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venerdì 30 novembre 2018

PREVIEW




“L’orgoglio è qualcosa di volubile ed è di solito fuori luogo. È come essere rollati e poi fumati.”
Capeggiati dal texano Danny Lee Blackwell, i Night Beats sono in dirittura d’arrivo col loro quarto album. Per quanto il leader si sia sempre nutrito dell’eredità musicale delle sue radici texane – Roky Erickson e i 13th Floor Elevators, The Red Krayola, The Black Angels e altri ancora che hanno aperto la strada ai viaggi psych-rock rivestiti di napalm degli album precedenti – Myth Of A Man lo ha tirato fuori dalla fonte surrogata di Nashville, Tennessee. È qui che Blackwell ha lavorato con Dan Auerbach (The Black Keys) e una congrega micidiale di musicisti – il peso combinato dell’esperienza che deriva dal lavorare con le leggende, da Aretha Franklin a Elvis. “Ho provato una grande umiltà nell’essere accettato,” spiega “da questi grandi cuori tutt’intorno.”
In breve, è un album che può stare accanto ai classici, meno acido di Sonic Bloom (2013) e Who Sold My Generation (2016). Blackwell ha ricalibrato la scrittura, l’ha rallentata a sufficienza per permettere alle canzoni di respirare ed esistere come qualcosa di nuovo. È un capitolo diverso dello stesso libro.
Scritto durante un periodo particolarmente distruttivo della band, l’album è popolato da angeli caduti, vagabondi succhiasangue e amanti vendicativi – schizzi di persone in cui la band è sicuramente incappata durante il suo viaggio cosmico – ma il personaggio più presente è lo stesso Blackwell. “Myth Of A Man può essere riassunto come un’ostentazione personale di vulnerabilità e coscienza colpevole,” spiega, “che distrugge il mito di ciò che significa vivere e funzionare nella società.” Con i suoi audaci passi avanti Myth Of A Man funge da nuova introduzione alla band per come la conosciamo, la prova più evidente che nessuno sarà mai in grado di incasellare i Night Beats.





Blackswan, venerdì 30/11/2018

giovedì 29 novembre 2018

ROSANNE CASH - SHE REMEMBERS EVERYTHING (Blue Note, 2018)

Difficile fare musica ed essere credibile quando si indossa un cognome come quello di Cash. Nascere all’ombra di cotanto padre e vivere nel continuo paragone con la sua leggenda, è sicuramente stato d’aiuto a Rosanne per affacciarsi allo star system e ritagliarsi un importante fetta di pubblico e di visibilità; alla lunga, però, una così rilevante parentela, qualche problema lo crea.
Non è un caso, quindi, che la figlia di Johnny Cash, dopo gli inizi votati alla musica country, nel nuovo millennio si sia progressivamente staccata dalla tradizione famigliare, per intraprendere una seconda parte di carriera votata al verbo dell’Americana. Una nuova vita artistica, dunque, culminata quattro anni fa con lo splendido The River & The Thread, un'opera al contempo musicale e letteraria, che come le anse di un fiume o il dipanarsi di un filo di lana, ricongiungeva luoghi storici del profondo sud degli States, dalla Lousiana al Tennesse, dalla Georgia all'Alabama, ponendo al centro della narrazione le tradizioni, i profumi e i luoghi della memoria, dai campi di battaglia ai cimiteri, dagli studi della Sun Record in Memphis alla tomba di Robert Johnson, fino alla cittadina di New Albany, nel Mississippi, dove nacque il Nobel William Faulkner.
She Remembers Everything sposta il baricentro delle liriche su temi maggiormente intimi e personali, anche se da un punto di vista musicale la sostanza non cambia, a partire dalla collaborazione in fase di produzione di John Leventhal (coadiuvato da Tucker Martine), marito della Cash, e dalla presenza di ospiti d’eccezione, quali Kris Kristofferson (già presente nel precedente lavoro) ed Elvis Costello.
Americana, dunque, e ballate agrodolci, morbide, rilassate, appena punteggiate da qualche momento leggermente più elettrico, che fanno di questo She Remembers Everything un disco forse prevedibile, perché relegato in quella comfort zone a cui Rosanne ci ha ormai abituati, ma a tratti decisamente emozionante.
La classe, come si dice, non è acqua e la Cash ne ha da vendere, sia quando sfiora il cielo al crepuscolo con i vapori malinconici di The Only Thing Worth Fighting (superbo il lavoro alla chitarra di Tim Young), o si raccoglie nel ricordo nostalgico dei genitori nella struggente Everyone But Me, o accelera il passo nella rockeggiante 8 Gods Of Harlem, in duetto con Kris Kristofferson ed Elvis Costello.
Tutto come da copione e tanto mestiere, certo, ma anche la conferma di una straordinaria musicista, che ha saputo trovare lo scarto necessario per spossessarsi del proprio ingombrante passato, e intraprendere una strada parallela, percorsa sempre con stile e passione.

