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venerdì 30 novembre 2012

THE POGUES – IN PARIS ( 30th Anniversary Concert At The Olympia )




Per Shane Mac Gowan vale l’assunto che spesso ho utilizzato per spiegare l’esistenza in vita di un altro filibustiere del calibro di Keith Richards : li vediamo in televisione e sul palco, li pensiamo concreti, reali, ma in realtà sono ologrammi. Diversamente, sarebbe impossibile spiegare, senza trascendere nel mistico, come mai questo cialtrone d’un irlandese sia ancora tra noi a poetare di sbronze e di reietti. Mac Gowan non è stato sobrio un giorno della sua vita, probabilmente nemmeno un minuto. Si è bevuto di tutto, godendo peraltro come un matto nell’ostentarlo, ha sempre fumato come un turco in sala parto, e si è drogato di ogni sostanza psicotropa, con un’esiziale preferenza per l’eroina. L’amica del cuore, Sinead O’Connor lo dava per morto già dieci anni, quando, dopo un surreale concerto tenutosi sempre all’Olympia di Parigi, sboccò sul palco rendendo partecipi gli astanti dei resti della sua cena. Invece Shane, non si sa come e non si sa perché, è arrivato nell’anno del signore 2012, a festeggiare con il suo pubblico il trentennale di carriera dei Pogues. A dire il vero, il ragazzo ( 55 anni il prossimo Natale ) non sta benissimo, e lo si capisce fin dal primo sguardo : sale sul palco e sembra un puzzle, peraltro venuto male, fra Paolo Limiti e Joe Pesci. Occhialoni neri,  il volto gonfio e incorniciato da capelli tinti col succo di carota, Shane non cammina, semmai sciabatta ( peggio di lui ho visto solo deambulare Johnny Winter, un paio di anni fa, a Trezzo sull'Adda ) ; non sta in piedi, evita di cadere, abbarbicandosi all’asta del microfono; ma soprattutto non canta, biascica e farfuglia frasi all’apparenza incomprensibili ( l’atavico problema della dentatura inesistente ). Però, il suo fottuto orgoglio irlandese, lo tiene ancora aggrappato alla musica, ai suoi Pogues, a quello sferragliante punk-folk che diede un senso ai miei ( e forse ai vostri ) anni ’80, liberandomi dal male che le cianfrusaglie synth-pop facevano alle mie orecchie. La band ( Dio mio, quanto sono invecchiati anche loro ! ) ci da dentro che è un piacere, suona a memoria ed è sempre la stessa indemoniata, frenetica, alcolica giga ( il pogo incandescente sotto il palco non tradisce mai ). Shane se ne sta in piedi, la sigaretta accesa, lo sguardo perso nel vuoto, e ci prova. Non sempre ci riesce, ma talvolta è ancora capace di toccarci il cuore. Quando parte Dirty Old Town, ad esempio, lui è più intenso, più vero che mai. Così anche nell’immensa Thousand Are Sailing, che oggi suona più epica e struggente di venticinque anni fa. E non sbaglia un colpo nemmeno nell’ovvio, ma esaltante, finale costituito da Fairytale Of New York ( stravince per ko tecnico il duetto con Ella Finer ) e Fiesta. Due canzoni che da sempre ci raccontano cosa hanno rappresentato i Pogues e Shane Mac Gowan nei cuori di tanti indomiti e orgogliosi fan : questo è il cielo d’Irlanda che si specchia in un boccale di Guinness. Finchè ce n’è, si fa bisboccia.

VOTO : 7



Blackswan, venerdì 30/11/2012

mercoledì 28 novembre 2012

COVERLAND




THE BEATLESELEANOR RIGBYVELVET OPERA

E’ sufficiente masticare un po’ di musica, per sapere che Revolver e Sgt Pepper dei Beatles sono due dei dischi più importanti della storia. Al punto che, una nota rivista musicale, Rolling Stones, li posiziona rispettivamente al 3° e al 1° posto ( al secondo c’è Pet Sounds dei Beach Boys ). Sempre ammesso che le classifiche abbiano una qualche ragion d’essere ( io non ne posso fare a meno, perché sono molto confuso e ho bisogno di ordine mentale ), si può discutere, e di solito i beatlesiani doc lo fanno, su quale dei due dischi sia il migliore. Io propendo per Revolver, che non è solo lo studio preparatorio per Sgt Pepper, come L’idiota di Dostojevki lo fu per i fratelli Karamazov, ma è invece un album immensamente suggestivo, seminale e complesso. Completo, come il suo successore, di tutte quelle trovate geniali ( basta ascoltare Tomorrow Never Knows per rendersene conto ) che fanno dei Beatles uno dei pochi gruppi della storia ad avere inventato musica e non solo un suono. Tra le gemme compositive di Revolver ( che non avrebbe un punto debole nemmeno a suonarlo al contrario, nonostante quello che lo stesso Lennon soleva dire di And Your Bird Can Sing ), Eleanor Rigby rappresenta uno dei vertici creativi della poetica di Mc Cartney. 





