Quando nel 2001, la leggendaria etichetta discografica
Flying Nun diede alle stampe 6twenty,
primo 33 giri dei D4, il cantante/chitarrista Dion Lunadon (all’epoca
accreditato Palmer, il suo vero cognome) era già un personaggio di punta della
scena underground neozelandese grazie alle collaborazioni con importanti band
come Rainy Days e Scavengers e all’esordio in proprio con i Nothing At All!
avvenuto nel 1995. I D4 pertanto non dovettero faticare più di tanto per
catturare l’attenzione della critica e degli appassionati di Garage/Punk venendo
presto accomunati alle next big things più chiacchierate di quell’annata
Strokes e Black Rebel Motorcycle Club, e quindi cooptati in tour dagli
scandinavi Hives all’apice della loro popolarità. Nonostante questi inizi più
che promettenti, i D4 non riusciranno comunque ad uscire da un sostanziale anonimato,
soprattutto commerciale, e nel 2006, dopo la pubblicazione di un secondo album,
Out Of My Head (bello quanto il
primo, se non di più), la band giunse al capolinea per entrare a buon diritto
nel novero delle cult-band degli anni zero. Da allora per Lunadon, trasferitosi
nel frattempo negli States, un nuovo tentativo con i True Lovers (True Lovers, 2009) e, infine, l’anno
successivo l’ingresso nel nucleo fondativo dei newyorkesi A Place To Bury
Strangers con i quali collabora tutt’ora ricoprendo il ruolo di bassista. Questa,
in breve, la storia del talentuoso ed instancabile musicista di Auckland, una
storia comune a tantissimi altri eroi minori del Rock fatta di cocciutaggine, coerenza
stilistica, voglia inesausta di stare on stage, estratto conto sempre tendente
al rosso così come la lancetta del volume dell’ampli ogni volta che ci regala
il suo devastante Punk’n’Roll.
Così questo ultimo e omonimo full lenght, così
gli undici pezzi che ne compongono l’entusiasmante scaletta: un’esauriente
compendio sonoro dei suoi primi vent’anni di carriera a cui danno man forte
Robin Gonzalez degli APTBS, Blaze Bateh dei Bambara e il produttore Chris
Woodhouse (Ty Segall, Thee Oh Sees). C’è di tutto qui dentro, un patchwork di
influenze da perdere la testa, Post/Hardcore, Noise, Psichedelia e naturalmente
tonnellate di Garage/Punk. Lunadon cita se stesso e facendolo chiama a raccolta
i suoi eroi musicali ai quali, c’è da scommetterci, non verrà mai meno: Iggy,
Rob Younger e Arthur Brown (la pazzesca versione di Fire), i Black Flag e i Sonics. Insurance,
Rent and Taxes, Reduction Agent, Move, Ripper, il singolo Howl, assalti sonori, senza se e senza
ma, in cui l’ultima delle preoccupazioni è quella di farsi distrarre dalle
sirene del mainstream, non c’è nulla di amichevole in Dion Lunadon per chi ha stabilito che il Rock ha esaurito la sua
carica propulsiva e disturbante qualche decennio fa. Ogni volta che partono i
riff arroventati, il fervore da punker di razza, le improvvise accelerazioni contrappuntate
da una inusitata ferocia vocale, si esulta ripensando ai tanti momenti della
storia del Rock durante i quali questo era il minimo sindacale. Esisteva un
pubblico, maggioritario e distratto, a cui bastava il Pop e la Dance mentre,
dall’altra parte dello steccato, c’era chi annusava i vinili dei Fugazi o degli
Hüsker Dü centellinandone i
sentori neanche fossero i vini più pregiati dell’enoteca di Veronelli. Se vi
riconoscete tra questi ultimi, tra coloro che ogni tanto una mano di vernice a
quello steccato la date ancora, cercate questo trascinante, rumorosissimo,
imperdibile disco di Dion Lunadon, unica controindicazione il crampo all’indice
che vi verrà a furia di schiacciare il tasto repeat.
VOTO: 8
Porter Stout, venerdì 23/06/2017
Desidero ricordare assieme a te Stefano Rodota; so che lo stimavi e che lo avresti voluto, come me, Presidente della Repubblica.
RispondiEliminaCristiana
@ Cristiana: cara Cris, ne parlavo proprio stamattina con l'autore di questo post. Una perdita che difficilmente riusciremo a rielaborare, un uomo che ha speso la propria vita difendendo la Costituzione.Mi mancherà tantissimo.
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