VOTO: 7





Blackswan, giovedì 29/11/2018

mercoledì 28 novembre 2018

PREVIEW




Sono passati quasi cinquant'anni dalla pubblicazione di Aqualung, quarto album in studio e vero e proprio best seller per la band capitanata da Ian Anderson. Per celebrare adeguatamente l'anniversario, la Rhino Records pubblicherà un deluxe edition in vinile che vedrà le stampe il 30 di novembre. Il packaging conterrà un booklet di 24 pagine, mentre la versione del disco è quella remixata nel 2011 da Steven Wilson.





Blackswan, mercoledì 28/11/2018

martedì 27 novembre 2018

THE REVIVALISTS - TAKE GOOD CARE (Loma Vista Recordings, 2018)

Solitamente, viene abbastanza spontaneo leggere New Orleans e pronunciare jazz. Tuttavia, i The Revivalists, pur essendo originari della città più famosa della Lousiana e nonostante gli otto elementi che compongono il combo, sono lontanissimi dall’essere una brass band. La loro, semmai, è una musica che, pur ereditando dal Sud un’inflessione decisamente soul, sta in bilico sul confine fra rock (non molto) e pop (tantissimo).
Formatisi nel 2007 e composti da Ed Williams (pedal steel guitar, chitarra), David Shaw (voce), Zack Feinberg (chitarra), Rob Ingraham (sassofono), George Gekas (basso), Andrew Campanelli (batteria), and Michael Girardot (tastiere e tromba), i The Revivalists sono arrivati oggi a pubblicare il loro quarto album, che corona una carriera in crescendo in termini di vendite e di ascolti (il loro penultimo Men Amongst Mountains ha ottenuto più di due milioni di ascolti su Spotify ed arrivato nella top five di Billboard Heatseekers).
Per questo nuovo lavoro, la band non ha badato a spese, e ha fatto le cose veramente in grande. Il disco, infatti, è stato registrato presso i mitici RCA Studios di Nashville e il gruppo si è avvalso del contributo di tre grandi produttori: il Re Mida del suono americano, Dave Cobb, Andrew Dawson (già al lavoro con Kanye West) e Dave Bassett (Elle King, Vance Joy). Una formula collaudata in mano a tre fuoriclasse come quelli citati non poteva che produrre un ottimo risultato, visto che Take Good Care ha iniziato a scalare le classifiche statunitensi e il primo singolo, All My Friends, è balzato alla prima piazza delle charts radiofoniche di Billboard.
Ed è questa, in fin dei conti, la vera essenza di un album che nasce proprio confezionato per le radio e per un pubblico più aduso a sonorità mainstream. Così, l’impatto per chi pensa di trovarsi di fronte a un disco di alternative rock (questa l’etichetta con cui vengono generalmente catalogati i The Revivalists) non sarà certo dei migliori: Take Good Care, infatti, è un disco di pop, leggero e accattivante, prodotto con moderna eleganza, ma privo completamente di quello spessore che lo renderebbe un prodotto fruibile per chi ama canzoni in cui la sostanza prevale sulla forma. Non fraintendetemi, non sto scrivendo di un disco di merda, ma di un lavoro, per quanto divertente, che viene buono ascoltare solo nei momenti votati al totale disimpegno. Quindici brani, per circa un’ora di musica, che puntano tutto sul refrain orecchiabile, impastando la materia pop con la farina (molto raffinata) della black music.
Se un paio di canzoni (Oh No e Future) sfoggiano chitarroni distorti e un’inclinazione molto power, che si scosta dal mood prevalente della scaletta, riuscendo a conquistarsi il podio delle cose migliori, il resto del disco, però, non supera un accettabile standard di prevedibile e innocua piacevolezza. Gli echi gospel dell’iniziale Otherside Of Paradise, che avvolgono un morbidissimo arpeggio di chitarra, danno la misura di una proposta che non riesce quasi mai a superare lo steccato radio friendly. Mood, questo, confermato nel singolone All My Friends, già citato, vestito di modernissimo r’n’b’, in Change, che si poggia su una vaga struttura funky, o in When I’m With You in cui la derivazione da un suono sixties è abbondantemente annacquata da una melodia ruffiana e furbetta.
Take Good Care, in definitiva, possiede una veste formale ineccepibile e raccoglie un filotto di potenziali hit, che suonano divertenti ma non lasciano il segno. La musica è anche divertimento e leggerezza, per carità, e tra l’altro, i The Revivalists hanno almeno il merito di non sbracare mai nel pacchiano o nel tamarro. Se, invece, cercate impegno, passione o originalità, meglio soprassedere e guardare altrove.