Perché non è solo una magnifica canzone, ma è soprattutto una canzone di rottura, una coltellata al ventre morbido del perbenismo e della superficiale spensieratezza di quegli anni colorati, psichedelici,e per molti versi, ingenui. Il tessuto melodico del brano è perfetto, calibratissimo. Ma ciò che colpisce davvero di Eleneor Rigby è il testo di disarmante verismo, parole che raccontano di morte, di disperazione, di solitudine, e probabilmente rappresentano la definitiva pietra tombale sulla prima parte di carriera del gruppo di Liverpool, che, da qui in avanti, diviene definitivamente maturo. Una canzone che non fa sconti, che non concede nemmeno un briciolo di speranza, e che affronta il tema dell'emarginazione del singolo e, quello più ampio, del ( nascosto ) disagio sociale dell’epoca, costringendo l’ascoltatore a un viaggio doloroso e angosciante nella cruda realtà delle miserie umana. 

Un cupo arrangiamento d'archi è l’architettura a sostegno di un testo il cui incipit è addirittura folgorante: " Eleonor Rigby picks up the rice in the church where a wedding was been.." ( Eleanor Rigby raccoglie il riso lanciato sugli sposi ). In un verso sublime e al contempo disturbante, viene racchiusa l'immagine di un'esistenza ai margini dell'altrui felicità: Eleanor raccoglie il riso, che gli altri gettano in un gesto tradizionale di festeggiamento, per poter mangiare e sopravvivere. Solo Dylan, fino ad allora,aveva avuto il coraggio di scrivere verità così raggelanti, e in modo tanto diretto, ma contempo straordinariamente lirico. 

La canzone venne ripresa qualche anno più tardi ( 1969 ) nell’album Ride A Hustler’s Dream ( uno zibaldone, solo in parte riuscito, di electric folk, space rock, psichedelica e pop rock )   dai Velvet Opera, gruppo psichedelico inglese capitanato da Richard Hudson ( in seguito con gli Strawbs ) e legato a doppia filo coi Pink Floyd ( a cui facevano da gruppo di supporto in tour ). Privata del testo, Eleanor Rigby, in mano ai Velvet Opera, diventa una lunga ( dura quasi sei minuti ) e sferragliante cavalcata in acido, nella quale il tema melodico viene strapazzato da un basso distortissimo e da un drumming convulso e frenetico. Una cover fresca, curiosa e stranamente eccitante.




