungendo la posizione n. 4 nel gennaio 1978, e, solo in patria, avrebbe venduto ben quattro milioni di copie in pochi mesi.

 


 

 

Blackswan, martedì 01/04/2025