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lunedì 30 novembre 2015

IL MEGLIO DEL PEGGIO





Riceviamo dalla nostra freelance Cleopatra e integralmente pubblichiamo.

"Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico. E' meglio prendere 97 a 21...Il voto è importante solo perchè fotografa un piccolo pezzo di quello che siamo ma è necessario rovesciare radicalmente questo criterio. Ci vuole un cambio di cultura" (Giuliano Poletti).

"La storia secondo cui c'è un posto dove si va a lavorare, la fabbrica, è finita. Il lavoro non si fa in un posto: Il lavoro è un'attività umana, si fa in mille posti...Faccio un esempio. Arrivano delle mail all'una di notte, se le considero interessanti, rispondo. Domanda: è un sabato notte, all'una, e io sono nel mio letto...quello è definibile luogo di lavoro? Per me no, però io sto lavorando e sto rispondendo a una mail...Dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l'ora di lavoro ma la misura dell'apporto dell'opera. L'ora di lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l'innovazione" (Giuliano Poletti).

Considero le parole di Giuliano Poletti un insulto all'intelligenza. Un affronto. Ora, a parte i casi di studenti che se la prendono comoda all'università "che tanto paga papà", la demonizzazione di quelli fuori corso o di coloro che ritengono di meritare un voto diverso, la trovo quantomeno irriguardosa e fuorviante. Ci sono i disciplinati che rispettano il piano di studio, salvo poi ingrossare le fila dei disoccupati o dei precari, e ci sono gli altri, quelli che non si laureano nei tempi stabiliti, perchè già lavorano e magari con il lavoro si pagano gli studi. O quelli che rifiutano un voto, non per superbia intellettuale ma perchè la media alta è un requisito preferenziale per trovare lavoro. Negli ultimi anni si sono sprecati epiteti offensivi nei confronti dei giovani. Dai "choosy" agli "sfigati" dell'era Monti, fino al governo Letta. L'allora Ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza disse: "Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella vita". E, ora, anche l'ex presidente delle Coop non le manda a dire. Peccato che loro, i politici, predicano bene e razzolano male, a cominciare dal Premier che non avrebbe mai lavorato un giorno in vita sua. Molti non sono neppure laureati, come Giuliano Poletti, e hanno l'ardire di farci la morale, fingendo di non sapere che l'universo- lavoro è fatto di tanta gente che fatica, che affronta giornalmente turni di lavoro massacranti, il più delle volte è sottopagata (pensiamo ai call center) e che molto spesso svolge un lavoro diverso da quello per cui ha studiato. Il rubicondo Poletti pensa che cottimizzare il mondo del lavoro sia la soluzione ideale, in nome del dio Profitto. Hanno svuotato l'istruzione, hanno umiliato la cultura, hanno abolito l'articolo 18 e, non abbastanza paghi, stanno pensando anche di rottamare l'orario di lavoro.
Per chi avesse ancora qualche dubbio, ci troviamo difronte ad uno scenario inquietante: è in corso lo scardinamento dei principi su cui si basa la tutela del lavoro. Il liberismo capitalistico ci sta avvolgendo nelle sue spire. Nulla sarà più come prima e ai politici non interessa un fico.

Silvio Berlusconi: "Ho convinto Gheddafi a mettere 6mila soldati per fermare l'immigrazione dalla Libia. Inoltre, l'ho convinto anche a usare il bidet..."

Matteo Salvini: "Guerra all'Isis? Sono pronto a combattere. Ho fatto un anno di servizio militare nel '95, ma sarei pronto anche a combattere: io ci sono".

Matteo Renzi sul terrorismo: "Io sono per taggare i terroristi"
  