VOTO: 6





Blackswan, martedì 27/11/2018

lunedì 26 novembre 2018

IL MEGLIO DEL PEGGIO



Matteo (Renzi) non c'è, è andato via. Via dal congresso del Pd che chiuderà i battenti con le primarie per la scelta del nuovo segretario. Sono in lizza nomi altisonanti del calibro di Nicola Zingaretti, Marco Minniti e l'uscente Maurizio Martina. Ai favoriti per l'investitura si aggiunge il resto del mondo come i Boccia, i Richetti, senza escludere qualche outsider dell'ultima ora. La partita e' durissima, c'è in gioco il destino di un partito ormai liquefatto "orfano" di Renzi.

Lui, il senatore semplice di Scandicci, intanto se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato. Da primadonna della ribalta ora si cimenta in nuove esperienze, perlopiu' televisive. Tanto per tenere in esercizio il suo ego ipertrofico, il nostro Matteone ricomincia non da tre, ma da Nove. Alberto Angela ha un nuovo competitor: L'ex premier debutta a dicembre in tv in veste di documentarista sul canale Nove. 

La sua ultima fatica si intitola "Florence", un docufilm in 8 puntate dedicato alla città di cui è stato sindaco. Il nostro one man show ci delizierà sulle bellezze artistiche del capoluogo toscano con il piglio e la saccenza che lo contraddistingue. "La bellezza salverà il mondo, io ci credo davvero", scrive su Facebook. Noi, invece, ci appelliamo alla bellezza con la speranza che ci possa salvare da Renzi, ma a quanto pare l'impresa è assai ardua e non ci crediamo affatto.

Cleopatra, lunedì 26/11/2018

sabato 24 novembre 2018

PREVIEW




Prodotto dallo stesso Yorkston e da David Wrench, è il primo disco solista di James da Cellardyke Recording and Wassailing Society (CRAWS) 2014 e segue i due album-collaborazione che ha realizzato come Yorkston/Thorne/Khan e la pubblicazione del suo romanzo d’esordio “The Craw” nel 2016. Assieme all’annuncio, James ha condiviso il nuovo brano “My Mouth Ain’t No Bible”, uno dei tre elettrizzanti spoken-word del disco.
The Route To The Harmonium è stato registrato quasi interamente da Yorkston nel piccolo villaggio di pescatori di Cellardyke, in Scozia, dove vive. Il suo home studio è un vecchio loft sgangherato, utilizzato un tempo per riparare le reti dei pescatori, e ora pieno di strumenti antichi che James ha collezionato durante la sua vita. Avendo creato ore ed ore di registrazioni, James ha chiamato il suo vecchio collaboratore David Wrench – che ha lavorato con artisti del calibro di Caribou, Four Tet, Frank Ocean, FKA Twigs e David Byrne – per aiutarlo a dare un senso a tutto quel materiale.
Ne è uscito un album intensamente personale; è il suono di casa, dell’artigianato indisturbato. Se ascoltate attentamente, potete immaginarvi James mentre lo costruisce. Sovrapponendo le tracce di voce e di chitarra, aggiungendo dettagli con Dulcitones, armonium e autoharp, e con la nyckelharpa, strumento a corde tradizionale svedese regalatogli da un amico. E sono proprio gli amici e la famiglia, il passato e il presente, che nuotano in queste canzoni. Ricordarli, assieme a coloro con cui hai condiviso la vita, quelli che se ne vanno e quelli che rimangono, è il filo conduttore di queste canzoni affascinanti e straordinarie. Questo è il mondo di Yorkston e non potrebbe essere in altro luogo che non sia la musica.
“Come musicista e come scrittore, mi ritrovo a reagire a quello che mi succede attorno. Quindi, questo album parla della vita, la vita che si svolge attorno a me. C’è la famiglia, e l’essere lontani dalla famiglia che la vita di un musicista itinerante comporta… Ma ci sono anche riferimenti agli amici scomparsi – i come, i perché – e questo album parla di loro, ma soprattutto di noi, di noi che siamo rimasti indietro…”