Blackswan, martedì 27/11/2012

lunedì 26 novembre 2012

LED ZEPPELIN - CELEBRATION DAY

Passo felpato e somma circospezione. Qui si parla dei Led Zeppelin e ovunque ti giri c'è il rischio di far danni. Perchè, da un lato, l'essere fan del dirigibile non agevola il compito di parlare di questa golosissima uscita ; mentre, dall'altro, a dire quel che si pensa a tutto tondo, si rischia il reato di lesa maestà. Proviamo per gradi, allora, e con un certo ( obbligato ) distacco. Celebration Day è la ripresa del concerto dei Led Zeppelin, tenutosi a Londra il 10 dicembre 2007 alla 02 Arena, in memoria di Ahmet Ertegun (1923-2006), mitico fondatore del l'Atlantic Records. Il film, confezionato da Nexo Digital insieme a Warner Music, è stato presentato nelle sale cinematografiche il 17 ottobre ed è uscito il 20 novembre in varie sontuose edizioni per l'homevideo (Blu-ray, DVD, vinile e CD in varie combinazioni). Non volendo rinunciare al top, mi sono acquistato la versione cd + blue ray + dvd, il cui  packaging, ve lo assicuro, è davvero mirabile e vale il prezzo d'acquisto. D'altra parte, l'occasione è ghiottissima : i Led Zeppelin non suonavano insieme dal 1980, dopo essersi sciolti successivamente alla morte del loro batterista John Bonham, e questa probabilmente rappresenta anche l'ultima occasione, seppur datata di cinque anni, di rivederli insieme sul palco ( dietro alle pelli c'è Jason Bonham, figlio di Bonzo, e già batterista del Black Country Communion ). La qualità, tanto del cd ( un suono poderoso, pieno, energico ) quanto del video è eccellente. In particolare quest'ultimo, grazie alla regia di Dick Charruthers, si gusta molto volentieri per l'alta risoluzione delle immagini e per un montaggio dinamicissimo che rende avvincente ogni sequenza. La scaletta è ovviamente quella di un best, basta mettere il soldino nel juke box e ogni fan  troverà la propria canzone Zep preferita, da Kashmir a Whole Lotta Love, da Rock'n'Roll a No Quarter. I tre "ragazzi " ( + Bonham Junior, che sfrutta al meglio l'occasione per non far rimpiangere il tanto venerato padre ), sanno il fatto loro ( che banalità scriverlo ) : la classe non è acqua, Page resta uno dei più grandi chitarristi in circolazione, John Paul Jones passa dal basso alle tastiere con consumata naturalezza, e si può anche perdonare al buon Robert Plant se di acuti non ne fa più tanti e se al mixaggio si sono dannati l'anima, effettandogli la voce, per cercare di mantenere la prestazione canora a un livello alto. Impossibile, ovviamente, parlare di canzoni il cui livello compositivo  e la cui rilevanza storica sono leggenda ormai da quasi quarant'anni. Si ha però a tratti la sensazione che nonostante un cuore grosso così e una perizia da fenomeni, il tempo abbia lasciato qualche strascico di ruggine. Allora, a fronte di alcune esecuzioni scintillanti e potenti come nel caso di In My Time Of Diyng, Ramble On e Nobody's Fault But Mine, ci sonocose meno riuscite come nella riproposizione del superclassico Stairway To Heaven, così fiacca da sembrare suonata non dagli Zep ma dai loro nonni. Poco male. Di fronte a un evento musicale di questa importanza si può tranquillamente sorvolare sulle sfumature e su qualche inevitabile magagna. Perchè, in fin dei conti, Celebration Day si acquista non solo per ascoltare canzoni che si conoscono a menadito, ma soprattutto per tenersi stretti al cuore l'ultimo saluto di una delle più grandi band del pianeta. Nei secoli dei secoli.
 
 
VOTO CD :   7,5
VOTO DVD : 8,5
 
 
 
 
 
 
Blackswan, lunedì 26/11/2012

domenica 25 novembre 2012

IO SONO UN MEDIANO - SECONDA PARTE



A proposito di randellare : a cagione di una certa esuberanza atletica e di un'interpretazione sommamente virile del ruolo, finii con il tempo per collezionare una serie di soprannomi non certo lusinghieri, anche se, devo ammettere mio malgrado, decisamente azzeccati. Il primo nomignolo me lo affibbiarono dopo un derby contro la Cascina Ferrara ( ai tempi giocavo a Saronno, nella squadra del Quartiere Santuario ), partita che terminò con una mega rissa da saloon e conseguente retata delle forze dell'ordine. Pioveva a dirotto, il campo era ridotto a un acquitrinio fangoso e la rivalità piuttosto accesa fra le due compagini aveva, per così dire, esacerbato un filo gli animi dei tifosi. Accecato dall'ardore, con una proditoria ( e assai scomposta ) entrata in scivolata, riuscii  nell'impresa di atterrare ( rectius : abbattere ) tre avversari in un colpo solo ( credo che il record resista imbattuto a ogni latitudine del globo ). Da quel giorno, venni chiamato " il chirurgo ", appellativo al quale, nel corso degli anni, ne seguirono altri, non meno lusinghieri, quali " assassino ",  " zappatore ", "il bastardo " e per finire "il collezionista di ossa ". Che poi, a dire il vero, non ero nemmeno così cattivo: nella mia carriera ho preso solo tre espulsioni e tutte per fallo di reazione ( quando mi sputavano, spero capiate, mi partiva l’embolo della violenza ). Tuttavia, finirono per disegnarmi così, e la cosa, a dire la verità, mi dispiaceva assai, dal momento che, in cuor mio, sapevo di essere un giocatore un pò ruvido ma sostanzialmente leale.D’altra parte, quello del mediano è un ruolo difficile e reietto, che vive soprattutto di contraddizioni prima che di epica. Altro che l’immagine banale e stereotipata di cavaliere senza macchia e senza paura, data da Ligabue in quella pessima canzone che, ne converrete, ha finito per deprimere un’intera categoria di onesti faticatori. Perché, diciamocelo fuori dai denti, il mediano è sostanzialmente uno sfigato, è il nerd del gruppo. Quando la squadra vince, il mediano la coppa non la alza, al massimo la lucida, e nelle foto di rito, quelle che incensano la vittoria, lo troverete sempre in seconda fila, il volto stravolto e il sorriso impallato da un braccio o una mano di qualcuno che esulta. Un mediano è il collante ( anche fisico ) e l'anima della squadra, la prova materiale della giustezza del termine "collettivo ". Eppure è solo, è il giocatore più solo di tutti. Non per indole, ma per necessità : un mediano dialoga con i propri pensieri di fatica, ascolta il grido disperato di polmoni esausti, si concentra su cose belle e lontane per sopportare il dolore delle botte prese ( e date ), vive in un universo parallelo nel quale non esistono delizie ma solo croci da portare. Il mediano vive nell'ombra, è brutto a vedersi, è sbeffeggiato per i piedi grezzi, e sa nell'intimo che la riconoscenza non circola mai dalle sue parti. Li guardi negli occhi i mediani e hanno tutti lo stesso sguardo : un lampo di generosità annebbiato da quel velo di smarrita tristezza che affligge tutti coloro che già conoscono il proprio destino. Perchè se uno è un numero 4, lo sarà per sempre, sul campo e nella vita.