Cleopatra, lunedì 30/11/2015

domenica 29 novembre 2015

GENTLEMANS PISTOLS – HUSTLERS ROW



A uso e consumo di chi incontra per la prima volta il nome dei Gentlemans Pistols, un paio di coordinate bisogna darle. Formatisi a Leeds nel 2003, la band capitanata da James Atkinson ha faticato non poco a trovare un line up stabile: i continui cambi di formazione sono cessati solo nel 2009, quando fra le file della band è entrato a far parte Bill Steer, che molti probabilmente ricorderanno per la sua militanza nei mitici Carcass. Ciò ha comportato scarsa visibilità e una produzione artistica balbettante, coagulatasi intorno a un paio di Ep e a un album d’esordio passato praticamente sotto silenzio. Hustlers Row è quindi la prima prova importante di un gruppo che, al di là delle precedenti militanze dei propri componenti (Atkinson proviene dall’ hardcore, Dubbins, il batterista, dallo zombiecore), ha deciso di puntare decisamente su un suono molto vintage, camera con vista sugli anni ’70 ((la copertina del disco e la grafica del booklet sono in tal senso assai esplicite) e su tutto quell’armamentario hard rock che, ai tempi, generò grandi band e album assai interessanti. Non ci vuole molto, una volta messo il disco sul piatto, per cogliere la sovrabbondanza di riferimenti storici a cui si ispira la musica dei Gentlemans Pistols: se l’iniziale The Searcher strizza l’occhiolino a certe accelerazioni di sabbathiana memoria, il resto dell’album pesca a piene mani dal repertorio di Ufo, Free e Thin Lizzy. Il risultato, come succede spesso in questi casi è, a dir la verità, abbastanza deludente. Se è fuor di dubbio che la band riesce a sfornare un sound solido, compatto e privo di sbavature, per converso ci troviamo però di fronte a una scaletta, il cui il tasso di fantasia e creatività è al minimo sindacale. Nessuna impennata d’orgoglio, niente che si faccia ricordare, ma solo una replica ben suonata di un hard rock blues che conosciamo già a menadito. E’ molto probabile che i Gentlemans Pistols troveranno molti estimatori, soprattutto fra quegli ascoltatori che si sentono orfani di amplificatori valvolari e riffoni tagliati con l’accetta. Chi invece cerca nella musica anche un minimo di originalità è avvertito: meglio recuperare e ascoltare i dischi di papà.

VOTO: 6






Blackswan, domenica 29/11/2015

sabato 28 novembre 2015

LE ULTIME DICIOTTO ORE DI GESU’ – CORRADO AUGIAS



A proposito di Gesu’, l’anno scorso, piu’ o meno di questi tempi, completai la lettura, piuttosto ostica, di I Vangeli di Pietro Citati. Testo complesso, in cui lo scrittore e critico letterario fiorentino metteva mano alle sacre scritture in un tentativo, peraltro perfettamente riuscito, di esegesi testuale. Di tutt’altro registro è, invece, il nuovo libro a firma di Corrado Augias, il quale, pur essendo un finissimo letterato e uno storico molto preparato, preferisce spingere il piede sull’acceleratore della divulgazione invece che rivolgersi a una ristretta nicchia di lettori eruditi. Augias, con metodo e chiarezza espositiva, ricostruisce le ultime ore di vita di Gesu’, intessendo sul canovaccio dei Vangeli e delle fonti storiche un intreccio narrativo dal sapore romanzesco. Ne deriva una lettura agile e ritmata, che conduce il lettore per mano attraverso fatti lontanissimi nel tempo e dati, forse, un po’ troppo per scontati. Attraverso il punto di vista di personaggi di fantasia, come il filosofo Caio Quinto Lucilio (geniale l’anacronismo finale che cita Leopardi), e altri, invece, realmente esistiti (giganteggia su tutti la figura controversa di Ponzio Pilato), Augias raggiunge due obiettivi: in primo luogo, forzando anche un po’ la mano alla fantasia, ricostruisce una versione plausibile di quei concitati eventi che porteranno Gesu’ sulla croce (la cacciata dei mercanti dal tempio, i giochi di potere all’interno del Sinedrio, la folla sobillata da agitatori di professione, i dubbi, tutti politici, di Pilato); in secondo luogo, e questo è l’aspetto più avvincente della lettura, Augias riesce a umanizzare la figura di Gesu’, senza tuttavia privarla di quel manto di spiritualità con cui da sempre la conosciamo. Col risultato, non semplice da raggiungere, di rendere fascinosa e vivida, anche agli occhi dei non credenti, la figura di un uomo, che asseconda un destino più grande di lui e che si prepara alla morte, attraverso dubbi, paure e tormenti infiniti, spirituali e materiali. Intorno ai personaggi principali, ruota, poi, una serie di figure a noi note, che diventano testimoni e voci narranti della vicenda: Maria Maddalena, il padre Giuseppe (davvero toccanti le pagine che descrivono l’inusuale rapporto affettivo fra padre e figlio), Claudia Procula, la moglie di Pilato, che cerca fino alla fine di salvare Gesu’, e Giuda, per il quale, mi pare di aver intuito, Augias fa riferimento alla famosa finzione di Borges (il vero Cristo è Giuda, perché si è immolato come traditore agli occhi della storia e di tutta l’umanità). La sensazione finale, lo scrivo da agnostico senza cedimenti, è che non solo Le Ultime Diciotto Ore di Gesù sia un ottimo libro storico, che centra i suoi intenti divulgativi, ma soprattutto che sia un’opera in grado, per nitore concettuale e autorevolezza, di indurci a una serie di riflessioni non banali sul sacrificio estremo di Gesù.