Blackswan, sabato 24/11/2018

venerdì 23 novembre 2018

LARKIN POE - VENOM & FAITH (Tricki-Woo Records, 2018)

Se ancora non lo avete fatto, segnatevi subito il nome di queste due sorelle originarie di Atlanta: una è Rebecca Lovell, voce e chitarra, e l’altra è Megan Lovell, lapsteel, dobro e voce. Due sorelle che iniziano a suonare precocemente, visto che già nel 2005, poco più che ventenni, fondano le Lovell Sisters, e pubblicano due album indipendenti di cui si fa un gran parlare nel circuito del bluegrass e dell’americana. Lunghi tour, comparsate alla radio e in tv e un successo che aumenta concerto dopo concerto.
Nel 2009, la svolta: le due ragazze, che fra i loro antenati vantano niente meno che lo scrittore Edgar Allan Poe, cambiano nome in Larkin Poe, dedicando il nome della band al loro bis bis bis nonno, cugino del grande poeta e novellista bostoniano. In tre anni, dal 2010 al 2013, pubblicano una manciata di Ep e finalmente nel 2014, vengono messe sotto contratto dalla Restoration Hardware, con cui rilasciano il loro album d’esordio.
Questa, per sommi capi, la storia che ha portato le due sorelle alla ribalta del mercato statunitense e a conquistarsi le prime pagine delle riviste specializzate. Un successo, anche mediatico, confermato dall’ottimo Peaches dello scorso anno, e ribadito da questo nuovo Venom & Faith, che porta a compimento il processo di crescita del duo e si presenta alle orecchie degli ascoltatori con le stigmate dell’istant classic. Venom & Faith è un disco di blues, meglio mettere le mani avanti, che probabilmente farà storcere il naso a molti ortodossi.
Le due sorelle Lovell, infatti, camminano in bilico fra tradizione e innovazione, plasmando le classiche dodici battute con grande modernità e azzardi stilistici che suonano decisamente anomali rispetto alla consueta visione del genere. Insomma, da un lato l’attenzione filologica alle radici è rispettata, dall’altro, però, c’è il tentativo di plasmare la materia per renderla più attuale, facendo ricorso ad un pizzico di elettronica e a ritmiche, talvolta, anche molto vicine a quelle dell’hip hop.
Le Larkin Poe, mi permetto di azzardare il paragone, fanno esattamente ciò che anni fa fecero i White Stripes di Jack White: modernizzano un suono antico, avvicinando la grande tradizione blues alle orecchie dei più giovani. Ciò non significa stravolgere tutto, e ci mancherebbe, ma aggiungere nuove spezie per ravvivare un sapore già noto.  
Il disco parte con la cover di Sometimes di Bessie Jones e capisci fin da subito il talento di queste due ragazze: brano classicissimo, handclaps primordiale, afrori sudisti, sensazione di campi di cotone e sferragliare di catene, la voce roca di Rebecca che giunge al cuore come un antico mantra. Viene evocata la rilettura che ne fece Moby nel suo splendido Play (1999), certo, ma le ragazze hanno un guizzo da fuoriclasse, quando gonfiano il pezzo con ritmica marziale e con una saltellante partitura di fiati in chiave New Orleans, che spinge la canzone in una dimensione parallela a quelle fino a oggi conosciute.
Se Beach Blonde Bottle Blues con il suo irresistibile beat suona selvaggio, graffiante e sensuale, innervando di energia un classicissimo standard, le atmosfere notturne di Honey Honey introducono un sorprendente utilizzo della batteria elettronica che contrasta con il mood paludoso e serpeggiante del brano, creando un effetto agghiacciante, tagliente ed evocativo. Le due ragazze sanno giocare meravigliosamente con gli stereotipi del blues (la slide e la polvere di Mississippi), salvo poi irrorare tensione la cupa ballata California King, un brano che rimane in bilico fra roots (l’inconfondibile suono della resofonica) e appeal mainstream. L’omaggio al Sud di Blue Ridge Mountains trasuda tradizione e baldanza campagnola, mentre la spettrale e inquietante Fly Like An Eagle porta a compimento l’ibridazione fra blues e hip hop. Un effetto straniante, che fa da antipasto alla splendida Ain’t Gonna Cry, lento e sofferto blues al neon che cresce e si gonfia di inquieti umori elettronici.
Il disco si chiude con la tradizione di Hard Time Killing Floor Blues e Good And Gone, due brani che odorano di profondo Sud e chiosano un lavoro avventuroso, intelligente e sanguigno, che pone le Larkin Poe tra le più audaci e interessanti interpreti del genere in circolazione. 