Ormai, ho smesso di giocare e faccio l'allenatore. Un pò per sopraggiunti limiti d'età e un pò ( molto ) perchè mi sono rotto, distorto e lussato tutto lo scibile osseo e legamentoso: due denti, il setto nasale, tre dita della mano, due costole, entrambe le caviglie, un ginocchio e tre o quattro articolazioni di cui non ricordo il nome. Mi manca, come l’ossigeno sott’acqua, il campo da gioco, quel rettangolo verde che un tempo era di erba e oggi,  spesso e volentieri è un tappeto artificiale zeppo di bruscolini di gomma tossica. Eppure, sono felice perchè sto ancora in mezzo ai ragazzi, insegno quel poco di calcio che conosco, continuo a emozionarmi per il rumore dei tacchetti sul pavimento dello spogliatoio, per l'odore di sifcamina che punge le narici e per quello meno nobile del sudore e del fango nel dopo partita. Ho anche cambiato il mio modo di vedere il calcio : un tempo correvo per difendere, oggi produco alchimie tattiche  per riuscire a mettere in campo tre punte e magari anche un paio di ali alte. E' strano, ma da mister son tornato la punta che tutti pensavano fossi da ragazzino. Nell'anima però non sono cambiato e la vita continuo a viverla, ogni giorno, con quel maledetto numero 4 marchiato a fuoco sulle spalle. Che sempre mi ricorda chi sono. Correre, soffrire, sudare e apparecchiare la vittoria per gli altri. Senza gloria, un riconoscimento o un grazie. Se va bene, forse, arriva la pacca sulle spalle, ma non sempre è Natale. Se sei un mediano, non ci sono cazzi, funziona così. E da tempo, ormai, me ne sono fatto ( un’orgogliosa ) ragione.

Il Post è dedicato a Giacinto Facchetti, idolo della mia infanzia, a Lele Oriali, che oggi compie sessant'anni, ed è stato il mio modello calcistico, e a Oreste, che non c'è più e mi manca tanto.



 

