Ad
 ascoltare questo disco a scatola chiusa, senza sapere chi sia Steve 
Gunn e l’anno di uscita, verrebbe da collocare le nove canzoni che ne 
compongono la scaletta in un tempo molto lontano. Tutto, infatti, 
risulta incredibilmente vintage, a partire dalla bella copertina, che 
immortala il songwriter di Brooklyn nell’atto di aprire la custodia 
della chitarra, trasmettendo subito un senso di musica artigiana, 
costruita con semplicità, senza artifici, come si faceva una volta.
Se
 è vero che Gunn, come molti colleghi a lui assimilabili (su tutti Ryley
 Walker, Jonathan Wilson e Kurt Vile, ex compagno d’avventura nei 
Violators) identifica il presente di una narrazione americana dagli 
accenti psych-folk, è indubitabile che questa musica altro non sia che 
la rielaborazione di quel linguaggio avuto in eredità da straordinari 
artisti quali John Fahey e Robbie Basho.
Giunto
 al quindicesimo album in carriera (non dimenticando anche svariate e 
importanti collaborazioni con Michael Chapman, His Golden Messengers, 
Mike Cooper, etc) Gunn, infatti, ripropone con coerenza un’idea di 
musica ostinatamente derivativa, ma trova, però, in The Unseen In Between
 il punto più alto della propria poetica, una maturità piena, quindi, 
sia in termini compositivi che di suono. Non è un caso, sotto questo 
aspetto, l’altissimo profilo della backing band che accompagna il 
musicista di Brooklyn: il chitarrista e produttore James Elkington, il 
bassista di Bob Dylan, Tony Garnier, la vocalist Meg Baird, il 
tastierista Daniel Schlett e il batterista TJ Mainani.
Composizioni
 di ampio respiro, in cui la band giostra con mestiere intorno alla 
chitarra di Gunn, che cesella le melodie, prendendo spunto da semplici 
riff, quasi fossero l’abbrivio per fluttuare leggeri nell’aria (Morning Is Mended), aggomitolarsi intorno a una suntuosa linea di basso (New Moon)
 o irruvidirsi in una potente coda elettrica che cresce impetuosa dopo 
essersi divincolata dal lisergico groviglio psichedelico (New Familiar).
Se
 Gunn mette al servizio dell’album, oltre a riuscite composizioni, la 
bella voce e la straordinaria tecnica chitarrista, una nota di merito 
spetta anche alla produzione di James Elkington, la cui visione 
alchemica bilancia alla perfezione strumenti elettrici e acustici, 
contrappunto d’archi e voci evocative e spettrali. Un melange ipnotico 
che trascina l’ascoltatore in un vortice sonoro di quarantacinque minuti
 e che crea un’atmosfera quasi surreale che persiste ben oltre la fine 
dell’ascolto.
VOTO: 7
Blackswan, lunedì 28/01/2019 

Nessun commento:
Posta un commento