VOTO: 8





Blackswan, venerdì 23/11/2018

giovedì 22 novembre 2018

PREVIEW



Se il tuo primo singolo – l’unica canzone che tu abbia mai pubblicato – va al n. 1 delle più importanti classifiche e diventa un successo internazionale, che cosa fai? Per prima cosa, dovresti pubblicare altri brani. Ma per Alice Merton l'uscita di “No Roots” (per molti mesi in Italia ai primi posti della classifica radio, Shazam, Spotify e iTunes) e successivamente di Lash Out - singolo che ha confermato il talento di Alice, riportandola di nuovo ai primi posti delle classifiche - ha innescato una folle corsa tra concerti intercontinentali, interviste e performance televisive. Nel frattempo, Alice scrive e registra canzoni per il debut album tutte le volte che ha un briciolo di tempo libero. E finalmente ci siamo: MINT è in uscita il 18 gennaio per Paper Plane Records Int. 

In MINT, la travolgente storia di Alice Merton si riflette nelle nuove canzoni.
Alcune parlano del crescere, del lungo girare”, osserva la cantante anglo-tedesca, “ma molte altre raccontano le difficoltà che abbiamo avuto iniziando con la label, quando ci si trova a dimostrare a tutti quanto vali”. Mentre studia all’University of Popular Music and Music Business, Alice Merton fonda infatti la Paper Plane Records Int. insieme al suo migliore amico e manager Paul Grauwinkel e crea canzoni a fianco del coautore e produttore Nicolas Rebscher. Molti rappresentanti della discografia non hanno inizialmente apprezzato No Roots – "dura un minuto di troppo! Elimina le chitarre!" –, ma quando è salita in cima alla Alternative Songs Chart di Billboard negli Stati Uniti e nelle Top Ten di altri nove Paesi, collezionando oltre 300 milioni di stream e vendendo quel milione di copie che hanno portato al Disco di Platino in sette nazioni, hanno dovuto cambiare idea.

Come per “No Roots”, i groove contagiosi di basso fanno vibrare MINT, mentre l’elegante e versatile voce di Alice Merton e i suoi testi autobiografici offrono consigli sinceri e sprazzi di ambizione. L’inno di “2 Kids” saluta i vecchi tempi, quando girava a piedi con Grauwinkel; “Funny Business” arruola il producer John Hill (co-producer e co-autore di “Feel It Still” di Portugal. The Man) per un joyride da applaudire che rivaleggia con il carisma della hit del 2017. “Why So Serious”, balla lo shimmy intorno ai detrattori dell’industria musicale, che non sono ancora riusciti a fermarla.





Blackswan, giovedì 22/11/2018

mercoledì 21 novembre 2018

AMANDA SHIRES - TO THE SUNSET (Silver Knife Records, 2018)