Blackswan, domenica 25/11/2012

sabato 24 novembre 2012

IO SONO UN MEDIANO


Ho inziato ad amare il calcio molto presto, all'età di quattro o cinque anni, non più tardi. Questione di Dna, credo : mio nonno materno aveva militato in serie A, nelle fila della mitica Pro Patria. Lo chiamavano il motorino biondo, per via dei capelli chiari e di un'inesauribile propensione alla corsa. Si ritirò ancora giovane, a causa di un grave incidente al costato, solo poco prima di firmare un contratto per la Juventus, e ho sempre pensato che quel grave infortunio fosse un suo anticipato tributo d'affetto al nipote interista che sarebbe nato quarant'anni dopo ( se avesse militato nella Juve, per la vergogna mi sarei dato al curling o alle bocce ).Ho ricordi chiarissimi delle partite che guardavo nel televisore in bianco e nero della sala, seduto sulle gambe del nonno. Ogni tanto, gli chiedevo per quale delle due squadre tifasse, e lui mi rispondeva sempre, con salomonico ritegno, : " Per quella che gioca il calcio più divertente ". Ero troppo piccolo per riflettere sulla cosa : a me piaceva veder rotolare la palla, e non capivo una ceppa di triangolazioni, sovrapposizioni, assists e rabone. Quindi incassavo la frase come un'oscura, ma ineffabile verità, e mi limitavo a fissare a bocca aperta quel pallone bianco a scacchi neri, che di lì a breve sarebbe diventato, insieme alla musica, il compagno di avventure della mia vita. Finchè il pallone rotolava, io ero contento e mi divertivo. E tanto bastava, Ancora non avevo la squadra del cuore, dal momento che, a casa mia, a parte mio nonno, nessuno si interessava di sport, e mio padre, che al massimo si dichiarava tiepidamente " simpatizzante del Torino ", ostentava una discreta  antipatia per chiunque fosse tifoso di calcio ( un branco di invertebrati, diceva ). Fu lui, però, a instillarmi la passione per i colori nerazzurri e, per quanto mi riguarda, credo sia stata la cosa migliore che abbia fatto nella sua vita. Era domenica pomeriggio e la Rai passava un tempo della partita più importante della giornata : Milan- Inter. D'istinto, e per quello che si poteva vedere nello schermo sgrausissimo di una televisione in bianco e nero dell’anteguerra, mi schierai per la squadra che sembrava indossare la casacca più bella, nello specifico l'Inter. Ma quando la Beneamata iniziò a prendere un goal via l'altro ( perdemmo di brutto, quella volta ), cambiai immediatamente barricata e mi schierai in favore del Milan ( questo è coming out, baby ! ). Quando lo spiegai a mio padre, che stranamente si era interessato ai miei movimenti, mi assestò uno scapellotto e mi apostrofò col termine, per me allora incomprensibile, di "voltagabbana". Non capivo cosa volesse dire, ma suonava malissimo, e da quel momento iniziai una carriera da interista sfegatato, non fosse alto per evitare ulteriori randellate sul coppino.

I primi calci al pallone li tirai al campetto davanti a casa : partite esagerate, dalla durata media di tre ore, due felpe a fare i pali della porta e il portiere volante a dare un tocco di imprevedibilità all'agone. Se ero abbastanza veloce a dirlo prima degli altri, io facevo Facchetti ( ciao Cipe ! ) e non c'era verso di farmi cambiare idea, anche se, di solito, finivo per giocare di punta ( il più grande equivoco calcistico della mia vita iniziò a perseguitarmi fin dalla tenera età ). Quando scendevo al campetto a giocare, me ne andavo in giro tutto orgoglioso, indossando la mia maglietta nerazzurra numero 3 ( un pò lunga di maniche a dire il vero ), un paio di fantastiche scarpette Tepa Sport nere e tenendo sotto il braccio il mitico Tele ( che volava, e che quindi veniva messo dietro la porta, per essere utilizzato solo nel caso in cui il pallone di cuoio si perdesse o si bucasse ).
La  prima vera squadra in cui militai fu quella dell'Oratorio di Via Soderini : l'allenatore dei Pulcini mi aveva visto giocare al campetto e mi volle a tutti i costi in rosa. Con il benestare dei miei genitori, accettai  la proposta e così mi ritrovai, con una scintillante casacca gialloverde, a vestire ( nuovamente )i panni dell'attaccante ( perchè tutti pensassero che fossi una punta, dio solo lo sa ). Siccome non era il mio ruolo, feci un solo goal in quindici partite : una leppa al volo sotto l'incrocio, così bella e precisa che ancora oggi faccio fatica ad attribuirmene la paternità. Un solo goal per un centravanti è un pò pochino, lo so. Il fatto è che io non ero una punta ( non lo sono mai stato ), e anche se molti dei miei allenatori era intimamente convinti che fosse il mio destino, io desideravo giocare più dietro, a centrocampo. Perchè nel calcio ci sono due tipi di giocatori : quelli che hanno un ruolo e quelli che se ne ritagliano uno. Io conoscevo già il mio, lo sentivo nelle gambe e nel sangue, e lo capivo da come guardavo le partite e intuivo i movimenti della palla. Io ero un mediano. Non ho mai avuto i piedi buoni e il fiuto del goal: troppo emotivo per dare la schiena alla porta e trovare l'attimo giusto per girarmi e insaccare. 

