Sono poche le band in circolazione che mi fanno perdere la brocca come gli O.R.k., quartetto cosmopolita composto da quattro musicisti di nobilissimo pedigree: Lorenzo Esposito Fornasari, più noto come LEF (cantante, produttore e compositore), Carmelo Pipitone alla chitarra (Marta Sui Tubi), Pat Mastellotto alla batteria (King Crimson) e Colin Edwin al basso (Porcupine Tree).
Non è, però, solo la caratura tecnica di una band che ha pochi eguali al mondo, e che potremmo chiamare supergruppo, se solo questa definizione non suggerisse il concetto di estemporaneità (il progetto giunto al quinto album è, invece, solidissimo) e fosse accostato spesso a fenomeni dal grande appeal mediatico ma dalla rilevanza artistica inconsistente.
A fare la differenza è soprattutto la capacità con cui quattro musicisti di diversa estrazione e nazionalità sono riusciti a trovare un terreno comune su cui fiorisce una musica che è passione e urgenza, e si sente a ogni nota, ma anche consapevolezza e ispirazione. Canzoni che hanno un’anima e un suono distintivo, che anche se pescano dal passato, coniugando gli strappi rabbiosi del grunge e la veemenza di certe bordate metal alla sensibilità alt rock anni ’90 e alla complessità espressiva di un approccio prevalentemente prog, mantengono una propria moderna identità.
Tutto brilla di luce propria in Firehose Of Falsehoods, la scrittura, gli arrangiamenti, la precisa dizione strumentale, e tutto fluttua, tra nostalgie passate e un hic et nunc in grado di stemperare l’urgenza emotiva, a volte addirittura impetuosa, con il suono avvolgente di melodie che intercettano il cuore delle canzoni con improvvisa trasversalità.
In un panorama musicale, come quello odierno, in cui le qualità tecniche dei musicisti, sembrano non interessare più a nessuno, con gli O.R.k. il virtuosismo torna a essere un elemento importante della musica. Non si tratta però di virtuosismo fine a se stesso, di pura esibizione di maestria, anticamera di un suono pomposo e barocco, ma di precisione, pulizia, dell’equilibrio fra spinta propulsiva e fraseggio, tanto ritmico, quanto melodico.
Il risultato è una scaletta sia arrembante che fantasiosa, in cui anche i brani più immediati trovano sempre uno scarto di direzione o un momento catartico che tiene lontano il prevedibile, l’ovvio.
D’innanzi a canzoni come "Hello Mother" o "The Other Side" l’ascoltatore viene catturato da un vortice temporale che risucchia nei solchi di "Badmotorfinger" dei Soundgarden, tanto il timbro di LEF rievoca, per estensione e potenza, quello di Chris Cornell. E se anche "Seven Arms", con una rilettura decisamente moderna, gira dalle parti di Seattle, trovando il perfetto punto di fusione fra cupo sprofondo alla Alice In Chains e la foga tutta ardore e furia dei Soundgarden, brani come la magnifica "16.000 Days" e "Putfp" sembrano omaggiare nella complessa tessitura emotiva il compianto Jeff Buckley.
Chiude la scaletta la lunga "Dive In", quattordici minuti che si riconnettono all’anima prog della band, aprendo le porte a un lungo viaggio sonoro dalle mille sfaccettature, tra momenti di lirismo e improvvise accelerazioni, che non dispiacerebbero ai fan dei Tool.
Se il tema che informa le liriche di Firehose Of Falsehoods è quello di rappresentare un mondo in cui il bombardamento mediatico incide, con il suo carico di falsità ed effimero, sulle vite degli esseri umani, la bellezza della musica è, per converso, come ogni forma d’arte, anelito di speranza e abbrivio di salvezza. Allora, basta mettere sul piatto questo disco per riconnettersi a un mondo autentico, lontano dalla vacuità che ci circonda e dagli strepiti del megafono social, e perdersi, felici, nell’emozione pura di canzoni che fanno tremare le vene dei polsi.
Voto: 8
Genere: Grunge, Alt Rock, Prog
Blackswan, mercoledì 09/04/2025