A differenza di molti artisti che, grazie a un imponente battage mediatico, trovano fin da subito successo e rilevanza commerciale, Amanda Shires si è conquistata, lentamente e a fatica, un proprio spazio nella canzone d’autore americana.
Una crescita costante, che le è valsa la stima di molti colleghi (le sue collaborazioni sono numerosissime e spaziano da artisti del calibro di Blackberry Smoke, Tommy Emmanuel, John Prine, Texas Playboys, Devotchka, etc.), e le ha consentito di svincolarsi dallo scomodo appellativo di ”la moglie di Jason Isbell”.
Già, perché Amanda, particolare non da poco, è sposata con l’ex Drive-By Truckers, e milita anche nella sua backing band, i The 400 Unit, con cui quest’anno ha vinto un Grammy per The Nashville Sound e ha pubblicato anche uno straordinario disco dal vivo intitolato Live From The Ryman. Arrivata al suo ottavo disco solista, il primo da quando è diventata mamma della piccola Mercy Rose, Amanda rilascia quello che probabilmente è il suo lavoro migliore, di sicuro il più consapevole e quello che riassume ed espone tutte le sfumature del songwriting di questa versatile musicista.
Anche in questo caso, come era successo per il precedente My Piece Of Land, torna in cabina di regia il re Mida del suono americano, Dave Cobb, certificando, come quasi sempre accade, la qualità della proposta. Se però il predecessore era un disco prevalentemente acustico, morbido e malinconico, attraverso il quale Amanda rifletteva sui timori e le gioie che accompagnavano la futura gravidanza, To The Sunset risulta decisamente più sfaccettato e imprevedibile, mostrando in tutta la sua spavalda forza anche il lato  rock ed elettrico della Shires.
Basterebbe anche un confronto fra le due copertine degli album citati, per comprendere la diversa immagine che Amanda vuole dare di se stessa: al viso semplice e non truccato della futura madre, qui si sostituisce il corpo sfocato tra svolazzi di colore, la mise glamuor e quel rossetto rosso porpora che evoca sensualità. Non ci si sorprende, dunque, se queste canzoni perdono di intimismo e famigliarità per spingersi verso intriganti confini sonori e atmosfere decisamente più cupe ed evocative, agevolate dalla produzione di Cobb e dalla presenza del marito Jason Isbell, che presta la sua chitarra a molte della canzoni del lotto.
Il disco si apre con la straordinaria Parking Lot Pirouette, ballata notturna che racconta la fine di una storia d’amore, in cui Amanda veste di nuovi colori il pezzo forte del suo songwriting: atmosfere quasi pinkfloydiane, il suono della chitarra registrato al contrario, la voce leggermente sfocata da un effetto eco e scariche elettriche che innervano di tensione il brano. Da brividi.
C’è un mood decisamente malinconico, talvolta crepuscolare, che ammanta alcune delle migliori canzoni in scaletta, come succede in Swimmer (rivisitazione di un brano già comparso su Carrying Lightning del 2011), racconto di un amore intenso ma non corrisposto (“Giuro che annegherò solo per averti” canta con evidente tristezza, Amanda), in White Feather, riflessione sull’incomunicabilità (“È facile essere silenziosi e tacere, quando si ha paura di quello che non si comprende”) o nella conclusiva, ruvida e straziante, Wasn’t Paying Attention, cronaca senza filtri del suicidio di un tossicodipendente.
E ci sono, poi, contrasti riuscitissimi, come quello fra Charms, ukulele, voce e melodia avvolta da leggeri tocchi elettronici, e l’urlo belluino che apre la successiva Eve’s Daughter, terremoto elettrico che travolge con la chitarra di Isbell, che rispolvera il suono Drive-By Trucker. Un disco vario, dunque, in cui la scrittura della Shires trova una definitiva maturità, sia da un punto di vista testuale (liriche dure, che scandagliano l’animo umano raccontando storie al limite) che musicale: per la prima volta c’è molto più rock che Americana, e c’è la necessità di uscire dai consueti steccati, sperimentando inconsuete sonorità (la citata Parking Lot Pirouette, e la livida elettricità new wave di Take On The Dark).
Insomma, a casa Isbell/Shires le cose vanno a gonfie vele: fioccano ottimi dischi perché entrambi, evidentemente, cercano di dimostrare di meritarsi l’amore e l’attenzione dell’altro. Una sfida in famiglia che produce un surplus di creatività e rende molto felici tutti i fan. 

VOTO: 7,5





Blackswan, mercoledì 22/11/2018

martedì 20 novembre 2018

PREVIEW




Il musicista e cantautore Andy Burrows e l’autore di bestseller Matt Haig annunciano il loro album collaborativo Reasons To Stay Alive, in uscita il 01 febbraio su Fiction Records/ Caroline International, distribuzione Universal. I due, dopo essersi conosciuti su Twitter, hanno trascorso gli ultimi anni condividendo idee per creare una raccolta di brani ispirati agli amati romanzi di Matt Haig, tra cui Reasons To Stay Alive e How To Stop Time, con i testi di Haig e le musiche di Burrow. Il primo singolo tratto dall’album “Barcelona” è disponibile ora. Andy Burrows portarà il nuovo album in tour da febbraio. In Italia avremo la possibilità di vederlo live il 29 novembre al Paladozza di Bologna, in apertura agli Editors.