E poi, ho sempre pensato che dare la schiena alla porta fosse un pò come voltare le spalle al mondo e vivere di espedienti : che il lavoro lo facciano gli altri, io sto qui pronto ad approfittare dell'occasione per rubare un pò di immeritata gloria. Perchè per fare la punta, lo dico con rispetto e ammirazione, ci vuole l'istinto del killer, una buona dose di cinismo e molta freddezza. Tutte doti di cui ero ( e sono ) completamente sprovvisto. Ad ogni modo, campetto o oratorio che fosse, io finivo sempre per giocare in attacco, e ben presto iniziai a capire il ruolo e ad adattarmi a movimenti che sentivo innaturali come lo sarebbe pulirmi le chiappe con la carta vetrata. Finchè un giorno, un mio allenatore ( più intuitivo di tutti gli altri ), stufo di vedermi correre a perdifiato nel tentativo commovente, ma decisamente sterile, di segnare qualche goal, mi accontentò e mi mise a giocare in mediana. E da quel momento, la mia vita ( calcistica ) cambiò. In meglio. Ero felice ed ero sempre titolare, mica pizza e fichi. Vorrei tuttavia precisare una cosa, tanto per non ingenerare equivoci : non pensate a me come al classico centrocampista dalla testa alta, i piedi buoni e il lancio millimetrico. Io correvo come un bufalo sbronzo, rompevo le trame di gioco avversarie, facevo a sportellate come un vichingo all’assedio, picchiavo come un fabbro incattivito da problemi di acidità e mi limitavo poi a passare la palla a quelli tecnicamente più validi.

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 Blackswan, sabato 24/11/2012

venerdì 23 novembre 2012

HERITAGE BLUES ORCHESTRA - AND STILL I RISE


GENERE : Blues
 
Lo dico subito così da togliermi il pensiero : And Still I Rise è il miglior album blues del 2012, non ci sono cazzi. Un lavoro tanto bello, accurato e suonato bene che, anche in assoluto, senza fare distinguo di generi, entra fra la top ten dei migliori dischi dell'anno. I due leader della Heritage Blues Orchestra, qui al loro esordio, sono Bill Sims Jr. e Junior Mack, due vecchie volpi del panorama blues internazionale. A fianco a loro, la splendida voce di Chaney Sims, l'armonica fantascientifica di Vincent Bucher e un'infuocata sezione fiati capitanata da Bruno Wilhem, altro navigato marpione, noto ai più per aver suonato di tutto e con tutti. Quello che piace di questo disco è soprattutto l'approcio filologico, l'attenzione a ricostruire, attraverso traditional e standars, cent'anni di storia del blues, con assoluto rispetto e devozione, senza però cedere alla tentazione della convenzione e del pedissequo. L'album, infatti, pesca in un repertorio noto, ma pur rispettando le origini e lo spirito da cui ogni canzone nasce, le rivitalizza con un suono che è al contempo classico e moderno, caldo, avvolgente e ricco di sfumature. In questo opera prima della HBO, si trova tutto quello che riguarda il blues ( sarebbe il caso di dire che il genere viene rivoltato come un calzino ), a partire dalle seducenti sonorità africane di C - Line Woman che ci fanno viaggiare fino alle terre del Mali, dove tutto ebbe inizio. Ogni canzone del disco suona come un lungo abbraccio a tre, tra musica, musicisti e ascoltatore: un abbraccio che omaggia d'affetto il blues e  tutti coloro che continuano a essere immanorati di un genere che sembra non invecchiare mai. L'iniziale Clarcksdale Moan, ripresa da Son House, riscopre l'epica sudista del folk-blues ; l'infuocata Catfish Blues di Muddy Waters ( ascoltate il lavoro pazzesco di Bucher all'armonica ) stilla sangue e sudore da uno swing orchestrale adrenalinico ; mentre la chiosa di Hard Times crea un' incredibile alchimia fra blues e jazz, che sfuma in un'inaspettata coda funky. Il resto del disco sono meraviglie che lasciano a bocca aperta l'ascoltatore, trasportandolo in un viaggio di suggestioni da New Orleans alle rive del Mississippi, tra carezzevoli nenie gospel e sferzate elettriche di scintillanti chitarre. Imperdibile.
 
VOTO : 9
 
 
 
 
 Blackswan, venerdì 22/11/2012