giovedì 26 novembre 2015

DAVE GAHAN & THE SOULSAVERS - ANGELS & GHOSTS



Accantonata per il momento la fortunatissima avventura con la casa madre, il frontman dei Depeche Mode, Dave Gahan, torna al suo progetto parallelo, sfornando il secondo album a firma sua e dei Soulsavers. Come domandarsi: esiste vita sul pianeta terra al di fuori del pigmalione artistico con Martin Gore? Si, esiste, come peraltro Gahan aveva già dimostrato nel precedente, ottimo, The Light The Dead See (2012). Anzi, c'è così tanta buona musica in questo secondo full lenght a titolo personale, che quasi ci si rammarica che alcune di queste canzoni non siano finite su Delta Machine (2013), ultima fatica a firma DM, che avrebbe potuto essere anche migliore di ciò che in realtà fu. Perchè, a ben ascoltare, Gahan in solitaria riesce a tirare fuori un suono più caldo e bluesy, in bilico fra luce e penombra, lontano per indole da quell'algida, ancorchè riuscita, architettura di synth che da sempre caratterizza la musica dei Depeche. Ci sono più angeli che demoni nelle nove tracce che compongono il disco, come a dire che il peggio è passato (dipendenze assortite e malattie potenzialmente esiziali) e che i fantasmi tornano solo di tanto in tanto a far breccia, come doloroso, ma utile, ricordo, nella vita artistica di uomo che ormai tiene saldamente in mano il timone del proprio destino. Ed effettivamente, l'impressione che si ha fin dal primo ascolto è che Gahan sia perfettamente consapevole del proprio lavoro e della direzione presa, tanto da asciugare la durata dell'album a beneficio della qualità delle canzoni (solo nove, come dicevamo), a cui peraltro non manca, pur nella loro diversità, un andamento estremamente omogeneo. Gli echi DM si colgono subito (l'iniziale gospel di Shine fa pensare a certe atmosfere di Songs Of Faith And Devotion; e c’è la voce, poi, che in fin dei conti, è sempre quella), ma in sostanza il disco ha personalità, si sviluppa su orchestrazioni avvolgenti (la stupenda Lately), si perde in atmosfere bluesy di malinconica introspezione (You Owe Me) e si abbandona a piani sequenza su soundscapes altamente evocativi (My Sun e One Thing). C'è spazio anche per due episodi più strutturati (Tempted, dai sentori post rock, e il singolo All Of This And Nothing) che dimostrano tutto il mestiere e l'eleganza, anche formale, di cui è capace Gahan. A cui, di fronte a una scaletta senza cedimenti, perdoniamo anche il numero ridotto di fantasmi presenti e il mood più rilassato. Un po’ di tormento in più e, forse, anche qualche sbavatura, avrebbero trasformato un disco ampiamente riuscito in un vero e proprio gioiello.

VOTO: 7,5 





Blackswan, giovedì 26/11/2015

martedì 24 novembre 2015

MOJO MAN - BALLS & HORNS



Se prendete questo disco e lo mettete sul piatto, senza avere la minima cognizione di chi siano i Mojo Man, tutti, ma proprio tutti, vi sentirete immediatamente catapultati nel Sud degli Stati Uniti. Questa miscela di hard rock blues speziata di southern arriva, invece, dall'Olanda, e precisamente da L'Aja, dove il gruppo capitanatoo dal solido chitarrista e cantante, Marcel Duprix, ha iniziato a muovere i primi passi e ora esordisce con un suntuoso full lenght. Non è una novità che, soprattutto il Nord Europa (a parte l'ovvia contiguità con la terra d'Albione), senta forte il richiamo proveniente dagli States: basta aprire una rivista specializzata in musica americana e rendersi conto di quanti artisti o band peschino a piene mani nella grande tradizione a stelle e strisce. Ma è anche vero che, per non essere meri replicanti, e riuscire a farsi notare lontano da quelle terre, occorre metterci qualcosa in più, un pizzico di originalità che consenta di emergere dal sottobosco dei club prive. I Mojo Man non nascondono certo i propri modelli artistici, e basta un primo ascolto per rendersi conto che alla base di questo disco ci sono ripetuti ascolti di Black Crowes e JJ & Mofro (o magari i Widespread Panic di Night Of Joy), per citare due nomi facilmente accostabili, ma anche tanta musica nera, quella che annovera fra i suoi campioni James Brown e Otis Redding . Dalla loro, i Mojo Man ci mettono però un'energia pazzesca, un'ottima vena compositiva e soprattutto un suono effervescente, che riesce a equilibrare con sapienza il muscolo della chitarra elettrica e il groove di una sezione fiati scintillante. Rock blues, dicevamo, declinato con accenti hard e riffoni travolgenti (Is It A Crime e Wild Flower), o guardando alla grande tradizione texana (lo swing sudatissimo di The Ship Is Sinking) oppure omaggiando i propri miti (l'iniziale Scarecrow e il singolo Hip Shakin' Mama sono figlie di una vera e propria Black Crowes mania). Niente di pazzesco, per carità, ma di certo un disco che sorprende proprio perchè concepito a distanza di migliaia di chilometri da dove questa musica nasce, senza peraltro che si noti la differenza. E poi, quando le metterete sul piatto, vi accorgerete quanto sarà difficile toglierlo: troppo divertente per cambiare canale.

VOTO: 7





Blackswan, martedì 24/11/2015