Reasons to Stay Alive è un progetto unico con i suoi richiami ai tema e alle influenze del libro autobiografico di Haig: un cantautorato ricco, colorato e coraggioso. Con richiami che vanno da Elton John ai Supertramp, passando per i Queen, l’album è caratterizzato da un sottofondo  che non potrebbere essere più rilevante nel mondo di oggi. Insieme, Burrows e e Haig raccontano storie d’amore, viaggiano nel tempo e nello spazio, celebrano le anime gemelle e si muovono in modo deciso negli angoli più sensibili della mente.

Dopo la prima fase di scrittura a L.A., Burrows ha composto l’album a casa sua a Hackeny, con il suo piano e lo ha registrato in un fienile a Wittersham, nel Kent con il suo amico e collaboratore di lunga data Tim Baxter (che ha lavorato ai suoi precedenti album Company, Funny Looking Angels e alla colonna sonora per The Snowman and the Snowdog). Burrows ha suonato molti degli strumenti presenti – tastiere, chitarra e batteria – mentre Dom Howard il batterista dei Muse e il chitarrista dei We Are Scientists (di cui Burrows è ex membro) Keith Murray appaiono come ospiti. Tom Smith degli Editors ha contribuito ai cori, Joe Auckland della band jazz The Horne Section ha suonato il flicorno soprano e Max Clilverd è presente ai soli di chitarra aggiuntivi.





Blackswan, martedì 20/11/2018

lunedì 19 novembre 2018

IL MEGLIO DEL PEGGIO





Confesso che la dichiarazione di Alessandro Di Battista, verso il quale non ho alcun preconcetto, mi ha lasciata un po' sbalordita. E non tanto per il ricorso a un sostantivo (peraltro di largo uso nel comune linguaggio) che evoca il mestiere più antico del mondo, quanto per categorizzare certi giornalisti, rei di avere infangato la sindaca Virginia Raggi, assolta con formula piena dall'accusa di falso documentale per la nomina di Renato Marra alla direzione del dipartimento Turismo del comune di Roma. Siamo tutti d'accordo che in Italia il fenomeno di editori in conflitto di interessi sia diffuso ma lasciarsi andare ad apprezzamenti dal sapore sessista lascia amareggiati. 
E non perché sia una femminista dell'ultima ora. Se Dibba, da libero cittadino qual è attualmente, esprime un'opinione più o meno condivisibile nei toni possiamo anche storcere il naso, ma quando un vicepremier, nonché ministro, aggiunge un carico da 90 definendo i giornalisti "infimi sciacalli", mi pare che il ruolo istituzionale sia andato a farsi benedire. E non nel senso che intende Silvietto quando agita lo spettro di anticamera della dittatura. 
Viene da ridere: il bue dice cornuto all'asino. L'editto bulgaro che segno' la cacciata dalla Rai di Santoro, Luttazzi e Biagi, e'ancora impresso nelle nostre menti. Così come la recente epurazione di Paolo Del Debbio, Mario Giordano e Maurizio Belpietro, rei della sconfitta elettorale di Forza Italia a causa delle loro presunte simpatie per il Carroccio. 
A questo scenario squallido si aggiunge a pieno titolo il Pd renziano con l'allontanamento di Massimo Giannini, dopo le polemiche seguite alla puntata del programma televisivo sul caso Etruria e l'allora ministra Boschi. Tutto il mondo è paese, dunque, e i giornalisti non sono tutti santi. Nel caso del Movimento 5 Stelle che si professa in totale discontinuita' col passato, e' mancata la forma. Apostrofare i nemici con epiteti offensivi e spregevoli non è pertinente con una carica istituzionale. Diceva Oscar Wilde: "Avere avuto una buona educazione, oggi, e' un grande svantaggio. Ti esclude da tante cose". Il fatto grave e' che le persone educate sembrano ormai escluse da tutto.

Cleopatra, lunedì 19/11/2018